mercoledì 30 ottobre 2019

COMMENTO AL CANTO XVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch'avea incontro a sé udito,
quel ch'ancor fa li padri a' figli scarsi,
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Il canto XVII inizia con un richiamo al mito di Fetonte il quale, secondo la leggenda, credeva di essere figlio del Sole e, quando Epafo lo smentì, corse da sua madre (Climene) per sapere la verità; Fetonte è quel ch'ancor fa li padri a' figli scarsi, cioè è l'esempio che spinge i padri a non essere condiscendenti verso i figli, questo perché il mito narra che volle guidare il carro del Sole e precipitò nell'Eridano. Il poeta si paragona a Fetonte perché, così come il personaggio mitologico corse dalla madre ansioso di conoscere la verità, lui è preso dalla smania di conoscere il proprio futuro e ovviamente questa sua voglia è nota a Beatrice e a Cacciaguida (la santa lampa che pria per me avea mutato sito). La donna lo esorta a esporre il proprio pensiero, non perché loro non sappiano cosa voglia, ma perché deve abituarsi a manifestare i propri desideri affinché possano essere esauditi ("Per che mia donna "Manda fuor la vampa / del tuo disio>> mi disse, <<sì ch'ella esca / segnata bene de la interna stampa; / non perché nostra sconoscenza cresca / per tuo parlare, ma perché t'ausi / a dir la sete, sì che l'om ti mesca.>>). Senza esitare, Dante segue l'esortazione di Beatrice e si rivolge a Cacciaguida, designandolo come una pianta cara che si erge verso l'alto, che vede il futuro con la stessa chiarezza con cui le menti sanno che in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi, perché lo vede guardando in quel punto (Dio) dove ogni tempo è presente; gli chiede notizie circa il proprio futuro, visto che durante il viaggio fatto con Virgilio nel Purgatorio (su per lo monte che l'anime cura) e nell'Inferno (discendendo nel mondo defunto), più volte gli è stata accennata una profezia nefasta, poi specifica che è pronto ad affrontare qualsiasi sventura, ma vuole saperlo perché il colpo, quando è previsto, sembra arrivare più lentamente. 
Cacciaguida, quell'amorevole antenato (quello amor paterno), non risponde usando il linguaggio oscuro degli oracoli da cui si lasciava guidare la gente pagana, prima che l'Agnello di Dio compisse il sacrificio che portò alla Redenzione, ma parla esprimendosi chiaramente, chiuso eppure visibile nella luce del proprio gaudio ("Né per ambage, in che la gente folle / già s'invischiava pria che fosse anciso / l'Agnel di Dio che le peccata tolle, / ma per chiare parole e con preciso / latin rispuose quello amor paterno, / chiuso e parvente del suo proprio riso"). Cacciaguida comincia il suo discorso spiegando che nella visione divina ci sono tutti gli eventi che accadranno sulla Terra, ma questo non rende tali eventi necessari, così come una barca che discende lungo la corrente non deve farlo a causa degli occhi che la osservano (in parole povere, specifica che la visione del futuro da parte di Dio non esclude l'esistenza del libero arbitrio dell'uomo), poi racconta come le immagini del futuro di Dante gli giungano simili alla dolce armonia di un organo (pur essendo visioni nefaste, sono qualcosa di estasiante per l'anima beata perché provengono da Dio). 
Fatta la premessa, Cacciaguida comincia il racconto: così come Ippolito fu esiliato da Atene a causa della spietata madre, che lo accusò di aver cercato di sedurla, Dante dovrà lasciare Firenze. Il suo esilio è già desiderato e già ci stanno lavorando là dove tutto il giorno mercanteggiano sulle cose sacre ("Questo si vole e questo già si cerca, / e tosto verrà fatto a chi ciò pensa / là dove Cristo tutto dì si merca"): il riferimento in questo caso è alla decisione di Bonifacio VIII di inviare a Firenze Carlo di Valois come legato papale, aprendo la strada all'esilio dei Guelfi bianchi e perciò a quello del poeta. Agli esiliati sarà addossata la colpa dei mali della città, ma la vendetta divina che dopo cadrà su Firenze servirà a testimoniare quanto ciò sia falso; in questo caso c'è forse un riferimento a Corso Donati e alla sua morte. Il primo dolore dell'esilio (quello strale che l'arco de lo esilio pria saetta) sarà abbandonare tutte le cose care. Dante proverà quanto è amaro il pane donato dagli altri e scoprirà quanto è duro scendere e salire le scale degli altri ("Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale"). Ciò che lo farà soffrire di più sarà l'essere sospettato