giovedì 26 marzo 2020

COMMENTO AL CANTO XXXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Affetto al suo piacer, quel contemplante
libero officio di dottore assunse,
e cominciò queste parole sante
Il canto XXXII del Paradiso inizia con san Bernardo immerso nella contemplazione della Vergine Maria, la cosa che più gli dà piacere. Il santo inizia a istruire Dante senza che questo glielo chieda (libero officio di dottore assunse); per prima cosa comincia a indicargli alcuni beati che siedono nella Candida Rosa. Ai piedi di Maria siede colei che aprì la piaga del peccato originale inducendo in tentazione Adamo, quella piaga che la Vergine richiuse e medicò (richiuse e unse) mettendo al mondo il Redentore; Eva è indicata come tanto bella in quanto creata direttamente da Dio e non generata da altra donna. Nel terzo giro dei seggi contando dall'alto, san Bernardo indica Rachele, seduta sotto Eva, che sta proprio accanto a Beatrice; Rachele è un personaggio biblico, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe, ed è simbolo della vita contemplativa. Scendendo di gradino in gradino, il santo nomina altre donne dell'Antico Testamento: Sara, moglie di Abramo; Rebecca, moglie di Isacco; Giuditta (Iudit), l'eroina che uccise Oloferne e liberò la Betulia; Ruth, la bisnonna di re David, il quale proruppe nella preghiera "Miserere mei" perché consapevole della gravità dei propri peccati. Dal settimo giro in giù seguono ancora donne Ebree, le quali come un muro dividono i petali del fiore (i beati) a seconda della fede che ebbero in Cristo: a sinistra, dove il fiore ha tutti i seggi occupati (onde 'l fiore è maturo di tutte le sue foglie) ci sono quelli che credettero nel Cristo venturo; dall'altro lato, dove compaiono dei seggi vuoti, ci sono quelli che credettero nel Cristo venuto. Così come da questa parte la divisione tra le due categorie di beati è fatta dai seggi della Vergine Maria e delle donne Ebree, così di fronte è fatta dal seggio di san Giovanni Battista (il quale patì prima il deserto, poi il martirio, infine per due anni il Limbo) e sotto di lui dai seggi di san Francesco, san Benedetto, sant'Agostino e gli altri sotto di loro. San Bernardo invita poi Dante a guardare come agisce la Provvidenza (l'alto proveder divino) e spiega che entrambi i lati della rosa saranno riempiti dallo stesso numero di beati (l'uno e l'altro aspetto de la fede igualmente empierà questo giardino).
Dopo aver mostrato a Dante la divisione tra le due schiere di beati, san Bernardo gli spiega che dal gradino che taglia a metà le due divisioni (è perciò una linea di demarcazione orizzontale) fino al fondo della rosa ci sono anime salvate non per i propri meriti, ma per quelli altrui, a determinate condizioni; sono spiriti liberati dai legami del corpo (assolti) prima di poter consapevolmente scegliere il bene o il male (prima ch'avesser vere elezioni). Dante se ne può accorgere, gli dice, guardando i loro volti e sentendo le loro voci puerili. Adesso il poeta ha un dubbio e tace, perciò il santo gli dice che scioglierà il nodo ('l forte legame) in cui lo stringono i ragionamenti (i pensieri sottili). Spiega san Bernardo che in quel vasto reame non può esserci niente di casuale, così come non possono esserci la tristezza, la sete o la fame; tutto ciò che si vede lì corrisponde perfettamente al volere divino, così come l'anello si adatta perfettamente al dito. Le anime che si sono affrettate a salire in Paradiso (festinata deriva dal latino festinare, che significa "affrettarsi"), per una giusta causa non siedono alla stessa altezza: il sovrano grazie a cui il Paradiso riposa (pausa) in tanto amore e tanta gioia che appagano ogni volontà, crea tutte le anime (menti) nel suo amore e le dota a suo piacimento di maggiore o minore grazia, e questo basta a stabilire il maggiore o minore merito dei bambini. A dimostrare ciò che ha appena detto, san Bernardo ricorda ciò che le Sacre Scritture raccontano dei figli di Rebecca, Giacobbe ed Esaù, i quali combattevano tra loro già nel ventre materno perché il primo era accetto a Dio, il secondo no (l'episodio è narrato nella Genesi). Perciò è giusto che Dio gratifichi degnamente le anime a seconda dell'intensità della loro grazia ("Però, secondo il color d'i capelli / di cotal grazia, l'altissimo lume / degnamente conven che s'incappelli"): i bambini sono distribuiti sui vari gradini in virtù della maggiore o minore grazia infusa in essi. San Bernardo passa poi a descrivere come la questione sia mutata nel corso della storia umana: nel primo periodo, da Adamo ad Abramo, per la salvezza dei bambini bastava solo la fede dei parenti nel Cristo venturo; nel secondo periodo, da Abramo a Gesù, fu necessario per la salvezza dei maschi il rito della circoncisione; da Cristo in poi è invece necessario il battesimo affinché l'anima si possa salvare, mentre i bambini non battezzati sono destinati al Limbo
Finito il discorso sulla salvezza dei bambini, san Bernardo invita Dante a guardare il viso della Vergine, il viso che più di tutti somiglia a quello di Cristo, perché solo così può prepararsi a guardare Dio. Il poeta vede scendere sul volto di Maria tanta luce di grazia (allegrezza), portata da quelle intelligenze (gli angeli) create per volare a quell'altezza, e si riempie di un'ammirazione tale che nulla di ciò che ha visto prima gli aveva suscitato, e nulla di quanto visto prima era tanto somigliante a Dio. L'angelo sceso lì per primo spiega le ali davanti a lei e canta "Ave Maria, piena di grazia"; a quel canto rispondono tutti i beati, e la luce di ognuno diventa più intensa (E quello amor che primo lì discese, / cantando "Ave Maria, gratia plena", / dinanzi a lei e sue ali distese. / Rispuose a la divina cantilena / da tutte parti la beata corte, / sì ch'ogne vista sen fe' più serena). Dante chiede a san Bernardo, che per lui ha abbandonato il seggio a cui è destinato per l'eternità, chi sia quell'angelo che guarda negli occhi la Regina con tanta festa (tanto gioco) ed è così innamorato da sembrare ardente come la fiamma ("qual è quell' angel che con tanto gioco / guarda ne li occhi la nostra regina, / innamorato sì che par di foco?"). Con questa domanda il poeta ricorre ancora al sapere di san Bernardo, la cui immagine sembra abbellirsi nel momento in cui guarda verso la Vergine Maria come Venere (stella mattutina) si abbellisce alla luce del sole.
San Bernardo risponde che in quell'angelo ci sono tutto il decoro e la letizia che Dio e i santi (le cui volontà sono uniformate) vogliono ci sia in un angelo e in un'anima, perché portò la palma a Maria quando il Figlio di Dio decise di incarnarsi nel corpo mortale (è l'arcangelo Gabriele, il quale annunciò la nascita di Gesù a Maria). Data questa spiegazione, torna ad elencare altre anime. I due che siedono sopra, felici per essere vicinissimi alla Vergine (Augusta), sono come due radici di questa rosa: quello che le siede alla sinistra è il padre del genere umano (Adamo) per il cui peccato originale l'umanità soffre; al lato destro c'è san Pietro, il vecchio padre della Santa Chiesa, a cui Cristo affidò le chiavi della Candida Rosa. Accanto a san Pietro siede san Giovanni Evangelista, che prima di morire vide tutte le sofferenze future della bella sposa che Cristo acquistò col martirio (la Chiesa); accanto ad Adamo siede Mosè, sotto la cui guida visse di manna il popolo d'Israele, che fu però ingrato, volubile e poco incline a obbedire ai suoi ordini. Di fronte a san Pietro c'è sant'Anna, madre di Maria, che è tanto felice di guardare la figlia da non distogliere lo sguardo nemmeno quando canta l'osanna insieme agli altri beati; di fronte ad Adamo (maggior padre di famiglia) siede santa Lucia, che inviò Beatrice in soccorso del poeta quando nella selva teneva gli occhi bassi e disperava di uscire dall'oscurità.
San Bernardo, siccome il tempo destinato alla visione mistica di Dante sta per finire, decide di terminare qui l'elenco dei santi e di fare come il sarto, che produce la veste a seconda della quantità di panno che ha a disposizione; dice poi che guarderanno Dio, così che il poeta possa penetrare con lo sguardo quanto più possibile dentro il suo fulgore. Prima di guardare Dio, però, è necessario chiedere l'intercessione della Vergine Maria, onde evitare che il poeta arretri credendo di avanzare solo con le proprie forze. Il santo pregherà e Dante dovrà seguirlo con il sentimento, non separando mai il cuore dalla sua preghiera. 
Il canto si interrompe con san Bernardo sul punto di cominciare la sua preghiera. Si tratta di un canto preparatorio, finalizzato a creare la giusta atmosfera e la giusta attesa in vista del momento più alto della visione mistica.

