venerdì 31 maggio 2019

COMMENTO AL CANTO XXXI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

<< O tu che se' di là dal fiume sacro >>,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m'era paruto acro,
ricominciò, seguendo sanza cunta,
<< dì, dì se questo è vero; a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta. >>
Era la mia virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Il canto inizia da Beatrice la quale, dopo essersi rivolta agli angeli, volge il suo discorso direttamente a Dante. Il poeta fiorentino ha già sentito la durezza delle parole pronunciate dalla donna quando gli si è rivolta indirettamente, parlando con gli angeli, ancor più la percepisce ora che queste sono rivolte direttamente a lui; le parole di Beatrice sono descritte dall'autore come una spada che lo ha colpito prima "per taglio" e ora "per punta". Nel canto precedente il poeta ha paragonato l'atteggiamento della sua musa spirituale a quello di una madre che si mostra adirata col figlio discolo; anche qui il paragone continua a reggere, infatti lei dopo la ramanzina pretende da lui una confessione, esattamente come il genitore che chiede spiegazioni al figlio pur conoscendone già la colpa. Beatrice chiede al suo protetto di confessare i suoi peccati e confermare ciò che ha detto. Tanto è forte il senso di colpa in Dante, che la sua forza d'animo viene meno e la voce gli muore sulle labbra nel momento in cui tenta di parlare. Beatrice non aspetta un istante, incalza Dante con un << Che pense? >> e ricordandogli che non può aver dimenticato le sue colpe ("memorie triste") perché ancora non ha bevuto le acque del Letè. La confusione e la paura che nascono dalla vergogna provata dal poeta lo spingono a pronunciare un così flebile da poter esser compreso solo leggendo il labiale, non ha nemmeno la forza di pronunciare con decisione la sillaba e ammettere chiaramente le proprie colpe davanti a colei che lo accusa. La voce, ci dice l'autore, esce lieve così come debole è l'urto della freccia scoccata da una balestra la cui corda, troppo tesa, si spezza al momento del lancio; la freccia della metafora perde forza a causa del cedimento della corda causato dall'eccessivo carico, la voce del poeta si spegne a causa del pianto in cui scoppia per via del peso eccessivo delle proprie colpe ("Confusione e paura insieme miste / mi pinsero un tal << sì >> fuor de la bocca, / al quale intender fuor mestier le viste. / Come balestro frange, quando scocca / da troppa tesa, la sua corda e l'arco, / e con men foga l'asta il segno tocca, / sì scoppia'io sottesso grave carco, / fuori sgorgando lagrime e sospiri, / e la voce allentò per lo suo varco"). Torna a parlare Beatrice, la quale gli chiede quali fossati o quali catene l'avevano spinto ad abbandonare la speranza di superarli, nonostante il desiderio del bene superiore che lei gli aveva suscitato; gli chiede poi quali facilitazioni e quali vantaggi abbia trovato nell'aspetto dei beni illusori, così da desiderarli e dimenticare quelli realmente buoni. Dante, piangendo e con la voce a stento udibile, ammette di aver avuto davanti agli occhi dei piaceri falsi che ne avevano distolto il cammino, e ciò era accaduto dopo la morte dell'amata Beatrice ("Piangendo dissi: << Le presenti cose / col falso lor piacer volser miei passi, / tosto che 'l vostro viso si nascose >>"). Sentita la confessione del poeta, la donna gli spiega che non ha senso tacere o negare le proprie colpe, esse sono infatti note a Dio, che è un giudice infallibile; quando però il peccato è confessato dal peccatore, nonostante egli riveli una verità già nota, si mette in opera la misericordia e la ruota che affila le armi che lo colpiranno viene girata al contrario, così da spezzarle anziché affilarle. Detto ciò, Beatrice dice a Dante di fermare il suo pianto e ascoltarla, infatti adesso si vergogna dei suoi errori, ma ha bisogno di una lezione che gli permetta di non ripeterli, vuole perciò spiegargli come la perdita dell'amata avrebbe dovuto spingerlo a un comportamento diverso: la sua poesia e la creazione di Dio non gli avevano mai mostrato nessuna forma terrena più bella di lei, le cui membra sono adesso sepolte, e quella prima esperienza della caducità delle cose terrene avrebbe dovuto spingerlo al culto della forma spirituale dell'amata, non farlo andare alla ricerca di altre donne o altri piaceri terreni. Beatrice conclude il discorso con una metafora: l'uccello giovane non fugge dai colpi del cacciatore se non dopo averne sentiti due o tre, invece quello adulto fugge subito dalla rete e dai dardi; Dante avrebbe dovuto, dopo la perdita dell'amata, fare come l'uccello maturo e fuggire dalle trappole del peccato, invece come quello giovane è stato fermo e si è esposto alle altre tentazioni. Il poeta ascolta la spiegazione della donna a testa bassa a causa della vergogna, lei però lo invita ad alzare lo sguardo e guardarla, così da sentire ancora di più il dolore che gli causano ora quelle parole. Nell'invitarlo ad alzare lo sguardo, Beatrice gli dice di alzare la barba, questo con l'intento di rafforzare il rimprovero usando l'ironia, ricordandogli che è un uomo e non un bambino. Dante obbedisce all'amata non senza sforzo, la resistenza che oppone è superiore a quella che il cerro oppone al vento proveniente dall'Africa, dalla terra di Iarba (personaggio dell'Eneide), quando viene da questo sradicato, anche perché ha colto l'ironia contenuta nell'invito. Appena alzato lo sguardo, si accorge che gli angeli (prime creature) hanno smesso di spargere i fiori, e i suoi occhi (le mie