e malvisto dai suoi compagni di sventura, i quali non condivisero la sua idea di essere pazienti e attendere un'occasione propizia per tentare il rientro, ma saranno loro successivamente a doversi vergognare (quando il loro tentativo di rientro fallirà miseramente) e per lui si rivelerà un bene essersi separato da loro. Il primo luogo dove sarà ospitato sarà presso la corte di Bartolomeo della Scala (gran Lombardo), che sullo stemma della sua casata, cioè la scala, poté porre l'aquila dell'impero (il santo uccello) perché fu fatto vicario imperiale da Arrigo VII; Bartolomeo sarà così benevolo nei confronti dell'ospite da esaudirne i desideri ancor prima che siano espressi, al contrario di come avviene normalmente. Alla corte di Bartolomeo, rivela Cacciaguida, Dante vedrà colui che è nato sotto l'influsso di Marte, diventando perciò destinato a una vita di grandi imprese militari; il riferimento è a Cangrande della Scala, fratello minore di Bartolomeo, che con le sue imprese estese i domini del casato. La gente ancora non si è accorta della grandezza di Cangrande, questo perché da quando è nato sono passati solo nove anni, ma prima che Clemente V (definito Guasco perché originario della Guascogna) si opponga con l'inganno all'incoronazione di Arrigo VII di Lussemburgo, inizierà a circolare la sua fama di uomo poco attratto dalla ricchezza e ben capace di affrontare le fatiche (la sua virtute in non curar d'argento né d'affanni). Saranno tanto straordinarie le opere di Cangrande che neanche i suoi nemici potranno evitare di parlarne; Cacciaguida raccomanda a Dante di affidarsi ai suoi benefici, poi gli rivela che muterà secondo giustizia le condizioni di tanta gente, sia ricchi che mendicanti, infine gli rivela altre cose (cose incredibili) che però gli raccomanda di non rivelare a nessuno. Il beato termina la profezia dicendo al poeta che questa è la spiegazione delle parole che gli erano state dette in precedenza circa il suo destino, lo invita però a non serbare rancore nei confronti dei concittadini, perché lui e la sua fama vivranno abbastanza per veder punita la loro perfidia. 
Nel momento in cui Cacciaguida tace, mostrando di aver finito di mettere la trama nella tela di cui lui gli aveva posto l'ordito, Dante gli manifesta un altro dubbio: gli si prospetta un futuro duro i cui colpi saranno tanto più gravi quanto meno lui sarà preparato a subirli, per questo gli conviene essere previdente e non inimicarsi potenziali futuri amici coi suoi versi, ma nel corso del suo viaggio nell'oltretomba ha udito cose molto gravi che per molti sulla Terra avranno un sapore aspro, e allo stesso tempo teme che, tacendo le verità che ha udito, perderà il diritto ad accedere tra i beati. Il poeta è preda di un dilemma morale: mantenere la propria indipendenza e denunciare coi suoi versi la corruzione della società, non risparmiando signori e personaggi influenti, oppure auto-censurarsi per non crearsi nuovi nemici. Il dubbio di Dante è quello che da sempre è il bivio a cui si deve fermare un intellettuale, perché analizzare spietatamente il mondo porta sempre a esprimere giudizi duri, e questo inevitabilmente crea nemici. Nell'ambito del poema il dilemma è ancora più duro, perché a lui è stata affidata la stesura della Commedia come missione sacra, disattenderla perciò lo condurrebbe a sicura dannazione, così come obbedire gli causerebbe certamente gravi problemi in vita.
Sentite le parole di Dante, la luce di cui brilla Cacciaguida (il mio tesoro) aumenta d'intensità, come uno specchio d'oro colpito da un raggio di sole. Gli spiega che le coscienze sporche delle colpe proprie o altrui di certo troveranno sgradevoli le sue parole, nonostante ciò lui deve narrare ciò che ha visto nei tre regni senza riguardo per nessuno (rimossa ogne menzogna) e lasciare che ognuno patisca i rimorsi nati dalle proprie colpe (e lascia pur grattar dov'è la rogna). I suoi versi all'inizio risulteranno indigesti, ma si riveleranno un nutrimento vitale per le anime una volta che saranno stati compresi e assimilati; la sua voce sarà come il vento, che percuote maggiormente le cime più alte (darà più fastidio ai potenti), e questa polemica sarà un motivo d'onore. Cacciaguida rivela poi come al poeta siano state mostrate le anime di personaggi importanti perché è impossibile ammaestrare la gente citando personaggi sconosciuti e fatti di cui non si sa nulla; era necessario coinvolgere persone ed eventi già noti a tutti.