Francesco Abate

lunedì 16 marzo 2020

COMMENTO AL CANTO XXXI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa,
che nel suo sangue Cristo fece sposa
Il canto XXXI riprende la descrizione della Candida rosa fatta in quello precedente senza soluzione di continuità, infatti nel primo verso il dunque indica la prosecuzione del discorso prima troncato. A Dante si mostrano dei beati, qui chiamati milizia santa, i quali sono stati redenti col sangue di Cristo e a lui si sono congiunti. La schiera degli angeli, che volando vede e canta la gloria di Dio (colui che la innamora) e la bontà che la rende ciò che è (cotanta), si comporta come uno sciame d'api che si tuffa nel fiore per prenderne il polline per poi tornare all'alveare (là dove suo laboro s'insapora - dove il polline preso diventa miele): scende nel gran fiore adorno di tanti petali (i beati) e poi risale là dove soggiorna sempre il suo amore, cioè da Dio. Gli angeli hanno le facce rosse come la fiamma viva, le ali d'oro, e le vesti candide più della neve; la loro descrizione riprende l'iconografia classica della Bibbia, che fu anche ripresa dall'arte senese e mugellana. Quando scendono nel fiore, gli angeli porgono a ogni beato la pace e l'ardore che acquistano sbattendo le ali (ventilando il fianco). La presenza tra Dio e il fiore di tanti angeli non impedisce la vista della luce divina, questo perché la luce di Dio penetra nell'universo a seconda della capacità di recepirla e nulla può esserle di ostacolo; questo passaggio non solo specifica come la luce divina non possa essere attenuata, ma nel dirci che gli angeli non la ostacolano fa anche riferimento al loro essere diafani, caratteristica che il poeta cita anche nel Convivio. Questo regno tranquillo e pieno di gioia è abitato da personaggi antichi, che credettero nel Cristo venturo, e da gente nuova, che ha creduto nel Cristo venuto, e tutti guardano verso un solo punto, verso Dio. 
A questo punto l'autore interrompe la descrizione e muove un'invocazione a Dio, luce trina che brilla in un'unica stella, che appaga i beati scintillando davanti ai loro occhi, e gli chiede di guardare giù alla vita dei mortali, che è tanto complessa ed agitata da poter essere chiamata procella (Oh trina luce che 'n unica stella / scintillando a lor vista, sì li appaga, / guarda qua giuso a la nostra procella). Se i barbari che scendono dalle regioni del nord Europa, quelle vigilate dalla costellazione dell'Orsa Maggiore (Elice - altro nome della ninfa Callisto che, secondo la mitologia greca, fu trasformata prima in orsa da Giunone e poi nella costellazione da Zeus), la quale ruota vicino a quella di suo figlio (riferimento alla costellazione del Boote; sempre secondo la mitologia greca, il figlio di Callisto, Arcade, durante una battuta di caccia stava per uccidere un'orsa, non sapendo che quella fosse sua madre, e Zeus evitò il misfatto trasformando entrambi in costellazioni poste vicine nel cielo: lei l'Orsa Maggiore, lui il Boote), si stupivano vedendo la grandezza di Roma quando il Laterano era la più grande opera umana, il poeta ci chiede di immaginare lo stupore che prova lui, che è salito dalle cose mortali al cospetto di quelle divine, che ha lasciato il popolo fiorentino per vedere quello giusto e puro dei beati. La gioia e il gaudio che prova gli fanno desiderare di non udire e non dire niente. Dante fa come il pellegrino che si riposa dopo il lungo viaggio che l'ha condotto al tempio e che spera di poter raccontare come questo sia: muove lo sguardo lungo la luce divina e lungo i gradini, in alto, in basso e da ogni lato. Vede volti conformati alla carità, fregiati dalla luce divina e dal proprio sorriso, ornati di compostezza spirituale. 
Dante ha guardato l'insieme della Candida rosa (la forma general di paradiso) e non ha ancora fermato lo sguardo in un punto preciso. Si volge verso Beatrice per farle delle domande che sono nate nella sua mente, ma vede qualcosa di diverso da quel che s'aspettava (Uno intendea, e altro mi rispose): al posto della donna c'è un uomo anziano vestito come gli altri beati. Gli occhi e il volto del nuovo arrivato sono soffusi di benigna gioia, ha un atteggiamento devoto simile a quello di un padre amorevole. Dante gli chiede dove sia Beatrice; lui risponde che proprio il desiderio della donna lo ha spinto a venire lì, poi gli dice che lei è tornata al seggio che Dio le ha assegnato per i suoi meriti e lo invita a guardare il terzo gradino dall'alto per vederla. Il poeta non risponde, alza lo sguardo e la vede  incoronata da un'aureola che riflette i raggi divini; osserva che la distanza che li separa è di gran lunga superiore a quella che separa un occhio umano posto sul fondo di un abisso dalla parte del cielo dove si formano i tuoni, eppure lui la vede perfettamente perché lì non c'è alcun mezzo (acqua o aria) che ne attenui l'immagine. 
Dante rivolge una preghiera a Beatrice, la donna in cui la sua speranza ha preso vigore: lei soffriva per la cattiva salute della sua anima e arrivò a lasciare le sue impronte (vestige) nel Limbo per salvarlo, lui riconosce che ha potuto compiere questo viaggio salvifico nell'aldilà e conoscere la grazia e la virtù di ciò che ha visto grazie al suo potere e alla sua bontà, lei lo ha liberato dalla schiavitù del peccato facendo tutto quello che era in suo potere, le chiede perciò di custodire in lui la sua magnificenza così che la sua anima si stacchi dal corpo così pura come lei l'ha resa. Beatrice lo guarda e sorride, poi torna a guardare in direzione di Dio.
Il beato lo invita, affinché Dante compia perfettamente il cammino che lui è stato inviato a guidare dalle preghiere di Beatrice, a percorrere con gli occhi la Candida rosa (questo giardino) così che il suo sguardo si prepari a sostenere la visione di Dio; poi gli assicura che la Vergine Maria (la regina del cielo), per cui lui arde d'amore, gli concederà ogni grazia perché lui è il suo fedele Bernardo. Scopriamo perciò che la nuova guida di Dante è san Bernardo di Chiaravalle, teologo e monaco vissuto tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo; fu simbolo del culto mariano, e questo potrebbe già spiegarne la presenza in quest'ultima fase del viaggio dantesco, ma probabilmente fu scelto come ultima guida dall'autore perché autorevole rappresentante della conoscenza intuitiva di Dio, quindi la teologia (che è ragione soggetta alla fede) cede il passo alla conoscenza immediata del mistero divino (quindi al dominio totale della fede).
Per farci capire il proprio stato d'animo, Dante si paragona al pellegrino venuto a Roma da lontano, forse dalla Croazia, a vedere il velo della Veronica, che non sente appagato il suo desiderio ma chiede a Gesù Cristo se quella sia davvero la sua immagine; così lui guarda san Bernardo, colui che nel mondo dei vivi poté gustare la pace dei beati grazie alla contemplazione. Il velo della Veronica è un'antica reliquia bizantina: secondo la leggenda, è il velo che l'emorroissa guarita da Gesù (episodio contenuto nei vangeli sinottici) usò per asciugare il volto sanguinante di Cristo. 
San Bernardo si rivolge al poeta chiamandolo figliuol di grazia, perché è ciò che è adesso grazie alla volontà divina, e gli dice che non gli sarà nota la Candida rosa se continuerà a tenere gli occhi fissi sul fondo, poi lo invita a guardare i gradini più alti, così all'apice vedrà la regina a cui il Paradiso è suddito e devoto. 
Dante alza gli occhi e, come al mattino la parte orientale del cielo è più luminosa di quella occidentale, vede nella parte più alta della rosa un punto che vince tutti gli altri in luminosità. Il cerchio di luce che circonda la Vergine è più intenso nel mezzo e meno ai lati, come accade nel cielo, che è più luminoso dove si attende il carro che guidò male Fetonte (il Sole - secondo il mito greco, Fetonte era figlio di Elio e provò a guidare il carro del sole, finì però nel fiume Eridano e morì). Là dove sta la Vergine ci sono più di mille angeli festanti con le ali aperte (penne sparte), ciascuno con uno splendore diverso a seconda del grado di carità. Nel mezzo dei loro giochi e dei loro canti Dante vede ridere la Madonna, la quale emana così tanta bellezza da riempire di letizia gli occhi di tutti i beati; tanto è bella che l'autore non proverebbe a descriverla nemmeno se il suo linguaggio fosse ricco quanto la sua immaginazione. San Bernardo, non appena vede che il poeta tiene gli occhi fissi nella calda luce della Vergine, volge a lei anche il suo sguardo pieno di devozione, invogliando Dante a guardarla con affetto ancora più intenso.