luci) ancora poco sicuri vedono Beatrice volta verso il Grifone, che è una sola persona in due nature. Forte è il simbolismo in questi versi: la fede (Beatrice) è rivolta completamente verso Gesù Cristo (il Grifone) che è una persona con due nature (umana e divina). La vede sotto il velo, dall'altra parte del fiume, e gli sembra più bella di quanto fosse stata in vita, supera sé stessa in bellezza più di quanto in vita superava le altre donne. Vedendola così bella, è punto dal pentimento come fosse ortica, e maledice tutte quelle cose che lo hanno spinto lontano da lei ("Sotto 'l suo velo e oltre la rivera / vincer pariemi più sé stessa antica, / vincer che l'altre qui, quand' ella c'era. / Di penter sì mi punse ivi l'ortica, / che di tutte altre cose qual mi torse / più nel suo amor, più mi si fé nemica"). Vedendo Beatrice, l'anima di Dante è vinta dalla consapevolezza delle sue colpe e lui sviene, così ciò che accade dopo è noto solo alla donna.
Quando il cuore riprende il suo battito regolare e restituisce al corpo di Dante le forze, così da farlo riprendere, vede sopra di lui Matelda che lo invita ad aggrapparsi a lei. La donna lo immerge nel Letè fino alla gola e se lo tira dietro mentre cammina sulle acque come una piccola barca. Arrivato nei pressi dell'altra riva, beata perché è quella dove staziona il corteo con Beatrice, sente cantare << Asperges me >> in una maniera tanto dolce che non solo gli è impossibile da descrivere, ma anche da ricordare. Aperges me sono le parole contenute nei versi di un Salmo che venivano cantati quando una chiesa veniva sparsa di acqua santa. Questi versi vengono cantati ora mentre Matelda (la bella donna) prende tra le braccia la testa di Dante e la spinge sott'acqua, costringendolo a bere le acque del fiume Letè, che hanno il potere di cancellare la memoria dei peccati. Non è casuale la scelta dei versi sopra citati, così come l'acqua santa nelle chiese scaccia gli spiriti malvagi, le acque del Letè cancellano la malvagità dalla mente dell'anima peccatrice. Dopo averlo fatto bere, Matelda tira fuori Dante dall'acqua e lo spinge in mezzo alle quattro fanciulle che danzano alla sinistra del carro, ciascuna delle quali lo prende sottobraccio. Le fanciulle gli dicono che sono le quattro ninfe e sono stelle del cielo, furono create prima della nascita di Beatrice ma furono ordinate sue ancelle, gli dicono poi che lo condurranno a vedere gli occhi dell'amata e gli preannunciano che le altre tre fanciulle renderanno la sua vista più aguzza ("Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; / pria che Beatrice discendesse al mondo, / fummo ordinate a lei per sue ancelle. / Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo / lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi / le tre di là, che miran più profondo"). Le quattro fanciulle rappresentano le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza), le quali esistevano già nel mondo pagano, quindi prima della rivelazione divina e della sapienza teologica, e ora hanno il ruolo di condurre l'uomo smarrito alla teologia, e lui deve poi affidarsi alle virtù teologali (fede, speranza e carità) per vedere più in là. Le fanciulle conducono Dante davanti al Grifone, dove sta Beatrice che li guarda, e lo invitano a fissarla intensamente negli occhi verde smeraldo, quegli occhi che l'avevano fatto già innamorare. Mille desideri più caldi della fiamma lo spingono a guardare negli occhi di Beatrice, che lei tiene ora rivolti al Grifone. Il poeta assiste a qualcosa di miracoloso: il Grifone si specchia negli occhi della donna ma, mentre la sua forma appare sempre uguale, il suo riflesso cambia continuamente forma, rivelandone la doppia natura ("Come in lo specchio il sol, non altrimenti / la doppia fiera dentro vi raggiava, / or con altri, or con altri reggimenti. / Pensa, lettor, s'io mi maravigliava, / quando vedea la cosa in sé star queta, / e ne l'idolo suo si trasmutava").  Il miracolo serve a spiegare come la figura di Gesù Cristo può essere intesa come umana e divina allo stesso tempo solo con la mediazione della teologia, è impossibile comprendere questo mistero usando solo la ragione umana. Mentre assiste estasiato a quello spettacolo, che gli mostra verità che più sono conosciute e più si ha voglia di conoscere maggiormente, si avvicinano le altre tre fanciulle le quali, danzando, pregano Beatrice di volgere lo sguardo all'uomo che per amor suo ha percorso un così lungo cammino, le chiedono poi di mostrargli la bellezza di cui brilla ora nella sua forma spirituale ("Volgi, Beatrice, vogli li occhi santi / ... al tuo fedele / che, per vederti, ha mossi passi tanti! / Per grazia fa noi grazia che disvele / a lui la bocca tua, sì che discerna / la seconda bellezza che tu cele"). Beatrice accontenta le tre fanciulle e si mostra a Dante, suscitando in lui un'impressione tale da non poter essere compresa appieno senza leggere direttamente le sue terzine:
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l'ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t'adombra,
quando ne l'aere aperto ti solvesti?
Beatrice è isplendor di viva luce etterna, Dante la identifica con la Sapienza di Dio citata nel libro dei Proverbi e direttamente a lei si rivolge con una domanda retorica, sottintendendo che nessun poeta, nemmeno uno vissuto sotto il Parnaso e dissetato dalle acque delle ninfe della poesia, può in alcun modo descrivere lo splendore che emana nel momento in cui alza il velo e mostra il suo viso lì nel Paradiso terrestre, dove le sfere celesti la circondano con la loro armonia.