Con il canto XVII si conclude il trittico di canti dominato dalla figura di Cacciaguida.
In questi canti molto spazio si è dato alla nobiltà della famiglia Alighieri e al rimpianto per la Firenze antica e virtuosa, ma tutto è servito da introduzione ai versi di questo canto, quelli in cui Dante ha affrontato apertamente e per esteso il dramma del proprio esilio. La sua vicenda personale, grazie ai due canti precedenti, si scontra con l'immagine di una città pura e non corrotta, modellando l'intera vicenda nella forma di una grave ingiustizia commessa nei confronti di un uomo nobile e onesto.
Dobbiamo ricordare che oltre alla gravità dell'esilio in sé, a tormentare Dante ci fu anche l'accusa che gli fu mossa, cioè quella di baratteria (la corruzione nell'esercizio del proprio lavoro di pubblico funzionario), che per il suo modo di vedere era tremendamente infamante. Attraverso le parole di Cacciaguida, Dante ci ha indicato i responsabili della sua cacciata, il dramma di chi scopre come sa di sale lo pane altrui, e ha esaltato la figura di colui che gli ha dato ospitalità.

Francesco Abate  

giovedì 24 ottobre 2019

COMMENTO AL CANTO XVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

O poca nostra nobiltà di sangue,
se gloriar di te la gente fai
qua giù dove l'affetto nostro langue,
mirabil cosa non mi sarà mai;
ché là dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai.
Il canto XVI del Paradiso si apre con l'autore che esprime la propria gioia nell'aver appreso della nobiltà della propria famiglia; se ne gloria lui nel cielo, dove l'amore non è mai distolto dalle reali virtù (dove appetito non si torce), quindi non c'è da stupirsi se sulla Terra (dove l'affetto nostro langue) è giudicata una cosa così importante. La nobiltà di sangue è paragonabile a un mantello che si accorcia rapidamente, scrive ancora il poeta, perciò bisogna accrescerla di giorno in giorno con le opere, altrimenti il tempo taglierà via tutto con la propria forbice ("Ben se' tu manto che tosto raccorce; / sì che, se non s'appon di die in die, / lo tempo va dintorno con le force"). 
Dante si rivolge nuovamente a Cacciaguida, stavolta dandogli del "voi" e non del "tu", sia perché ne riconosce la nobiltà di cavaliere crociato sia perché ora sa di rivolgersi a un suo antenato; quella del "voi", commenta il poeta, è un'usanza che nacque a Roma (secondo la tradizione, fu usato per la prima volta per salutare Giulio Cesare vincitore) e che ora gli italiani stanno perdendo (in che la sua famiglia men persevera). Beatrice, sentendo quel mutamento di tono, sorride benevolmente mentre se ne sta in disparte, richiamando alla mente del poeta la dama di Malohaut, la quale assistette al primo incontro compromettente (al primo fallo scritto - cioè a quello che secondo gli scritti fu il primo incontro tra due innamorati) tra Lancillotto e Ginevra e tossì per far capire al cavaliere che ne aveva compreso le intenzioni. Al suo antenato, le cui parole lo hanno riempito di grande gioia, chiede prima notizie della vita, poi il racconto di com'era Firenze allora e di quali erano le famiglie più nobili. Accennando a Firenze, Dante parla di ovil di San Giovanni, questo perché si narra che nella Firenze ricostruita fu il primo ovile la porta del Duomo, inoltre san Giovanni è il santo protettore della città.
Sentita la richiesta del discendente, Cacciaguida si illumina come i carboni ardenti da cui divampa la fiamma quando si alza un po' di vento; diventa più bello e parla con voce più soave, pur non esprimendosi nel volgare fiorentino moderno (ma non con questa moderna favella). 
L'avo di Dante parte dal racconto della sua vita. Dal giorno dell'Annunciazione, quando l'arcangelo Gabriele disse "Ave" a Maria, al giorno in cui sua madre (ora santa) lo mise al mondo, Marte (questo foco) tornò nella costellazione del Leone cinquecentottanta volte (al suo Leon cinquecento cinquanta e trenta fiate venne questo foco a rinfiammarsi). Per dedurre la data di nascita di Cacciaguida, dobbiamo tener conto che tradizionalmente all'epoca si riteneva il 25 marzo come giorno dell'Annunciazione, inoltre Marte compie il suo moto di rivoluzione in 686,94 giorni; l'avo di Dante era perciò nato, stando a questi versi, il 25 marzo del 1091. Racconta poi che i suoi antenati e lui nacquero nel luogo (Sesto di porta San Pietro) dove chi corre il palio incontra per primo l'ultimo Sesto; dei suoi antenati è sufficiente sapere questo, cioè che furono abitanti dell'antica Firenze ("basti de' miei maggiori udirne questo; / chi ei si fosser e onde venner quivi, / più è tacer che ragionare onesto"). 
Cacciaguida spiega che all'epoca i cittadini adatti a portare le armi residenti tra il Ponte Vecchio, dove sorgeva una statua di Marte, e il battistero di San Giovanni, quindi entro i confini della Firenze di allora, erano un quinto di quelli attuali; era però una cittadinanza di fiorentini puri, non mischiati con abitanti di Campi Bisenzio, Certaldo e Figline. Sarebbe stato meglio che quei fiorentini fossero rimasti entro i confini ristretti dell'epoca (Galluzzo e Trespiano erano due villaggi nei pressi di Firenze), invece di dover sopportare la vergogna di Baldo d'Aguglione e di Fazio dei Morubaldini da Signa, che ha già l'occhio pronto per barattare. Circa la figura di Baldo, è importante spendere due parole: fu un uomo politico fiorentino condannato a un anno di confinio per falso in atto pubblico; dopo la condanna tornò a condurre un'attiva vita politica, abbandonò i Guelfi bianchi alla venuta di Carlo di Valois e, quando con una riforma approvò una lista di esiliati a cui era concesso il rientro in città, ne escluse Dante. Cacciaguida continua dicendo che se la Chiesa, colei che più spesso di tutti devia dal bene (la gente ch'al mondo più traligna) non si fosse opposta