Francesco Abate    


giovedì 12 marzo 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "LOLITA" DI VLADIMIR NABOKOV

Famoso per il tema scabroso trattato e per il suo incipit, che è uno dei più densi di passione mai scritti, Lolita è giudicato il capolavoro dello scrittore russo Vladimir Nabokov.
A causa della storia che narra, quella di un uomo maturo che vive una relazione sessuale con la figliastra dodicenne, l'opera suscitò numerose polemiche e in Francia fu addirittura bandita nel dicembre 1956 per due anni. Molte furono le case editrici che rifiutarono di pubblicare il romanzo, anche perché Nabokov rifiutò ogni forma di censura, e Lolita fu pubblicato per la prima volta nel 1955 da una casa editrice di letteratura erotica, la Olympia Press.
Dopo le difficoltà iniziali, il romanzo fu molto apprezzato e nel 1962 il regista Stanley Kubrick ne fece un film, affidando la stesura della sceneggiatura allo stesso Nabokov. Del film di Kubrick nel 1997 il regista Adrian Lyne ha realizzato un remake.
Così grande fu l'impatto di Lolita sul mondo culturale da far entrare il termine "Lolita" nel gergo comune per indicare una ragazza molto giovane ma già attraente, seduttrice e sessualmente attiva.

Protagonista principale del romanzo è Humbert Humbert, professore di letteratura francese, il quale ha una morbosa passione per le ragazzine, che chiama ninfette. Per tanti anni si limita a osservarle di nascosto nei parchi e fantasticare su di loro, poi tutto cambia quando va a vivere in una casa negli Stati Uniti, abitando con la padrona, Charlotte Haze, e la sua giovane figlia dodicenne Dolores. Humbert matura una profonda passione per Dolores, a cui affibbia vari soprannomi, tra cui Lolita, e annota in un diario i suoi pensieri malati. 
Nel frattempo Charlotte si innamora di Humbert e lui ne approfitta, si finge innamorato a sua volta così da poter fare da patrigno a Lolita e stare con lei più a stretto contatto. La donna scopre un giorno la passione malata di Humbert per Dolores, ma a causa di un incidente muore senza avere il tempo di confidarsi con nessuno.
Approfittando della morte di Charlotte, di cui Dolores non sa nulla perché si trova in colonia, Humbert decide di partire con Lolita per poi abusarne dopo averla stordita con dei farmaci. Va a recuperare la figliastra e parte con lei senza dirle della tragica fine della madre. 
Inizia un viaggio senza meta che dura diversi anni, in cui Humbert può sfogare liberamente, e senza l'aiuto dei farmaci, i suoi desideri sulla povera Lolita. Per evitare che lei si rifiuti o lo denunci, Humbert usa sia l'arma del denaro, pagandola per i rapporti, sia quella della paura, convincendola che sarebbe finita in carcere anche lei qualora lo avesse denunciato.
Il viaggio va avanti tra la passione di Humbert e la rassegnazione di Lolita. L'uomo scopre che qualcuno li segue. Lui è preoccupato, lei invece sembra fare il doppio gioco e favorire l'inseguitore. L'intrigo va avanti fino a che un giorno Humbert non trova più Lolita.