Francesco Abate       

domenica 26 maggio 2019

COMMENTO AL CANTO XXX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Quando il settentrion del primo cielo
che né l'occaso mal seppe né orto
né d'altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascuno accorto
di suo dover, come 'l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo s'affise: la gente verace,
venuta prima tra 'l Grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo,
<<Veni, sponsa, de Libano>> cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Il canto inizia con l'immagine dei sette candelabri che si fermano e i ventiquattro signori che si girano verso il carro. Nel descrivere la scena, Dante usa delle parole adatte a rendere ancora una volta l'idea dell'importanza dei candelabri i quali, come abbiamo visto nel commento al canto precedente, rappresentano o i sette doni dello Spirito Santo o i sacramenti, quindi sono le guide dei fedeli; essi sono paragonati alla costellazione dell'Orsa Minore che splende nel cielo, la quale non sorge e non tramonta mai e non può essere nascosta se non dalla negligenza di chi non la vede, ed è guida dei nocchieri che conducono le navi nei porti. Fermatisi i candelabri, i ventiquattro signori si girano verso il carro, che rappresenta la Chiesa, e uno di loro canta per tre volte le parole tratte dal Cantico dei Cantici: <<Veni, sponsa, de Libano>>. L'uso di queste parole ci autorizza a pensare che il signore in questione rappresenti appunto il Cantico dei Cantici (uno dei libri della Bibbia ebraica, attribuito dalla tradizione a re Salomone). Non concordi sono i critici circa il destinatario di questo invito, infatti alcuni lo vedono rivolto a Beatrice, mentre altri invece al carro che, in quanto rappresentante della Chiesa, è la sposa di Gesù Cristo. Come sorgeranno dai propri sepolcri i beati al momento della resurrezione dei corpi, glorificando Dio, così dal carro si levano cento ministri e angeli di Dio i quali, rispondendo all'invito di un vecchio tanto venerando, dicono <<Benedetto tu che vieni>> e tutt'intorno gettano fiori, incitando a spargere gigli a piene mani. In questi versi c'è un interessante accostamento tra la Bibbia e l'Eneide di Virgilio: l'espressione <<Benedictus qui venis!>> Dante la prende dal Vangelo di Matteo (<<Benedetto colui che viene nel nome del Signore>>), mentre quella usata per invitare a spargere i fiori è presa dall'opera virgiliana, dove <<Manibus, oh, date lilia plenis!>> sono le parole pronunciate da Anchise nei Campi Elisi per glorificare Marcello; questo accostamento ribadisce l'ispirazione divina che Dante attribuisce a Virgilio e alla sua opera principale. Il poeta vede la parte orientale del cielo azzurro iniziare a tingersi di rosso, segno che l'alba sta arrivando, e a causa dei vapori il suo occhio riesce a fissare il sole; allo stesso modo, dentro la nuvola di fiori lanciati dagli angeli del carro, vede apparire Beatrice, la quale indossa un velo bianco, è incoronata di ulivo, ha un mantello verde e un vestito di color rosso fiammante (ritornano i colori della fede, della speranza e della carità, più l'ulivo simbolo della pace). Lo spirito di Dante, che da tanto tempo non può più meravigliarsi alla vista della donna amata (morta nel 1290, quindi dieci anni prima l'ideale svolgimento del viaggio nell'oltretomba), anche senza vederla negli occhi sente la gran potenza dell'amore che lei emana grazie a un'occulta virtù; pur non potendola guardare negli occhi, il poeta rivive immediatamente l'amore perduto tanti anni prima ("E lo spirito mio, che già cotanto / tempo era stato ch'a la sua presenza / non era di stupor, tremando, affranto, / sanza de li occhi aver più conoscenza, / per occulta virtù che da lei mosse, / d'antico amor sentì la gran potenza"). 
Non appena viene ferito da quell'amore che lo ha colto per la prima volta quand'era ancora bambino ( vediamo il travaglio causato dall'amore, come se ci fosse una lotta, caratteristica tipica del dolce stil novo), si volge verso Virgilio come il bambino spaventato che corre dalla madre, intenzionato a dirgli che non c'è neanche una goccia del suo sangue che non tremi e riconosce i segni dell'antica fiamma. Le parole che il poeta vuole rivolgere alla sua guida sono motivate dal bisogno di fargli conoscere il dramma amoroso che sta vivendo, per farlo usa un'espressione presa dall'Eneide dello stesso Virgilio ("conosco i segni de l'antica fiamma" - parole pronunciate da Didone). La fidata guida però non c'è, ha esaurito la sua missione ed è andata via, lasciando Dante e Stazio nelle mani di Beatrice; ciò che poteva essere indagato con la ragione è ormai stato compreso, è tempo che la fede salga in cattedra perché si raggiunga la conoscenza. Le guance del poeta, che erano state pulite da Virgilio con la rugiada all'inizio del viaggio in Purgatorio, tornano a sporcarsi a causa delle lacrime che le rigano: ciò non viene impedito nemmeno dalla visione delle meraviglie di quel che Eva perdette a causa del peccato originale ("né quantunque perdeo l'antica matre, / valse a le guance nette di rugiada / che, lagrimando, non tornasser atre"). Vedendolo piangere, Beatrice rimprovera aspramente Dante, dicendogli che non deve piangere per l'allontanamento del maestro, infatti dopo avrà motivi ben più gravi per essere triste. Nel rimprovero della donna, per la prima volta nel poema viene citato direttamente il nome del poeta. Sentito il rimprovero, Dante si volta e vede Beatrice che lo guarda dall'altro lato del fiume. Il volto autoritario della donna gli ricorda quello di un ammiraglio che va su e giù per la nave, dando ordini e predicando fedeltà. Nonostante il velo non la renda perfettamente visibile in viso, lui nota in lei un'aria autoritaria tipica di chi rimprovera e si riserva i richiami più duri per le fasi successive del discorso ("Tutto che 'l vel che le scendea di testa, / cerchiato de le fronde di Minerva, / non la lasciasse parer manifesta, / regalmente ne l'atto ancor proterva / continuò, come colui che dice / e 'l più caldo parlar dietro reserva"). 
Beatrice ordina a Dante di guardarla, usando il plurale maiestatis, poi gli chiede come abbia osato salire il monte del Purgatorio, infine gli chiede se non sapesse che lì l'uomo trova la felicità. L'intento della donna, che ha voluto fortemente il viaggio del suo protetto, è quello di farlo vergognare dei suoi peccati, di fargli percepire la sua inadeguatezza, e con l'ultima domanda intende fargli ricordare che in vita ha colpevolmente cercato la felicità nelle cose terrene. Il poeta abbassa lo sguardo e si vede riflesso nelle acque del Letè, ma la vergogna è così forte da rendergli dolorosa anche la vista della propria immagine, quindi volge lo sguardo all'erba ("Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; / ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba, / tanta vergogna mi gravò la fronte"). Nella sua vergogna, percepisce nella donna l'alterigia che il figlio vede nella madre quando da lei subisce aspri rimproveri, sentendo il sapore amaro dell'apparente assenza di pietà. Beatrice tace, gli angeli allora iniziano a cantare il Salmo 30 ("In te Domine, speravi"), fermandosi però al nono versetto ("pedes meos"), che ricorda come il salmista sia stato posto da Dio in un terreno aperto e libero dalle insidie. Dante, sentendo attraverso il canto che gli angeli lo compatiscono, quasi come se chiedessero a Beatrice perché mai lo stesse rimproverando, inizia a piangere; come la neve si ghiaccia tra gli alberi dell'Appennino per poi sciogliersi all'arrivo dei primi venti caldi africani, così lui si scioglie in lacrime e sospiri una volta compreso il canto degli angeli. 
Beatrice, restando ferma vicino alla parte sinistra del carro, si rivolge agli angeli. Apre il suo discorso dicendo che gli angeli vedono tutto e nulla può essergli nascosto, quindi le sue parole sono rivolte principalmente a Dante, colui che piange dall'altra parte del fiume, affinché il suo dolore sia commisurato alle sue colpe. Spiega poi che il poeta aveva avuto grandi doni non solo dalle influenze benefiche dei cieli e delle costellazioni, ma anche dalla generosità della grazia divina (le cui cause sono per noi incomprensibili), tanto che ogni sua abilità si sarebbe potuta tradurre in grandi opere; purtroppo però quanto più un terreno è fertile, tanto più può diventare selvatico se non viene lavorato o viene seminato con cattive sementi; per un certo tempo fu lei stessa a tenerlo sulla retta via con l'amore che in lui suscitò, ma quando morì, lui si gettò tra le braccia di altre donne, e lei gli divenne meno cara proprio nel momento in cui era cresciuta in bellezza e virtù (perché diventata un'anima beata e non più solo una donna pia); lui si volse a seguire false immagini e false virtù, nonostante lei si adoperasse per riportarlo sulla retta via apparendogli in sogno; cadde così in basso che lei fu costretta a fargli vedere i dannati, per questo si recò al Limbo e pregò Virgilio di condurlo fin lassù. Tutto il discorso circa la perdizione di Dante, Beatrice lo conduce dicendo che sarebbe violata la volontà di Dio se si permettesse al poeta di gustare le acque del Letè, quindi dimenticare i propri peccati, senza prima essersi sinceramente pentito delle proprie colpe.