all'impero, ma si fosse comportata nei suoi confronti come una madre amorevole, certi nuovi fiorentini che eccellono nel cambiare valute e nel mercanteggiare sarebbero rimasti a Simifonti, dove i loro antenati chiedevano l'elemosina; il riferimento in questo caso è alla distruzione del castello feudale di Simifonti del 1202, dovuta secondo Dante alla politica ecclesiastica, che portò gli abitanti di quella località a riversarsi in Firenze e diventare lì mercanti (alcuni pensano anche a un riferimento alla famiglia dei Velluti, cambiatori di valuta). Sempre se la Chiesa avesse lasciato agire correttamente l'impero, il castello di Montemurlo sarebbe ancora dei conti Guidi, la famiglia dei Cerchi sarebbe ancora nella Pieve (nel piover) di Acone, e forse i Buondelmonte sarebbero ancora nel castello di Montebuoni in Val di Grieve. La mescolanza delle genti fu sempre causa dei mali di una città, così come altro cibo disturba lo stomaco che sta già digerendo; un toro cieco (simbolo della forza di una popolazione avida) inciampa e cade più spesso di un agnello cieco (simbolo di una popolazione umile), e una sola spada (simbolo di un'unica gente) spesso taglia meglio di cinque spade (la Firenze quintuplicata dei tempi moderni). 
Cacciaguida porta l'esempio di alcune città: se Dante considera come sono andate in rovina Luni e Ubisaglia, e come stanno crollando adesso Chiusi e Senigallia, non gli sembrerà di vedere nulla di nuovo visto che tutte le città hanno una fine; tutte le cose umane hanno un termine, così come la vita umana, ma per alcune ce ne dimentichiamo perché durano molto più della vita di un uomo ("Le vostre cose tutte hanno lor morte, / sì come voi; ma celasi in alcuna / che dura molto, e le vite son corte"). La Provvidenza cambia Firenze come il sole e la luna alzano o abbassano le acque dei mari, perciò il poeta non deve meravigliarsi che le famiglie illustri di cui parlerà siano ormai decadute e dimenticate. A questo punto Cacciaguida elenca le famiglie illustri che conobbe ai suoi tempi: gli Ughi, i Catellini, i Filippi, i Greci, gli Ormanni, gli Alberighi (che erano importanti anche se già in decadenza), i Sannella, i Dell'Arca, i Soldanieri, gli Ardinghi e i Bostichi. Alla porta di San Pietro, dove ora sono i Cerchi, gente faziosa e traditrice che caricherà Firenze di un peso così grave da farla affondare, c'erano i Ravignani, da cui è disceso il conte Guido Guerra e tutti coloro che hanno preso il nome da Bellincione Berti. La famiglia della Pressa sapeva già come si deve governare; mentre la famiglia Galigai aveva in casa l'elsa e l'impugnatura della spada dorata, era cioè composta da cavalieri. Era già grande lo stemma dei Pigli (la colonna del Vaio), i Sacchetti, i Giuochi, i Fifanti, i Barucci, i Galli e i Chiaramontesi, che ancora si vergognano per la truffa dello staio (tolsero una doga allo staio, frodando la gente con false misurazioni). Il ceppo da cui nacquero i Donati (i Calfucci) era già grande, i Sizi e gli Arrigucci accedevano già alle cariche politiche. Erano grandi, ricorda con nostalgia, gli Uberti (quel che son disfatti per lor superbia) e i Lamberti, il cui stemma raffigurante palle d'oro su sfondo azzurro compariva in tutte le grandi imprese della città. Così facevano gli antenati di coloro (i Tosinghi e i Tosa) che ora approfittano della sede vescovile vacante per accaparrarsi nuovi diritti. Gli arroganti Adimari (L'oltracotata schiatta), che si accaniscono come draghi contro chi fugge e diventano agnelli nei confronti di chi mostra la forza ('l dente) o il denaro (la borsa), erano già potenti ma avevano umili origini; infatti Ubertino Donati non fu contento quando il suocero (Bellincione Berti) li imparentò a lui. I Caponsacchi erano già scesi da Fiesole e vivevano a Mercato Vecchio; i Giudi e gli Infangati erano già buoni cittadini. Cacciaguida dice poi una cosa vera, seppur incredibile: nelle mura della città antica (picciol cerchio) si entrava attraverso una porta intitolata alla famiglia della Pera (questo dà l'idea del prestigio della famiglia in questione); secondo un'antica tradizione fiorentina, questa famiglia fu antenata dei celeberrimi Peruzzi, ma non tutti i commentatori della Commedia sono concordi. Le famiglie che portano nell'insegna lo stemma del marchese Ugo di Brandeburgo (gran barone), per cui è celebrata ogni anno una messa in suffragio nel giorno di san Tommaso (21 dicembre, giorno in cui morì nel 1001), da lui ricevettero la carica di cavaliere (milizia e privilegio); anche se ora accade che uno di loro, Giano della Bella, si schieri dalla parte del popolo contro i Grandi. Già c'erano i Gualterotti e gli Importuni, e Borgo Santi Apostoli sarebbe un posto più tranquillo se non avesse acquistato nuovi vicini. La casata degli Amidei, che uccidendo Buondelmonte per punirlo di aver abbandonato la promessa sposa diede inizio ai travagli di Firenze, era onorata insieme ai suoi consorti: quanto male fece Buondelmonte a rinunciare alle nozze prefissate per prendere in sposa Gualdrada Donati (importante questo passaggio: la colpa fu sua, che offese gravemente un'innocente, e meno di chi lo uccise per vendicare l'offesa). Molti sarebbero felici, dice Cacciaguida, se il giorno del suo primo ingresso a Firenze Dio l'avesse fatto affogare nel fiume Ema. Conclude constatando che era destino che Firenze immolasse una vittima ai piedi della statua di Marte al termine della sua vita di pace.
Il lungo discorso sulla gloria passata delle genti di Firenze viene concluso con un rimpianto: lui vide Firenze in una pace tale da far mancare ragioni di pianto o di lutto, con quelle famiglie il giglio bianco in campo rosso non fu mai messo sull'asta rovesciata (come fecero i senesi per dileggio) e non fu mai invertito nei colori (come fecero i guelfi nel 1215). 