Lolita è un capolavoro della letteratura e forse è uno dei libri che più di tutti ha destato scandalo. "Scandaloso è spesso soltanto sinonimo di insolito", scrive all'inizio del romanzo lo psichiatra John Ray jr, a cui l'avvocato di Humbert ha affidato la stampa delle memorie dell'assistito ormai defunto. L'introduzione che Nabokov affida allo psichiatra sembra quasi una giustificazione morale dell'opera, la quale è scioccante solo in virtù della propria originalità.
Nonostante il protagonista parli approfonditamente della sua passione per le ninfette, e nonostante riesca a saziare i suoi appetiti, non dobbiamo pensare che Lolita giustifichi in alcun modo tale perversione. Lo stesso Humbert, nella parte finale del libro, appare cosciente del fatto di aver distrutto l'infanzia della figliastra, quindi è consapevole di aver fatto qualcosa di sbagliato. Ancora nella parte finale c'è un'immagine, in cui lui soffre per l'assenza della voce di Lolita tra quelle dei bambini, che ci dimostra come si senta colpevole di averla distrutta. La colpa nel caso di Humbert non causa però il pentimento; lo vediamo in un'immagine che lui rievoca nelle pagine finali delle sue memorie, un tenero abbraccio paterno a Lolita che viene bruscamente interrotto da un'erezione. In questa immagine c'è la verità definitiva: lui soffre per l'infanzia negata alla figliastra, ma non può fare a meno di sfogare i suoi appetiti. Sin dalle prime pagine infatti Humbert si identifica come una vittima, le ninfette operano su di lui un incantesimo a cui non può opporsi; si capovolgono perciò i ruoli, col maniaco che diventa vittima e la ragazza violentata dipinta come carnefice.
Alla domanda del significato morale di Lolita ha risposto lo stesso Nabokov in una postfazione del 1956 intitolata Note su un libro chiamato Lolita. Secondo l'autore il romanzo non ha nessuna morale e per lui un'opera di narrativa ha senso d'esistere solo se procura voluttà estetica, cioè se mette in contatto con altri stati dell'essere dove l'arte (curiosità, bellezza, bontà, estasi) è la norma. 

Lolita è stato considerato da subito un grande romanzo non solo per il tema scabroso che tratta. Nabokov riesce a narrare di eventi così schifosi con un linguaggio sublime, molto ricco di metafore e di immagini che fanno sentire l'emozione più che descriverla. Anche i rapporti sessuali non sono descritti esplicitamente, ma abbozzati con metafore e immagini poetiche che quasi li privano dello squallore di cui sono pregni. Per capire la capacità che ha Nabokov di far vibrare l'anima del lettore con le stesse vibrazioni del protagonista, basta leggere l'incipit delle memorie di Humbert, che è forse uno dei più belli e appassionati mai scritti.
Il linguaggio ricercato e il modo in cui la vicenda è narrata, con parecchi flashback e lunghe digressioni sull'incanto che le ninfette hanno operato su Humbert, rendono alla perfezione il delirio di una mente malata, quindi fanno in modo che la scrittura sia coerente con la narrazione in prima persona.

Lolita tratta un tema adatto a stomaci forti. Non vi nego che leggere di un uomo che abusa di una ragazzina e si comporta come se fosse lui la vittima fa ribollire il sangue nelle vene. Credo però che sia necessario superare questa avversione e leggere il capolavoro di Nabokov, così da godere di un libro che è davvero un'opera d'arte.
Nabokov ci mostra in quest'opera la potenza delle parole, le quali sanno parlare direttamente all'anima del lettore e riescono a cancellare lo sporco anche dall'azione più truce. Nonostante le immagini che ci vengono mostrate siano orribili, sono così ben costruite da non permetterci di distogliere lo sguardo, come ci succede quando ammiriamo Giuditta e Oloferne di Caravaggio.  
Al di là della bellezza artistica, Lolita va inoltre letto con la stessa disposizione d'animo con cui si legge un libro di Dostoevskij, cioè preparandosi a fare un viaggio nelle stanze più sporche e scure dell'animo umano. Certi viaggi possono non allettare, ma è necessario conoscere il male per comprenderlo meglio (che è diverso dal giustificarlo).
Per tutte queste ragioni penso che Lolita sia una lettura essenziale. 

Francesco Abate

martedì 10 marzo 2020

RESTATE A CASA!

In genere uso questo blog per occuparmi solo di cultura, trattando altri argomenti sulle mie pagine social o nei miei articoli. Il momento delicato che stiamo vivendo mi fa sentire la necessità di fare un'eccezione e lanciare un appello: restate a casa!
Restate a casa per salvaguardare la vostra salute; ci sarà altro tempo per le uscite e gli aperitivi, adesso è il momento di stare al riparo, magari in compagnia di un buon libro o comunque di qualsiasi altra cosa vi faccia stare bene.
Restate a casa per le persone che amate. Intorno a voi sicuramente ci sarà almeno una persona anziana o di salute cagionevole, inoltre rallentando il contagio si assicurano cure migliori per i malati: restare a casa è soprattutto un gesto d'amore nei confronti dei più deboli.
Nei momenti di crisi l'uomo è chiamato a dimostrare quanto vale davvero. Dimostriamo di essere davvero uomini, dimostriamo che per noi la vita umana vale più di un aperitivo o una pizza.
RESTIAMO A CASA!