Francesco Abate   

domenica 19 maggio 2019

COMMENTO AL CANTO XXIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Cantando come donna innamorata,
continuò col fin di sue parole:
<< Beati quorum tecta sunt peccata! >>.
Appena finito di parlare, Matelda riprende a cantare come una donna innamorata. Quest'espressione richiama il verso 7 della IX Ballata di Guido Cavalcanti che recita: "cantando come fosse 'namorata". L'amore che manifesta la donna col suo canto non è ovviamente quello carnale proprio dei vivi, ella rivela l'amore per Dio e quello per il poeta affidato alle sue cure nel Paradiso terrestre. Cantando, Matelda pronuncia una frase in latino che riprende il salmo 32 e dichiara beati coloro a cui sono perdonati i peccati; questa frase può essere messa in relazione con l'imminente immersione di Dante nel Letè, grazie alla quale dimenticherà i suoi peccati. Come le ninfe che cercavano la solitudine all'ombra degli alberi o alla luce del sole, così si muove Matelda in direzione opposta alla corrente del fiume ("contra 'l fiume") e Dante la segue come se le camminasse accanto, pur essendo separato da lei dalle acque del Letè ("E come ninfe che si givan sole / per le salvatiche ombre, disiando / qual di veder, qual di fuggir lo sole, / allor si mosse contra 'l fiume, andando / su per la riva; e io pari di lei, / picciol passo con picciol seguitando"). Il richiamo alle ninfe fatto dall'autore serve a mantenere quell'aura di beatitudine che aleggia sul Paradiso terrestre, la loro ricerca dell'ombra o del sole rende la scena simile a quelle scelte dai poeti classici e ci trasporta in un luogo fatato e pregno di una mistica pace. I passi del poeta e della donna, sommati, non arrivano ancora a cento quando il corso del fiume vira di novanta gradi e Dante si ritrova col volto verso levante. Camminano un altro po', dopo di che Matelda si gira verso di lui e lo invita a guardare e ascoltare. Una luce improvvisamente illumina tutta la foresta, dando al poeta l'impressione che lampeggi come fanno i lampi ("tal che di balenar mi mise in forse"), ma questa non è intermittente, bensì cresce sempre più d'intensità e lo spinge a chiedersi cosa sia. Oltre alla luce, nell'aria si diffonde una dolce melodia che fa nascere in Dante un giusto sdegno per il peccato di ribellione commesso da Eva la quale, nel luogo dove tutto è in armonia, non tollerò il comando divino di non mangiare il frutto dell'albero della scienza del bene e del male. Se Eva non avesse disobbedito, ragiona Dante, il Paradiso terrestre sarebbe stato ancora oggi di tutti gli uomini e lui avrebbe potuto godere di quella meraviglia dalla nascita e per tutta la vita terrena. Nei versi in cui è descritto lo sdegno di Dante per il peccato di Eva, c'è un'espressione che nel tempo è stata interpretata in due modi differenti ed è contenuta nel verso 25 ("che là dove ubidia la terra e 'l cielo"): secondo alcuni critici questo verso indica l'armonia che c'è nel Paradiso terrestre, mentre altri in là dove leggono una congiunzione avversativa che cambia lievemente il significato del verso, creando una netta contrapposizione tra la terra e il cielo, ubbidienti al volere divino, ed Eva, che disubbidì. Mentre il poeta gode stupito dei primi segni della beatitudine eterna, desideroso di godere di altre letizie (come l'apparizione di Beatrice), davanti a lui l'aria si illumina come se fosse un fuoco, mentre capisce che il suono è un canto ("Mantr'io m'andava tra tante primizie / de l'etterno piacer tutto sospeso, / e disioso ancora a più letizie, / dinanzi a noi, tal quale un foco acceso, / ci si fé l'aere sotto i verdi rami; / e 'l dolce suon per canti era già inteso").
Dopo aver iniziato a cantarci la visione sulle rive del Letè, l'autore interrompe la descrizione per riprendere l'invocazione alle Muse fatta nel canto I e ampliarla, ha infatti bisogno di un aiuto superiore per rendere efficacemente in versi non solo ciò che vide, ma l'effetto che ebbe sulla sua anima. Inizia l'invocazione ricordando che per coltivare il suo amore per la scrittura spesso ha ignorato i suoi bisogni fisici, perciò si sente autorizzato a chiedere il loro aiuto. E' necessario che il monte Elicona, sede delle Muse, versi in lui l'acqua delle sue fonti, e che Urania lo aiuti a mettere in versi cose che sono difficili anche solo da pensare ("O sacrosante Vergini, se fami, / freddi o vigilie mai per voi soffersi, / cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami. / Or convien che Elicona per me versi, / e Uranìe m'aiuti col suo coro / forti cose a pensar mettere in versi").
Terminata l'invocazione alle Muse, l'autore riprende la descrizione della visione. Vede poco lontano sette alberi d'oro, ma avvicinandosi si accorge di essere stato ingannato dalla distanza, in realtà sono sette candelabri d'oro, inoltre riesce a distinguere le parole del canto e capisce che le voci dicono << Osanna >>. Le fiamme poste alla sommità dei candelabri sono più luminose della luna piena a mezzanotte. Dante è carico di stupore e si volta verso Virgilio, il quale dallo sguardo tradisce altrettanta meraviglia. Volge di nuovo lo sguardo alla visione, guardando le altre cose che procedono così lentamente da poter essere vinte da delle spose novelle. Matelda rimprovera il poeta, chiedendogli perché si soffermi a guardare solo le luci e ignori invece quello che c'è dietro ("La donna mi sgridò: << Perché pur ardi / sì ne l'affetto de le vive luci, / e ciò che vien di retro a lor non guardi? >>"). Dante infatti, sorpreso da tanta meraviglia, sta solo ammirando, mentre da lui si esige adesso una contemplazione profonda: quel miracolo non può essere guardato con leggerezza. Adesso il poeta vede delle persone, vestite con abiti tanto candidi da non avere eguali nel mondo dei vivi, seguire i candelabri come fossero le loro guide. Tanta è forte la luce dei candelabri da far risplendere le acque del Letè come fossero uno specchio, inoltre queste riflettono la sua immagine. Raggiunta una posizione ottimale in cui solo le acque del fiume lo separano dal corteo, il poeta si ferma per guardare meglio, e vede i candelabri d'oro procedere e lasciare dietro di sé l'aria colorata, come se fossero dei pennelli che colorano una tela, e sopra di loro restano i sette colori dell'iride, quelli con cui il Sole forma il suo arcobaleno e la Luna (Delia) l'alone intorno a sé. Questi stendardi, così definisce le strisce di luce, si estendono tanto indietro da non poterne scorgere la fine, e il poeta ipotizza che i due più esterni siano distanti tra loro dieci passi.
Sotto questo bellissimo cielo colorato, passano a due a due ventiquattro signori che indossano corone di gigli (fiordaliso), i quali intonano un canto di benedizione alla Vergine Maria e agli effetti benefici della sua fede. 
Ai ventiquattro signori seguono quattro animali, ciascuno coronato di una verde fronda, ciascuno con sei ali le cui penne sono coperte di occhi simili a quelli che avrebbe Argo (pastore dai cento occhi che, secondo la mitologia, fu decapitato da Mercurio per liberare Io) se fosse vivo. L'autore ci dice che non userà altri versi per descriverci l'aspetto degli animali, ci sono infatti cose più importanti da raccontare, ci dice poi di leggere Ezechiele per scoprirne l'aspetto; essi sono infatti come sono descritti nel libro di Ezechiele, solo che di ali ne hanno sei e non quattro, su questo particolare fu più preciso san Giovanni ("A descriver lor forme più non spargo / rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne, / tanto ch'a questa non posso esser largo; / ma leggi Ezechiel, che li dipigne / come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne; / e quali i troverai ne le sue carte, / tali eran quivi, salvo ch'a le penne / Giovanni è meco e da lui si diparte"). 
Nello spazio tra le quattro fiere c'è un carro trionfale che si muove su due ruote ed è trainato da un grifone. Il grifone tende verso l'alto le sue ali, tra le quali comprende la lista mediana, e le ha disposte in modo da avere tre liste a un lato e tre a un altro, senza fenderne nessuna. Tanto in alto arrivano le sue ali da non essere visibili, le membra d'uccello sono d'oro e le altre sono bianche o rosso sangue (vermiglio). A Roma non fu dedicato né a Scipione l'Africano né ad Augusto un carro bello come quello che adesso vede Dante; perfino il carro del Sole, che Giove bruciò dopo che Fetonte l'ebbe portato fuori dalla sua via, apparirebbe misero al confronto. 
Vicino alla ruota di destra ci sono tre donne che procedono danzando: una è così rossa che dentro al fuoco si noterebbe a malapena, un'altra è verde come lo smeraldo, la terza è candida come la neve. La danza delle tre donne a volte sembra guidata dalla rossa, a volte dalla bianca, mentre il ritmo è dato dal canto di quest'ultima. 
Vicino alla ruota di sinistra ci sono quattro donne vestite di rosso porpora che danzano guidate da quella di loro che ha tre occhi. 
Dietro al carro ci sono due vecchi vestiti in modo differente, ma identici nell'atteggiamento dignitoso e solenne. Uno si mostra come seguace di Ippocrate, quindi è un medico, il quale fu creato dalla Natura per gli animali che ha più cari; l'altro mostra una propensione diversa dal medico, non quella di curare ma quella di ferire, con una spada lucida e appuntita che spaventa Dante sull'altra riva del fiume. Seguono quattro uomini dall'aspetto umile, dietro i quali procede solitario un vecchio in estasi (dormendo) con lo sguardo penetrante (la faccia arguta). Questi sette sono vestiti come i ventiquattro signori passati prima, ma a differenza di quelli non hanno la corona di giglio, bensì sono coronati di rose e altri fiori vermigli. Giurerebbe, ci dice l'autore, che quegli uomini stessero ardendo sopra la fronte. 
Quando il carro arriva di fronte a Dante, un tuono riecheggia nell'aria e quel corteo, come se avesse il divieto di procedere oltre, si ferma con i candelabri (le prime insegne).