Francesco Abate  

giovedì 17 ottobre 2019

COMMENTO AL CANTO XV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Benigna volontade in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quietar le sante corde,
che la destra del cielo allenta e tira.
Il canto XV inizia coi beati del cielo di Marte che smettono di cantare. La volontà del bene in cui si manifesta (liqua deriva dal latino liquat, che significa "manifestarsi") l'amore ispirato dalla legge divina, così come nel falso amore (cupidità) si manifesta la volontà di fare il male, impone che si fermi il canto dei beati ("silenzio puose a quella dolce lira") e pone fine a quella musica suonata direttamente dalla volontà di Dio (la destra del cielo); Dante trasforma con la metafora le anime cantanti nelle corde suonate dal musicista, che è Dio. Visto questo spettacolo, l'autore attraverso una domanda fa capire che delle anime così pie da interrompere l'eterno canto solo per farlo parlare non possono essere sorde alle preghiere dei mortali ("Come saranno a' giusti prieghi sorde / quelle sustanze che, per darmi voglia / ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?"), poi afferma che merita le pene eterne chi si priva dell'amore divino per inseguire i beni terreni ("Bene è che sanza termine si doglia / chi, per amor di cosa che non duri, / eternalmente quello amor si spoglia"). 
A un certo punto, una delle anime si muove dal braccio destro e scende ai piedi della croce, apparendo come la stella cadente che nella notte tersa sorprende l'osservatore e gli fa credere che un astro si sia spostato, solo che niente si è mosso dal punto in cui è apparsa e poi la luce sparisce in un attimo. L'anima (la gemma) nel suo tragitto non si stacca dal disegno della croce (dal suo nastro), ma seguendolo si avvicina a Dante, sembrandogli come il fuoco dietro l'alabastro; il suo movimento richiama alla mente del poeta l'episodio narrato da Virgilio (nostra maggior musa) nell'Eneide in cui Anchise corre incontro al figlio Enea nei Campi Elisi. 
L'anima avvicinatasi a Dante gli si rivolge in latino, lo chiama "sangue mio" e accenna, oltre che al suo viaggio nell'aldilà, anche a quello di san Paolo. Dante guarda prima il beato e poi Beatrice, venendo stupefatto sia dalle parole del primo che dal sorriso ardente negli occhi della donna. Vedendo gli occhi di Beatrice, il poeta si sente come se avesse toccato l'apice della grazia e della beatitudine ("Così quel lume; ond' io m'attesi a lui; / poscia rivolsi a la mia donna il viso, / e quinci e quindi stupefatto fui; / ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo / de la mia grazia e del mio paradiso"). Pieno di gioia, lo spirito dice delle cose che Dante non riesce a capire; tale discorso è oscuro non per volontà di chi parla, ma perché esprime verità non comprensibili dall'intelletto umano. Quando l'ardore della carità ha effuso gli alti concetti che aveva bisogno di esprimere (quando l'arco de l'ardente affetto fu sì sfocato), il poeta inizia a capire ciò che lo spirito dice; la prima cosa che intende è una lode alla Trinità, che è stata così benevola nei confronti della sua progenie. Terminata la sua lode, lo spirito si rivolge al poeta e gli rivela di essere felice che finalmente si sia compiuto ciò che aveva letto nel grande volume dove nulla si aggiunge e nulla si cancella (metafora del futuro letto attraverso la volontà divina), cioè che lui sia giunto lì grazie all'aiuto di Beatrice (colei ch'a l'alto volo ti vestì le piume); detto questo, pur sapendo ciò che Dante pensa (perché le anime, vedendo in Dio, vedono i pensieri)  e consapevole che egli non chieda perché consapevole di questa proprietà dei beati, lo invita comunque a chiedergli come mai sia più felice di vederlo rispetto alle altre anime di quel cielo, così sara meglio adempiuta la volontà divina, e gli spiega infine che la sua risposta è già preordinata (decreta). 