Francesco Abate

lunedì 9 marzo 2020

COMMENTO AL CANTO XXX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Forse semila miglia di lontano
ci ferve l'ora sesta, e questo mondo
china già l'ombra quasi al letto piano,
quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch'alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così 'l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Il canto XXX inizia con la sparizione alla vista di Dante del coro angelico e il poeta ce la racconta ricorrendo a una similitudine: gli angeli spariscono come le stelle col procedere dell'aurora (la chiarissima ancella). Questa descrizione occupa i primi 15 versi del canto e ricorre nei primi 9 a un riferimento di tipo astronomico, infatti l'autore dice che quando da qualche parte sulla Terra è l'alba, mentre a seimila miglia di distanza è mezzogiorno, e l'ombra del pianeta giace sul piano dell'orizzonte, l'atmosfera ('l mezzo del cielo) comincia a illuminarsi e le stelle spariscono una ad una fino alla più luminosa; per spiegare il riferimento alle seimila miglia, dobbiamo ricordare che Dante stimava la circonferenza della Terra in circa ventiquattromila miglia, percorse a mille miglia all'ora dal Sole (che gira intorno al pianeta in ventiquattro ore), per questo un fuso orario di sei ore era stimato in una distanza di seimila miglia. I cori angelici che perennemente ruotano festanti intorno a Dio (il triunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse), tanto da far sembrare che essi lo racchiudono, mentre in realtà è Lui che li racchiude (parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude), spariscono a poco a poco dalla vista di Dante come le stelle quando si approssima l'alba; non vedere più niente e l'amore per Beatrice lo spingono a volgere lo sguardo verso di lei. 
Il poeta la vede così trasfigurata da rinunciare a descriverla, ci dice infatti che se tutto ciò che di Beatrice si è detto fosse contenuto in una sola lode, non basterebbe a riportarne la magnificenza; è trasfigurata in un modo che non solo è incomprensibile per l'intelletto umano, ma che probabilmente può essere compresa e amata appieno solo da Dio, quindi è addirittura al di sopra delle possibilità dell'intelletto angelico. L'autore si dichiara vinto, cioè non in grado di riportare efficacemente ciò che ha visto, ancor di più di quanto uno scrittore comico o uno di cose sublimi possano essere sovrastati da una difficoltà in un punto chiave della narrazione; perché, questa è l'origine della sua incapacità, al solo ricordare il dolce sorriso di Beatrice la sua mente si indebolisce e perde di efficacia, come la vista viene annullata dalla luce del sole. Dal momento in cui la vide per la prima volta sulla Terra, dichiara ancora l'autore, fino a ora nell'Empireo, non ha mai smesso di cantare la sua bellezza (non m'è il seguire al mio cantar preciso - preciso deriva dal latino e significa <<troncato>>), ma adesso è giusto che desista dal descriverne ancora lo splendore, consapevole di aver raggiunto il proprio limite e di non poter fare meglio. 
Beatrice, la cui bellezza Dante lascia che sia descritta a una voce poetica più potente della sua (la lascio a maggior bando), con la voce e il comportamento di una guida sollecita spiega che sono usciti fuori dal Primo Mobile, il cielo più esteso, per entrare nell'Empireo, che è pura luce. Spiega ancora che la luce dell'Empireo è luce intellettuale, cioè l'intuizione di Dio, piena di amore del vero bene, a sua volta pieno della letizia che supera ogni dolcezza ("luce intellettual, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore"). Gli annuncia poi che nell'Empireo Dante vedrà entrambe le milizie del Paradiso, cioè i beati e gli angeli, e una la vedrà con le sembianze che avrà il giorno del Giudizio Universale (coi corpi terreni; si riferisce ai beati).
D'improvviso una luce molto intensa avvolge Dante e lo acceca con la sua intensità, così come un lampo improvviso priva l'occhio della sua capacità di tradurre in immagini la percezione. Questa folgorazione richiama alla mente quella che san Paolo subì sulla via di Damasco e che viene narrata negli Atti degli Apostoli. Mentre è abbagliato, la voce di Beatrice gli spiega che l'amore per cui l'Empireo resta immobile accoglie sempre così, in modo da rendere l'anima disposta ad ardere di carità come una candela. Bisogna fare un'osservazione sull'immobilità dell'Empireo: per i filosofi dell'epoca, che in questo si rifacevano ad Averroè, il movimento era generato da un bisogno, da un'imperfezione, e per questo Dante trova inconcepibile che il cielo dominato dalla luce di Dio possa essere soggetto a un qualsiasi movimento. 