Molto forte è in questo canto la componente allegorica, la descrizione del corteo è molto ricca di simboli il cui significato ho preferito non spiegare man mano per non appesantire troppo la narrazione.
La prima immagine, quella che apre il corteo, è quella dei sette candelabri d'oro, che Dante inizialmente scambia per sette alberi. Le interpretazioni principali circa il loro significato sono due: per alcuni rappresentano i sette sacramenti, per altri i sette doni dello Spirito Santo (Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà e Timor di Dio). Forse si potrebbe propendere più per la seconda interpretazione visto che alla sommità di questi c'è una fiamma ardente, e sappiamo benissimo che il fuoco è simbolo dello Spirito Santo. Inoltre i sacramenti sono un'istituzione della Chiesa, che nel corteo verrà dopo, mentre i candelabri la precedono e sono le insegne del corteo, quindi sono maggiormente assimilabili coi doni dello Spirito Santo, i quali guidano la Chiesa nel suo cammino. Le persone che seguono i candelabri usandoli come guida probabilmente rappresentano i giusti del Vecchio Testamento, la cui fede è pura in modo quasi ineguagliabile (gli abiti straordinariamente candidi). Per quanto riguarda i sette colori dell'iride formati dai candelabri, non dimentichiamo che nella Bibbia l'arcobaleno è simbolo della rinnovata alleanza tra Dio e uomo dopo il diluvio universale, inoltre anche nella mitologia gli veniva riconosciuto un carattere sacro. I dieci passi che separano i due colori estremi probabilmente rappresentano i dieci comandamenti.
I ventiquattro signori Dante li riprende probabilmente dall'Apocalisse, dove essi compaiono innanzi al trono di Dio. San Girolamo in essi vide i ventiquattro libri del Vecchio Testamento. I gigli che coronano la testa dei signori rappresentano la fede che animò coloro che scrissero quei libri. Lo Spirito Santo è il vero autore delle Sacre Scritture, ispirò coloro che le scrissero, per questo essi con la loro fede pura seguono i candelabri così da vicino.
I quattro animali sono i quattro evangelisti (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), rappresentati secondo la profezia di Ezechiele e ancora oggi spesso raffigurati con le immagini di animali simbolici (simboli introdotti da San Ireneo). Le ali sono sei come quelle dei serafini e rappresentano la rapidità con cui si diffuse il messaggio evangelico; in esse invece Pietro di Dante vide le sei leggi: naturale, mosaica, profetica, evangelica, apostolica, canonica. La presenza di occhi sulle ali, sia davanti che dietro, indica la perfezione dei vangeli, i quali vedono nelle cose passate e nelle cose future.
Tra i quattro evangelisti c'è il carro, che rappresenta la Chiesa. A trainare la Chiesa c'è il grifone, che rappresenta Gesù Cristo. Per la figura di Cristo, Dante sceglie il grifone perché col suo corpo dalla forma duplice (testa e ali d'aquila, corpo da leone) rappresenta la natura contemporaneamente umana e divina del Figlio di Dio. Le ali del grifone arrivano così in alto da non poter essere viste, questo perché l'elemento divino non può essere compreso dalla ragione umana, inoltre l'autore ci specifica come non fendano nessun colore, questo per mostrarci come la figura di Cristo proceda in armonia coi doni dello Spirito Santo.
Le tre fanciulle alla destra del carro sono le virtù teologali: carità, speranza, fede. La carità si distingue per l'ardore spirituale ed è perciò rappresentata dalla fanciulla rossa, la speranza è quella verde mentre la fede quella bianca. Le virtù teologali sono a volte guidate dalla fede, altre dalla carità, questo perché la fede è la via dell'amore e questo accresce la fede. 
Dall'altro lato ci sono quattro donzelle che rappresentano le virtù cardinali, cioè i pilastri di una vita dedicata al bene: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Guida la loro danza la prudenza, che ha tre occhi perché, scriveva Dante nel Convivio, per l'esercizio di questa virtù ci vogliono buona memoria delle cose viste, buona conoscenza delle presenti e buona capacità di prevedere quelle future.
I sette signori che chiudono il corteo sono gli altri scrittori neotestamentari. Sono citati: san Luca, il medico, che scrisse gli Atti degli Apostoli; San Paolo, il quale brandisce la spada che rappresenta la parola di Dio, lui infatti non si preoccupò di curare il corpo ma di aprire le anime. Il vecchio solitario rappresenta l'Apocalisse di san Giovanni, che vede la fine dei tempi (l'estasi e lo sguardo arguto). Nei sette signori Pietro di Dante vide invece i dottori della Chiesa come sant'Agostino e san Tommaso, giusto per citarne un paio, ma nel complesso la visione abbraccia tutto lo sviluppo della Bibbia, quindi sembra più plausibile la teoria degli ultimi scrittori neotestamentari come san Luca e san Paolo. 