Dante si gira verso Beatrice e questa con un sorriso mette le ali alla sua volontà, cioè lo spinge a manifestare apertamente la propria curiosità. Il poeta esordisce ricordando allo spirito che, mentre per loro beati la capacità di comprendere è uguale perché vedono in Dio, lui è un mortale e per l'imperfezione del suo intelletto non può capire allo stesso modo, perciò lo ringrazia di cuore per la festosa accoglienza e lo supplica, rivolgendosi a lui come vivo topazio che questa gioia preziosa ingemmi, di rivelargli la sua identità. 
Lo spirito, che dichiara di essersi compiaciuto anche solo aspettandolo, gli rivela di essere il capostipite della sua famiglia, poi gli dice che Alighiero, colui da cui la famiglia ha preso il nome, è suo figlio e bisnonno di Dante, e gira da più di cent'anni nella prima cornice del Purgatorio; dettogli ciò, lo esorta a pregare per Alighiero così da accorciargli il cammino verso il Paradiso ("...Quel da cui si dice / tua cognazione e che cent'anni e piùe / girato ha 'l monte in a prima cornice, / mio figlio fu e tuo bisavol fue: / ben si convien che la lunga fatica / tu li raccorci con l'opere tue ").
Dopo essersi presentato, l'antenato di Dante inizia il racconto della sua vita intrecciandolo con quella della Firenze antica, dando così modo al poeta di manifestare attraverso le sue parole la nostalgia per i tempi che furono. Ai suoi tempi Firenze si estendeva ancora tutta all'interno della sua cinta muraria, dove la chiesa di Badia scandiva le ore per l'osservanza delle preghiere, ed era pacifica, sobria e pudica; non c'erano catenelle, diademi (corona), né gonne lavorate con fregi ricamati, né cinture più preziose e appariscenti di chi le indossava (il succo è: il lusso non era ancora penetrato in città); le figlie alla nascita non davano angoscia ai padri, essendo che ai tempi si sposavano all'età e con la dote giusta; non c'erano case quasi disabitate (non c'era lusso, le case non erano enormi) e non erano ancora in voga i costumi perversi in camera da letto (lo spirito evoca Sardanapalo, penultimo re assiro divenuto proverbiale per la sua lussuria); Montemario non era ancora superato in bellezza dall'Uccellatoio, quindi la grandezza di Firenze non aveva ancora oscurato Roma per poi, così rapidamente come l'aveva superata, crollare; Bellincione Berti, appartenente a una famiglia molto nobile, andava in giro vestito senza ricercatezze, con una cintura di cuoio dalla fibia d'osso, e sua moglie non girava truccata, così come altre famiglie importanti, i Nerli e i Vecchietti, si accontentavano di vestire semplicemente con pelli mentre le loro mogli provvedevano a filare la lana. Fortunate erano quelle donne, che vivevano sicure del loro destino e senza essere abbandonate dai mariti, fuggiti a cercare maggiori ricchezze col commercio in Francia; una faceva addormentare il figlio nella culla, usando il linguaggio infantile che diverte i padri e le madri, un'altra raccontava alla sua famiglia le gesta dei Troiani, di Fiesole e di Roma. Persone malvagie come Cianghella della Tosa (donna lasciva e sfrontata) e Lapo Saltarello (giudice avvezzo al lusso e ai vizi, esiliato per baratteria) allora avrebbero destato stupore così come nella Firenze contemporanea lo susciterebbero persone virtuose come Lucio Quinzio Cincinnato (dittatore romano) e Cornelia (madre dei Gracchi). In una comunità così pacifica e virtuosa, sua madre lo mise al mondo invocando nel travaglio il nome di Maria, poi nell'antico battistero di San Giovanni fu battezzato e chiamato Cacciaguida. Ebbe come fratelli Moronto ed Eliseo, sua moglie venne dalla Valpadana e da lei ebbe origine il cognome di Dante. Cacciaguida infine racconta che seguì l'imperatore Corrado III di Svevia alla seconda crociata e per il suo corretto agire fu fatto cavaliere; andò a combattere contro l'Islam, il cui popolo (i Saraceni) usurpa i territori in Terrasanta (la seconda crociata fu causata dalla caduta del principato di Edessa) a causa dei papi che li trascurano, e dai Saraceni fu liberato dalla sua vita terrena, per amore della quale molte anime si rovinano, e salì alla pace del Paradiso.