Dante ancora non ha ancora sentito le parole di Beatrice e già si accorge di avere superato le sue facoltà naturali; la sua forza visiva si riaccende con un vigore tale da poter sostenere qualsiasi luce di qualsiasi intensità. Con questa vista accresciuta riesce a vedere la luce nella forma di un fiume (rivera) fluente di fulgore in mezzo a due rive ornate di fiori primaverili. Dal fiume escono faville ardenti che vanno a mettersi tra i fiori, sembrando rossi rubini incastonati nell'oro, e poi vanno a rituffarsi nel fiume come se fossero inebriate dal profumo, e per ognuna che si tuffa ce n'è un'altra che esce fuori ("Di tal fiumana uscian faville vive, / e d'ogne parte si mettien ne' fiori, / quasi rubin che oro circunscrive; / poi, come inebriate da li odori, / reprofondavan sé nel miro gurge, / e s'una intrava, un'altra n'uscia fori"). Beatrice gli dice che il suo desiderio di avere informazioni riguardo lo spettacolo che sta osservando le piace tanto più quanto più è intenso, ma prima che possa sapere così tanto (prima che tanta sete in te si sazi) deve dissetarsi di quest'acqua di cui si sono dissetate le anime beate (di quest' acqua conven che tu béi); aggiunge poi che il fiume e le faville (i topazi) che da esso escono, così come i fiori ('l rider de l'erbe), sono solo anticipazioni offuscate del vero, e non perché siano di per sé imperfette, bensì è la vista del poeta a non essere ancora pronta a contemplare spettacoli così potenti. 
Dante, per guardare meglio (per far migliori spegli ancor de li occhi), si avvicina più velocemente di quanto il bambino svegliatosi tardi si precipita (sì subito rua) verso il latte; si china su quel fiume, che scorre per rendere migliori gli uomini, e il suo corso gli appare circolare non appena la gronda delle sue palpebre (le ciglia) ha bevuto quelle acque (ha guardato meglio). Come le persone mascherate cambiano aspetto quando tolgono le maschere, così i fiori e le faville adesso appaiono a Dante nient'altro che le due corti del Paradiso: i beati e gli angeli. 
L'autore interrompe un momento la narrazione e nella terzina 97-99 invoca lo splendore di Dio, grazie al quale ha potuto vedere il trionfo del regno della perfezione, affinché gli fornisca sufficiente virtù per descrivere tutto. 
Lassù (nell'Empireo) c'è una luce che permette di vedere il Creatore a quella creatura che trova la sua pace solo nel vedere Lui. La luce si estende circolarmente (la figura circolare è segno di perfezione, eternità) ed è tanto ampia da essere troppo larga qualora cingesse il sole; essa è visibile grazie a un raggio che da Dio si riflette sulla sommità del Primo Mobile e gli conferisce il moto e la virtù (vivere e potenza). Come un colle si specchia nel lago che lo bagna alle pendici e si vede adorno quando è coperto di erba e fiori, così intorno alla luce vede specchiarsi su più di mille gradini le anime che hanno fatto ritorno in Paradiso. Se il gradino più basso raccoglie in sé una luce tanto grande, osserva Dante, sarà immensa la larghezza di questa rosa nei petali estremi (i gradini più alti). La sua vista riesce a cogliere tutta l'ampiezza e l'altezza della rosa, anche la quantità e la qualità dei beati. Lontananza e vicinanza, osserva ancora, lì nell'Empireo non aggiungono e non tolgono nulla, perché dove Dio governa direttamente le leggi naturali non hanno alcun valore. 
Beatrice conduce Dante, il quale tace pur volendo parlare, nel giallo della rosa eterna (cioè al centro, dove il fiore ha gli stami), la quale si dilata e s'innalza in più gradi (si dilata e digrada), e diffonde profumo di lode al sole che forma l'eterna primavera (Dio). La guida invita il poeta a guardare quanto è numerosa l'assemblea di beati ('l convento de le bianche stole), quanto è grande la loro città, e quanti pochi scanni sono rimasti vuoti (secondo la tradizione, il mondo sarebbe durato sette millenni - perché Dio l'aveva creato in sette giorni - e sei erano già passati, perciò l'Apocalisse era vicina). Indica poi il gran seggio che sta guardando e su cui è posto una corona, gli spiega che lì, prima della morte di Dante, siederà l'anima augusta di Arrigo VII conte di Lussemburgo, che verrà a raddrizzare l'Italia prima che questa sia pronta ad accoglierlo. Dopo aver nominato Arrigo VII, Beatrice afferma che la cupidigia ha reso gli uomini simili a pargoli che muoiono di fame ma scacciano via la balia; sarà capo della Chiesa un tale (Clemente V) che si comporterà ambiguamente con Arrigo VII (palese e coverto non anderà con lui per un cammino). Dio però tollererà poco Clemente V sul seggio papale, così sarà gettato dove viene scontato il peccato di simonia e farà sprofondare più giù il papa di Anagni che l'ha preceduto (Bonifacio VIII).  