Francesco Abate  




domenica 12 maggio 2019

COMMENTO AL CANTO XXVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch'a li occhi temperava il novo giorno,
sanza più aspettar, lasciai la riva,
prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che d'ogne parte auliva.
Il canto XXVIII inizia con Dante che, giunto nel Paradiso terrestre, è pieno del desiderio di esplorare questa foresta verdeggiante (viva) e tanto folta di alberi (spessa) da attenuare la luce del sole. Si allontana dal margine su cui si trova e si muove lentamente per il giardino, così da non perdersi niente, e nota come l'ambiente sia molto ricco di profumi. La descrizione di questo magnifico giardino verdeggiante e profumato è in aperta contrapposizione con quella della selva oscura da cui il viaggio del poeta è partito. Nel canto I dell'Inferno Dante ci ha descritto una selva selvaggia e aspra e forte, invece qui troviamo una foresta spessa e viva; la selva inoltre era oscura, qui invece c'è la piacevole presenza della luce del sole attenuata dalle foglie degli alberi. Il poeta era immerso nella natura all'inizio di questo viaggio e lo è anche ora, quella del canto I era però la natura terribile della perdizione, questa invece è la natura fantastica e piacevole della purificazione. Terminato il primo periodo, l'autore si dilunga con una descrizione ricca della fantastica natura che regna nel giardino: un lieve venticello soffia costantemente alla stessa velocità e piega leggermente le fronde degli alberi verso occidente ("le fronde, tremolando, ... tutte quante piegavano a la parte u' la prim'ombra gitta il santo monte"); le fronde degli alberi, essendo il vento leggero, si piegano così poco da non disturbare gli uccelli che si poggiano per cantare la letizia delle prime ore del mattino, accompagnati dal suono delle foglie accarezzate dal vento. La scena ricorda a Dante la pineta di Classe (Chiassi) quando soffia il vento ("tal qual di ramo in ramo si raccoglie / per la pineta in su 'l lito di Chiassi, / quand' Eolo scilocco fuor discioglie"). Il poeta è già entrato tanto nel giardino da non vedere più il punto d'ingresso, quando deve arrestare il suo cammino per via di un piccolo fiume le cui piccole onde piegano l'erba spuntata sulla riva. Tanto è limpida l'acqua di questo fiume da far apparire torbidi i corsi d'acqua più puri del mondo; la limpidezza di queste acque è tanta da risaltare nonostante scorrano sotto l'ombra della vegetazione ("Tutte l'acque che son di qua più monde, / parrieno avere in sé mistura alcuna / verso di quella, che nulla nasconde, / avvegna che si mova bruna bruna / sotto l'ombra perpetua, che mai / raggiar non lascia sole ivi né luna"). Si ferma il poeta a guardare la grande varietà di alberi in fiore sull'altra riva del fiume, uno spettacolo che gli rimanda alla mente le primavere fiorentine: l'espressione "i freschi mai", usata per descrivere la scena, ricorda i maggi fiorentini, in cui si usava appendere rami fioriti alle porte e alle finestre. La contemplazione di Dante si interrompe quando nota, sempre sull'altra riva del fiume, una donna che cammina da sola e, cantando, raccoglie dei fiori che sceglie lungo la via che ne è piena ("e là m'apparve, sì com'elli appare / subitamente cosa che disvia / per maraviglia tutto altro pensare, / una donna soletta che si gia / e cantando e scegliendo fior da fiore / ond' era pinta tutta la sua via"). La donna in questione scopriremo nel canto XXXIII che è Matelda e allora ne parleremo più approfonditamente, adesso qui è da segnalare il modo in cui è descritta, col suo atteggiamento sembra essere parte integrante nel paesaggio, un'espressione della grazia così come tutto l'ambiente della foresta; l'azione della scelta dei fiori in mezzo a un prato fiorito è un'allegoria, ella elegge le migliori opere virtuose per farsene corona. Al di là dell'effettivo ruolo che la donna ha nella Commedia, circa il suo valore simbolico la critica non è concorde: per alcuni rappresenta la perfezione della vita attiva e l'utilizzo virtuoso delle qualità intellettuali, per altri invece la felicità terrena e l'innocenza, altri ancora vedono in lei il ministero sacerdotale, o la sapienza del Vecchio Testamento, o la grazia preveniente e cooperante. 
Dante si rivolge a Matelda chiamandola bella donna che si riscalda ai raggi dell'amore, cosa che può dedurre perché crede che all'immagine del viso corrisponda quella del cuore, e le chiede di avvicinarsi al fiume così che lui possa capire cosa sta cantando; poi dice che lei gli ricorda la giovane e bella Proserpina, che fu rapita da Plutone e portata via dalla madre, evento in seguito al quale Cerere privò la Terra della primavera (la bella stagione tornò poi sei mesi l'anno per intercessione di Giove il quale, per salvare il pianeta dall'eterno inverno, dispose che Proserpina trascorresse sei mesi col marito Plutone e sei con la madre). Matelda ascolta la preghiera di Dante e la esaudisce avvicinandosi verso di lui quasi ballando, facendo passi piccoli e senza mai alzare i piedi da terra, sembrando una vergine che abbassa gli occhi per pudore, fino ad arrivare così vicino da fargli comprendere il proprio canto ("Come si volge, con le piante strette / a terra e intra sé, donna che balli, / e piede innanzi piede a pena mette, / volsesi in su i vermigli e in su i gialli / fioretti verso me, non altrimenti / che vergine che li occhi onesti avvalli, / e fece i prieghi miei esser contenti, / sì appressando sé, che 'l dolce suono / veniva a me co' suoi intendimenti"). Arrivata dove le acque del fiume bagnano l'erba, la donna alza gli occhi verso Dante il quale, vedendoli, ipotizza che tanto non splendevano d'amore quelli di Venere quando si innamorò di Adone per colpa di un errore del figlio Cupido (la frase "fuor di tutto suo costume" si riferisce alla passione insolita che si impossessò della dea). La donna ride sull'altra riva e nelle mani tiene fiori di tanti colori, i quali nel Paradiso terrestre nascono senza bisogno di essere seminati. Il fiume li separa di soli tre passi, eppure Dante lo odia più di quanto Leandro odiava l'Ellesponto che lo separava dall'amata Ero, perché non lo lascia libero di avvicinarsi alla donna. 
Terminata la scena dell'avvicinamento di Dante e Matelda, adesso separati solo dal piccolo fiume, tra i due inizia un dialogo. Comincia a parlare lei, rivolgendosi non solo a Dante, ma anche a Stazio e Virgilio. Dice loro che, essendo appena arrivati, ignorano le leggi del luogo e per questo sono meravigliati e dubbiosi, ma il salmo Delectasti può cancellare ogni loro dubbio; invita poi il poeta fiorentino, colui che sta davanti e l'ha pregata di avvicinarsi, a chiederle ciò che vuole, visto che lei è venuta a rispondergli quel tanto che basti. Dante non si fa pregare e subito manifesta una sua perplessità: Stazio gli aveva infatti detto che al di sopra della porta del Purgatorio non c'è nessun fenomeno atmosferico ad alterare la natura, eppure lui nella foresta sente il vento e vede l'acqua scorrere. Matelda dice che risponderà e eliminerà la nebbia che gli oscura la mente, poi con una lunga spiegazione chiarisce l'equivoco. Il sommo Bene, che non ha alcun fine al di fuori di sé stesso ("che solo esso a sé piace"), creò l'uomo buono e disposto al bene, dandogli poi questo giardino come anticipo della pace eterna. A causa del peccato, l'uomo dimorò poco nel Paradiso terrestre e cambiò il riso e il dolce gioco in pianto e affanno. Perché i perturbamenti dell'atmosfera prodotti sotto al monte dalle esalazioni dell'acqua e della terra, che cercano di andare verso il calore, non creassero problemi agli esseri umani, Dio alzò il monte del Purgatorio così in alto da renderlo immune agli agenti atmosferici sin dalla porta del Purgatorio. Siccome tutta l'aria si muove in cerchio a causa del moto del Primo Mobile, a meno che non vi sia un ostacolo a fermarla, nel Paradiso terrestre, che è immerso nell'aria pura (totale assenza di ostacoli), questo movimento causa il vento che scuote le fronde e tale scuotimento permette alle piante di liberare nell'aria i loro semi, che si spargono per tutta la Terra e in ogni zona germinano quelle specie che trovano caratteristiche del suolo e dell'ambiente adatte alle proprie esigenze (per questo non ci si deve meravigliare quando, nel mondo dei vivi, si vede una pianta nascere senza che nessuno l'abbia seminata). Matelda spiega poi che nel giardino c'è ogni tipo di seme e frutto, anche varietà che tra i vivi non sono note. Per quanto riguarda il fiume, non nasce da una sorgente di acqua che può mutarsi in vapore o in ghiaccio, come un normale fiume che a causa dei mutamenti di stato delle acque può acquistare o perdere impeto; esso nasce da una sorgente immutabile (salda) e inesauribile (certa) e dipende dal volere divino: riacquista tanta acqua quanta ne versa nei due fiumi in cui si divide. Dalla parte in cui sono loro l'acqua discende con il potere di togliere a chi la beve il ricordo dei peccati commessi in vita, dall'altra parte scende un altro fiume che fissa per l'eternità i ricordi delle buone azioni compiute. Il fiume presso cui sono loro è il Letè, quello dall'altro lato è l'Eunoè e non funziona se prima non si sono bevute le acque del Letè, è perciò necessario prima dimenticarsi dei peccati commessi per poter poi ricordare il bene fatto. Essendo acque che permettono all'uomo di ristabilire l'ordine turbato e riavvicinarsi a Dio, esse hanno un sapore che non ha eguali. Circa le radici dei nomi dei fiumi, il Lete nella mitologia greca era il fiume della dimenticanza posto nell'oltretomba, invece il nome Eunoè è un'invenzione di Dante e può essere tradotto come "buona mente".
Dopo aver spiegato a Dante l'origine del vento e dei fiumi nel Paradiso terrestre, Matelda gli fa la grazia di aggiungere un'altra informazione che non gli aveva promesso, ma che è sicura lui gradirà. Gli dice che i poeti che scrissero dell'età dell'oro sul monte Parnaso forse immaginarono questo luogo, il Paradiso terrestre; aggiunge poi che in questo posto vissero i progenitori di tutti gli umani, Adamo ed Eva, è sempre primavera e nasce ogni frutto, inoltre l'acqua è come il nettare degli dèi. Dante si volta verso Virgilio e Stazio, i quali accolgono con un sorriso compiaciuto l'ultima rivelazione di Matelda, la quale ha confermato come per effetto della grazia divina loro, che il mito del Paradiso terrestre non l'avevano conosciuto perché non avevano potuto leggere la Bibbia, avevano intravisto quel segno della bontà divina. Il canto si conclude col poeta che volge di nuovo lo sguardo verso la donna.