Questo canto ha come scopo quello di introdurre la figura di Cacciaguida, che sarà centrale nei canti seguenti. In questi versi Cacciaguida è stato usato dall'autore per rievocare la bellezza della Firenze del passato, virtuosa e priva dei malcostumi contemporanei.
Dell'avo di Dante le notizie biografiche si limitano a quelle che il poeta riporta nella Commedia.  

Francesco Abate     

sabato 5 ottobre 2019

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO

Salve a tutti.
A causa di un impegno personale, per un paio di settimane non mi sarà possibile pubblicare nuovi post sul blog con regolarità. Può essere che riesca a pubblicare qualcosa, ma non ve lo posso promettere.
In questo periodo di stasi, potete rileggere i miei vecchi post per trovare qualche spunto o qualche informazione.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

venerdì 4 ottobre 2019

STORIA: LE ORIGINI DELLA QUESTIONE PALESTINESE

La Palestina è una delle zone più calde del Medio Oriente. Si susseguono di continuo in quelle zone gli attentati terroristici arabi e le azioni militari israeliane, trascinando un conflitto che miete nel silenzio centinaia di migliaia di morti e che resta una bomba innescata nel cuore di una zona già instabile.
Con questo post voglio analizzare gli avvenimenti che diedero inizio a tali scontri, abbracciando un periodo storico che va dalla fine dell'Ottocento all'immediato secondo dopoguerra.

Tutto si può dire che iniziò nel 1897, quando al Congresso sionista di Basilea, dominato dalla figura di Theodor Hertzl, fu auspicato il ritorno degli ebrei dalla diaspora, cioè dalla dispersione dell'intero popolo iniziata durante il regno di Babilonia. Il Congresso sancì perciò la volontà di far sì che gli ebrei tornassero a occupare la Palestina che, grazie agli accordi Sykes-Picot del 3 gennaio 1916, era diventata una regione sotto il controllo della Gran Bretagna dopo la caduta dell'Impero ottomano.
Il dottor Chaim Weizman, influente propagandista che vantava una certa influenza su alcuni membri del governo inglese, spinse il ministro degli Esteri lord Balfour a dichiarare che Sua Maestà vedeva di buon occhio l'istituzione di un focolare ebraico in Palestina e a promettere di impegnarsi perché fosse favorita la realizzazione del progetto. 
La dichiarazione Balfour fu rilasciata il 2 novembre 1917 e fu l'innesco di una bomba che sarebbe deflagrata diversi anni dopo. Vi fu infatti la nascita di costanti flussi migratori di ebrei verso la Palestina, flussi che si intensificarono con l'avvento di Hitler e delle persecuzioni naziste. Circa i motivi che spinsero il ministro a una dichiarazione tanto impegnativa quanto improvvida, ci sono diverse ipotesi: una sorta di senso di colpa verso un popolo da sempre perseguitato in occidente; l'interesse ad avere un avamposto occidentale in una zona delicata (e allora sotto l'influenza di Gran Bretagna e Francia); la prospettiva di conquistare le simpatie delle comunità ebraiche statunitensi e russe, che erano molto influenti nei rispettivi paesi.  
Al di là delle ragioni che spinsero Balfour a incoraggiare il progetto sionista, la grande migrazione verso la Palestina cominciò subito a causare problemi. Gli ebrei che arrivavano in Palestina cominciarono subito a contendere terra e acqua agli arabi, talvolta acquistandole, ma altre volte espropriandole con la forza. In poco tempo i sionisti si organizzarono e formarono il Mapai, un organismo di rappresentanza politica nel paese, il sindacato Histadrut e una specie di esercito regolare chiamato Hagana. 
La reazione della popolazione palestinese ovviamente non poté essere tenera, visto che l'immigrazione sionista cominciava a prendere i contorni di un'invasione. Vi fu dapprima una guerriglia armata contro i sionisti e gli inglesi portata avanti da 'Izz al-Din al-Qassam, un siriano emigrato in Palestina, che fu ucciso nell'ottobre del 1935 e non ottenne nulla. Quando poi, durante il governo di Hitler in Germania, i flussi migratori si intensificarono, si arrivò alla rivolta guidata dal muftì di Gerusalemme (1936); fu un'azione fatta di guerriglia e scioperi contro i governanti inglesi, ma fu repressa dalla Gran Bretagna con l'uso dell'esercito.
La Gran Bretagna, dopo anni di atteggiamenti titubanti sulla questione, nel 1939 ammise che la situazione era ingestibile e con il Libro Bianco pose fine alle migrazioni degli ebrei in Palestina. Il Libro Bianco arrivò però troppo tardi, infatti i sionisti in Palestina erano tanti e molto organizzati anche sul piano militare, avviarono azioni di terrorismo contro gli inglesi arrivando nel novembre del 1944 a uccidere il plenipotenziario inglese nel paese, lord Moyne.