L'argomento del canto XXX è quasi totalmente teologico, eccezion fatta per la conclusione in cui Beatrice eleva al rango di beato Arrigo VII e si scaglia contro chi ne ha ostacolato i disegni.
Arrigo VII scese in Italia con l'intenzione di unificarla sotto un unico impero da lui guidato ed ebbe proprio in Dante uno dei principali estimatori, ma la sua missione fallì a causa degli interessi contrastanti dei regnanti presenti sulla penisola e soprattutto a causa della politica ambigua di Clemente V. 
Il canto mischia teologia e politica, perché l'accusa a papa Clemente V non ha solo l'intento di evidenziarne la malvagità, ma è anche un monito contro chi ostacola i disegni di Dio e il ritorno del potere temporale nelle mani di un unico imperatore. 

Francesco Abate

giovedì 5 marzo 2020

I PROTETTORI DI LIBRI: PERSONAGGI

Invece del solito estratto, questo mese voglio lasciarvi una rapida descrizione dei personaggi principali del romanzo I Protettori di Libri.

Giovanna è la protagonista principale. Giovane agente di polizia, è sempre preda di una malinconia di cui non riesce a spiegarsi l'origine. Essa è inconsapevolmente incapace di accettare la vita monocolore e superficiale imposta dal regime, prova a curarsi con una trasgressione che però non la libera dalla sua oppressione di spirito. La sua vita cambia radicalmente quando, nel corso di una perlustrazione, si imbatte in Francesco, che le fa scoprire una vita diversa e il bisogno di ribellarsi alle ingiuste regole imposte dal regime.
Francesco è il bandito che accoglie Giovanna. Vive in un'isolata casa di campagna che sorge in un'area disabitata a causa dei bombardamenti; per sopravvivere coltiva la terra e alleva animali, vendendo i prodotti di contrabbando. Uomo molto colto, mostra a Giovanna una vita diversa, meno superficiale nelle idee e nei sentimenti, e le fa scoprire quanto la bellezza della natura possa riscaldare l'anima dell'uomo.
Taipan è una sadica spia al servizio del Governo italiano. Si tratta dell'anti-uomo per eccellenza, infatti non ha ideali e non crede in niente, non ama e non odia, non crede nemmeno nel lavoro che fa; cerca senza sosta i Protettori di Libri solo per essere autorizzato a sfogare sulle sue vittime i suoi impulsi malati.
Peppe 'a ciucciuvettola è un brigante senza scopo che guida un gruppo di sbandati e vive di ruberie. Siccome nelle dittature molti vedono come lotta partigiana ogni atto di disobbedienza alle leggi, compresa la semplice delinquenza, è avvolto dalla fama di ribelle, anche se non fa altro che fare del male alla povera gente.