Francesco Abate     

sabato 4 maggio 2019

COMMENTO AL CANTO XXVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Sì come quando i primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l'alta Libra,
e l'onde in Gange da nona riarse,
sì stava il sole: onde 'l giorno sen giva,
come l'angel di Dio lieto ci apparse.
Il canto XXVII del Purgatorio si apre con una descrizione poetica che permette di determinare l'esatto momento del giorno indicando la posizione esatta del sole in tre diverse parti della Terra: Gerusalemme, la Spagna e l'India. Gerusalemme è indicata come "là dove il suo fattor lo sangue sparse", con chiaro riferimento al sacrificio di Gesù il quale, essendo parte della Trinità, è assimilabile al Creatore (quindi il "fattore"). E' quell'ora in cui il sole a Gerusalemme sta sorgendo ("i primi raggi vibra"), in Spagna (rievocata facendo riferimento al fiume Ibero, cioè l'Ebro) il cielo invece è dominato dalla costellazione della Bilancia, mentre in India (sul Gange) è mezzogiorno. In quel preciso momento compare l'angelo di Dio, il quale sta fuori dalla fiamma, sull'orlo estremo della cornice, e canta "Beati mundo corde!" ("Beati i puri di cuore"), facendo riferimento alla beatitudine che ritroviamo nel Vangelo di Matteo e che per intera recita così: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". L'angelo spiega ai poeti che non è possibile procedere oltre senza aver prima attraversato il fuoco, li invita perciò a entrare e a seguire le indicazioni dell'angelo che troveranno dall'altra parte. Sentito l'invito, Dante si spaventa e diventa pallido come un cadavere ("per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi, / qual è colui che ne la fossa è messo"); resta a contemplare le fiamme tenendo le mani giunte e nella mente rivede le immagini di corpi arsi vivi visti nel corso della sua vita. Virgilio e Stazio captano la sua esitazione e si voltano verso di lui. La guida gli parla e gli ricorda che in quel luogo può esserci la sofferenza, ma non la morte; gli ricorda poi che l'ha guidato indenne sopra il mostro Gerione, il gigante di cui si servirono all'Inferno (canto XVII) per scendere dal cerchio dei violenti a quello dei frodatori, quindi è impossibile che lo lasci perire adesso che è così vicino al Paradiso ("Ricorditi, ricorditi! E se io / sovresso Gerion ti guidai salvo, / che farò ora presso più a Dio?"), e lo rassicura dicendogli che non subirebbe alcun danno in quelle fiamme nemmeno se ci stesse mille anni ("Credi per certo che se dentro a l'alvo / di questa fiamma stessi ben mille anni, / non ti potrebbe far d'un capel calvo"). Nonostante la sua esortazione, Virgilio legge in Dante ancora un'esitazione, per questo lo esorta a fare una prova, cioè prendere un lembo della sua veste e accostarlo alla fiamma, poi lo incita ancora una volta ad abbandonare ogni timore ed entrare sicuro tra le fiamme. Nonostante le rassicurazioni del maestro, il poeta rimane fermo, incapace di vincere la paura, allora Virgilio cambia tattica e gli spiega che quel fuoco è l'ultimo ostacolo che lo separa da Beatrice. Come previsto, Dante non rimane indifferente al nome dell'amata e ci spiega la sua reazione emotiva richiamando il mito di Piramo e Tisbe. Secondo le Metamorfosi di Ovidio, Piramo e Tisbe erano due amanti babilonesi. Essendo il loro amore osteggiato, si diedero un appuntamento segreto sotto un gelso, presso la tomba di Nino. Arrivò prima Tisbe, la quale però fuggì alla vista di una leonessa, perdendo un velo che l'animale macchiò di sangue; quando Piramo arrivò sul luogo dell'appuntamento e vide il velo sporco di sangue, credette morta l'amata e si ferì mortalmente. Tisbe tornò sotto al gelso e Piramo, sentendola, riaprì gli occhi; si guardarono per un istante, poi insieme morirono, e i frutti del gelso da bianchi divennero rossi per via del sangue versato dallo sfortunato amante. Al solo sentire il nome di Beatrice, la paura di Dante si attenua e lui si volge verso il maestro, così come Piramo morente aprì gli occhi quando sentì sopraggiungere l'amata Tisbe ("Come al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla, / allor che 'l gelso diventò vermiglio; / così, la mia durezza fatta solla, / mi volsi al savio duca, udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla"). Vedendo finalmente deciso il suo allievo, Virgilio abbassa la voce e scherza, poi sorride come la madre che sente di aver convinto il figlio a fare qualcosa con la promessa di un dono. 
Virgilio entra per primo nel fuoco, poi prega Stazio di procedere dietro Dante, mentre fino a quel momento era stato tra loro. Il momento è delicato e la guida avverte la necessità di avere l'allievo vicino. Le fiamme sono così ardenti da far apparire rinfrescante anche il vetro bollente ("Sì com' fui dentro, in un bogliente vetro / gittato mi sarei per rinfrescarmi, / tant' era ivi lo 'ncendio sanza metro"). Virgilio parla di Beatrice per alleviare la pena di Dante e dice che gli sembra già di vedere i suoi occhi. Per muoversi tra le fiamme seguono una voce che canta, così riescono a uscirne e si trovano ai piedi della scala che conduce al Paradiso terrestre. Una voce, emessa da una luce così forte da non poter essere guardata, la voce dell'angelo, invita i poeti ad accedere al Paradiso usando le stesse parole che userà Gesù il giorno del giudizio universale: "Venite, benedicti Patris mei" ("Venite, benedetti dal Padre mio"). L'angelo ricorda poi alle anime che sta per arrivare la notte, momento in cui non è possibile procedere nel Purgatorio, li incita però a non fermarsi e li esorta a