Abbandonati dagli inglesi, i sionisti trovarono però un nuovo e potente alleato negli Stati Uniti.
Nel 1942 l'organizzazione sionista americana adottò un piano che prevedeva la creazione di uno stato ebraico formato da tutti i territori della Palestina allora soggetti al mandato della Gran Bretagna. Il piano fu accolto tiepidamente dal presidente Roosevelt, il quale non si impegnò direttamente nella sua attuazione, ma il suo successore Truman si espresse a favore di una spartizione dei territori nonostante il parere contrario del Dipartimento di Stato.
La situazione tornò a farsi incandescente quando nel 1948 la Gran Bretagna, indebolita dalle fatiche della guerra, annunciò l'abbandono del mandato sulla Palestina.
All'ONU fu affidato il compito di trovare una situazione che pacificasse il paese; a tale scopo l'organizzazione formò l'Unscop e dalla sua composizione eliminò le grandi potenze, così da assicurarsi una maggiore serenità di giudizio. I lavori dell'Unscop furono favoriti dai sionisti, mentre i paesi arabi commisero il grave errore politico di boicottarli, rinunciando di fatto a esercitare la propria influenza sulla discussione.
I lavori dell'Unscop si svolsero in un clima tremendamente caldo. Si formarono in Palestina delle organizzazioni paramilitari sioniste che si macchiarono di sanguinosi attentati, come il massacro di 300 civili nel villaggio palestinese di Deir Yassin, e che scatenarono la reazione altrettanto violenta della guerriglia palestinese. Sempre in quel periodo, la Gran Bretagna aprì il fuoco sulla nave Exodus, che cercava di far sbarcare 4500 ebrei in Palestina; l'evento, che si verificò pochi anni dopo la scoperta dei lager nazisti, impressionò molto l'opinione pubblica e finì per rendere la stessa maggiormente favorevole nei confronti delle volontà sioniste.
Il susseguirsi degli eventi, unito alla miopia politica araba, portò l'Unscop a proporre una spartizione dei territori profondamente iniqua: ai 600.000 israeliani veniva dato possesso del 56,47% del paese, a 1.200.000 palestinesi toccava solo il 42,88%, Gerusalemme veniva posta sotto statuto internazionale. L'ONU accolse la proposta dell'Unscop e la approvò.
La spartizione iniqua di un territorio che gli arabi sentivano loro portò, non appena la Gran Bretagna ebbe abbandonato il paese, allo scoppio della prima guerra arabo-israeliana. I paesi arabi (Egitto, Siria, Libano, Iraq e Giordania) entrarono in Palestina per aiutare i propri fratelli palestinesi, ma furono ancora una volta vittime delle loro divisioni e della loro disorganizzazione: la Giordania stava tenendo sottobanco dei colloqui diplomatici col nemico per avere più territori, la Siria inviò solo 2500 uomini e l'Egitto non inviò equipaggiamenti. Israele invece aveva un esercito ben organizzato e ben equipaggiato, riuscì così ad avere la meglio nel conflitto, che durò da maggio 1948 a gennaio 1949. 
La sconfitta in questa guerra per i palestinesi fu la nakba (disastro), con un numero di profughi compreso tra 500.000 (fonti israeliane) e 1.000.000 (fonti palestinesi).
Ottenuto il diritto a esistere anche con le armi, Israele non esitò a occupare più territori di quanto previsti dal progetto dell'Unscop. Tel Aviv fu eletta capitale temporanea del nuovo stato.
Nel settembre 1948 i terroristi israeliani del Lehi uccisero a Gerusalemme il plenipotenziario dell'Onu Folke Bernadotte, reo di voler presentare un piano di pace non favorevole a Israele. 

La nascita dello Stato di Israele precipitò i territori palestinesi in uno stato di guerra perenne. Da allora si moltiplicarono le organizzazioni terroristiche arabe, di cui la più famosa è Al-Fatah, fondata da Yasser Arafat, e le colonizzazioni forzate israeliane. 
Quella miopia o malafede britannica, quella voglia di appoggiare un alleato potente e di averlo in una zona calda degli USA, ha scatenato tutti gli eventi di sangue che hanno macchiato la zona dal 1948 a oggi. 
Le intifada, il muro di Sharon, tutto nasce da lì.

Francesco Abate