***

Cosa accadrà a Giovanna una volta passata dalla parte dei ribelli? Francesco riuscirà a difendere le proprie idee? Che relazione si creerà poi tra i due improbabili complici? Taipan riuscirà a stanare i Protettori di Libri? Peppe sfuggirà ai soldati che gli danno la caccia?
Per avere risposta a queste domande, non vi resta che acquistare I Protettori di Libri in uno dei link che trovate in questa pagina. Il romanzo è disponibile in formato cartaceo ed elettronico.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

domenica 1 marzo 2020

RECENSIONE DE "IL NICHILISMO EUROPEO" DI MARTIN HEIDEGGER

Il nichilismo europeo è un libro del filosofo tedesco Martin Heidegger pubblicato nel 1967. Si tratta di un estratto del più ampio Nietzsche pubblicato nel 1961, il quale è il testo del corso "Nietzsche: il nichilismo europeo" che Heidegger tenne nel 1940 all'Università di Friburgo. 
Heidegger fu negli anni Quaranta del Novecento molto sensibile al problema del nichilismo, termine che circolava fin dal secolo precedente e che ancora oggi è spesso tirato in ballo.

Ne Il nichilismo europeo, Heidegger ripudia l'idea del nichilismo come movimento del pensiero peculiare dei secoli Ottocento e Novecento, e lo ripensa come appartenente a tutta la storia dell'occidente sin dall'antica Grecia. 
Nietzsche, sostiene Heidegger, vide il nichilismo come peculiare del suo tempo solo perché si trovò costretto a pensare come un nichilista: non essendo in grado di pensare l'essenza del Niente, guardò solo alla storia che stava accadendo davanti ai suoi occhi. Il nichilismo è in realtà presente in tutta la storia dell'Occidente e lo dimostrano diverse definizioni elaborate lungo la storia della filosofia. Nell'antica Grecia, Protagora disse che l'uomo è misura di tutte le cose, quindi pose l'uomo come soggetto al centro dell'ente, cosa che anche Nietzsche fece nel nichilismo. L'essere a fondamento del soggetto Heidegger lo vede anche in Descartes e nel suo "ego cogito, ergo sum" (io penso, dunque sono), perché anche in quest'affermazione il filosofo francese pose il sé a fondamento di tutto, quindi l'uomo è soggetto dell'ente. Di fronte a quest'ultima affermazione, il filosofo tedesco si trova però a dover affrontare le critiche che a Descartes mosse lo stesso Nietzsche, secondo cui ego cogito, ergo sum era un'affermazione fondata su verità non certe e per questo non poteva essere accettata; per Heidegger questa contestazione nacque dall'equivoco di pensare ego cogito, ergo sum come un sillogismo, mentre non lo era. Se Nietzsche avesse compreso che l'enunciato principe di Descartes non era un sillogismo, avrebbe riconosciuto in esso delle caratteristiche affini al suo nichilismo.

Tutti noi ricordiamo la celebre affermazione di Nietzsche "Dio è morto" e in base a questa tendiamo a pensare al nichilismo come al rinnegamento di tutto ciò che non è immediatamente percepibile, come a un abbandono definitivo della metafisica.
Heidegger in questo testo dimostra invece che il nichilismo è esso stesso metafisica, perché è la ricerca di un nuovo principio, di un nuovo valore fondante, e per questo presuppone una nuova interpretazione dell'ente che lo renda "principio". Nichilismo non è infatti semplice rinnegamento dei valori tradizionali, ma è trasvalutazione di valori, cioè i vecchi scadono e vengono sostituiti dai nuovi. 
Carattere fondamentale dell'ente è la volontà di potenza; l'ente ha valore ed è valore, cioè è un valore fondamentale ed è solo lui che pone i valori e li mantiene in vigore.
Non solo per Heidegger il nichilismo è metafisica, ma sostiene che non è possibile capirlo fino in fondo se non lo pensiamo come tale.

Oggi si parla spesso di nichilismo quando si vuole sottolineare una perdita di valori che lascia in preda allo smarrimento e all'anarchia dell'anima. Molti associano al nichilismo un significato negativo perché in esso vedono l'immagine di un'umanità sregolata e allo sbando.
In questo volume Heidegger ci aiuta a pensare con maggiore profondità a questo problema filosofico che domina la nostra storia contemporanea e va capito bene, perché non è possibile vederlo ovunque eppure limitarsi a conoscerlo superficialmente.
Trattandosi di un testo filosofico, non è di semplicissima lettura perché è pregno di contenuti. Sopra mi sono limitato a esprimere in modo estremamente sintetico le tesi più importanti contenute nel libro, ma leggendo troverete spiegazioni molto più puntigliose e approfondite. Si tratta di una lettura importante, piacevole e arricchente, ma bisogna essere pronti a concentrarsi e ad assimilare ogni singola parola perché, come in tutti i testi filosofici, anche la parola più insignificante non è scritta per caso. Heidegger argomenta le sue tesi con grande rigore e in alcuni casi bisogna impegnarsi per non perdersi. 
Nonostante tutto ve lo consiglio: è interessante, ricco di contenuti, affronta un problema molto attuale e si legge comunque piacevolmente. 

Francesco Abate