sfruttare il poco tempo rimasto per studiare il cammino da fare. La scala sale dritta verso levante, il poeta sale e proietta l'ombra davanti a sé, facendo col suo corpo schermo ai raggi del sole che è già basso sull'orizzonte. Salgono pochi gradini, poi si accorgono che l'ombra non c'è più, segno che il sole è tramontato del tutto. I poeti, prima che il cielo sia completamente oscurato, fanno ciascuno di un gradino un letto, perché la natura del Purgatorio li priva delle energie e della voglia di salire. L'autore descrive poi due scene pastorali per introdurre una metafora che decori l'immagine dei tre pellegrini in sosta sulle scale: la prima è un'immagine diurna in cui le capre, dopo esser state ribelli e agitate durante il giorno, avendo la pancia piena, ruminano mansuete all'ombra, mentre il pastore vigila su di loro poggiato al bastone; la seconda è invece un'immagine notturna in cui il pastore, in un luogo aperto, vigila sul gregge affinché i lupi non lo disperdano. Descritte le immagini, l'autore paragona sé stesso alla capra e le due guide ai pastori, distesi sui gradini e protetti ai due lati dalle pareti della montagna ("Quali si stanno ruminando manse / le capre, state rapide e proterve / sovra le cime avante che sien pranse, / tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve, / guardate dal pastor, che 'n su la verga / poggiato s'è e lor poggiato serve; / e quale il mandrian che fori alberga, / lungo il pecuglio suo queto pernotta, / guardando perché fiera non lo sperga; / tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori, / fasciati quinci e quindi d'alta grotta"). Tra quelle pareti si vede poco dell'ambiente esterno, ma le poche stelle che vede sembrano a Dante più grandi e splendenti; mentre riflette e guarda il cielo, lo prende quel sonno che spesso annuncia gli avvenimenti prima che accadano.
Nell'ora in cui Venere, che sembra sempre ardere del fuoco d'amore, appare a oriente (l'autore scrive credo, infatti stava dormendo e non poteva vederla, ma lo deduce perché è l'ora dei sogni premonitori), sogna una donna giovane e bella che cammina in aperta campagna e raccoglie fiori, le sente cantare che si chiama Lia e che si sta facendo una ghirlanda, mentre sua sorella Rachele passa tutto il giorno seduta a guardarsi allo specchio: Rachele è appagata dal contemplare la propria bellezza, Lia invece dall'operare per abbellirsi. L'allegoria del sogno è piuttosto evidente: Lia rappresenta la vita attiva, invece Rachele la vita contemplativa; inoltre questo sogno prefigura l'apparizione nel Paradiso terrestre di Matelda e Beatrice. La scelta per l'allegoria di Lia e Rachele, due personaggi della Genesi, è dovuta probabilmente a una caratteristica della loro storia che si presta all'accostamento con la vicenda di Dante narrata nella Commedia. Secondo la Genesi, Giacobbe era innamorato di Rachele e, d'accordo con il padre di lei, Làbano, lavorò sette anni per averla, ma fu ingannato e gli fu data in sposa la sorella Lia; scoperto l'inganno, dovette lavorare altri sette anni per avere anche Rachele. Giacobbe passò sette anni per avere Lia e altri sette per Rachele, così come Dante nella Commedia passa per sette purificazioni e beatitudini: la ricorrenza del sette nella storia biblica di Rachele e Lia probabilmente ha spinto Dante a usarle per questa allegoria.
Il cielo inizia a essere rischiarato dall'aurora, che l'autore chiama splendori antelucani (ante lucem, da qui deriva antelucani). La luce dell'aurora risulta tanto più gradita al pellegrino quanto più è vicino alla meta, le tenebre spariscono così come il sonno di Dante, che si alza e vede già in piedi Virgilio e Stazio. Il poeta mantovano dice all'allievo che l'albero della felicità oggi sazierà la sua fame e l'autore scrive che nessun buon augurio ha mai dato tanto piacere quanto quelle parole. Tanta è la voglia di giungere alla sommità della scala, che a ogni gradino salito Dante sente la sensazione di volare; la voglia di vedere Beatrice, la consapevolezza dell'imminenza di tale incontro e l'augurio di Virgilio hanno acuito la voglia di giungere a destinazione del poeta. Arrivati alla sommità della scala, Virgilio guarda intensamente negli occhi il suo allievo e gli fa un breve discorso: gli ricorda che ha visto il fuoco eterno (l'Inferno) e quello provvisorio (il Purgatorio), adesso è giunto in un luogo dove lui, la sua guida, non può più vedere e comprendere (la sola ragione non basta a comprendere le cose divine); gli spiega che lo ha portato fin lì con il suo intelletto (ingegno) e la sua esperienza pratica (arte), adesso lo incita a farsi guidare dal proprio piacere ("lo tuo piacere omai prendi per duce"), ora è fuori dalle vie pericolose e strette del peccato. Fatto il discorso, Virgilio mostra a Dante la natura rigogliosa e lo invita ad addentrarsi in essa finché non incontrerà Beatrice, "li occhi belli che, lagrimando, a te venir mi fenno", gli dice infine di non aspettare più sue indicazioni e lo incorona sovrano di sé stesso ("Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno: / per ch'io te sovra te corono e mitrio").
Virgilio con quest'ultimo discorso si congeda da Dante e dall'opera. Egli rappresenta la ragione la quale, come già detto, non può comprendere il disegno divino. Grazie all'opera della ragione (arte e ingegno), Dante si è purificato e ha rivolto la sua volontà al bene, quindi nel Paradiso terrestre può affidarsi al suo piacere, che non è più corrotto dal peccato, e per la comprensione più profonda del Paradiso viene affidato alla teologia, Beatrice.

Francesco Abate