sabato 30 giugno 2018

COMMENTO AL CANTO XXXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

S'io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch' io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
sì che del fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Il canto XXXII si apre con un'introduzione che si compone di tre parti: nella prima il poeta ammette la propria inadeguatezza, pur accettando di continuare la propria opera; nella seconda si fa coraggio; nella terza apostrofa coloro che, peccando e finendo nel pozzo dei giganti, hanno reso necessaria l'impresa. Dante è consapevole di avere addosso una grande responsabilità morale, deve infatti descrivere il centro della Terra (che per il sistema tolemaico, allora accettato come vero, corrisponde al centro dell'universo) e uno dei punti cardine di tutta la scienza teologica dell'epoca. Si trova nel luogo più basso dell'Inferno, là dove è infisso Lucifero, il primo superbo che osò sfidare Dio e che è origine di ogni male. Se fino a ora il poeta ci ha descritto diverse tipologie di malvagità, qui si arriva al cospetto di quella suprema, sono puniti i peggiori peccati possibili all'uomo, cioè i vari tipi di tradimento, e si giunge al cospetto dell'origine del male. Dante inizia il primo dei tre canti ambientati nel Cocito (un altro dei fiumi infernali, questo però è ghiacciato) facendosi coraggio, prende atto di non essere in possesso di un linguaggio sufficientemente potente per descrivere il centro dell'universo, non è infatti impresa facile o adatta al linguaggio infantile ("ché non è impresa da pigliare a gabbo ... né da lingua che chiami mamma o babbo"). Nonostante si senta in qualche modo inadeguato, egli non si sottrae all'arduo impegno morale che ha preso nei confronti dei lettori e si accinge a descrivere ciò che vide nel Cocito. Per farsi coraggio, invoca le muse e lo fa citando l'episodio di Anfione che, secondo il mito, riuscì a costruire Tebe spostando i massi col solo suono della sua cetra, aiutato proprio dalle muse. L'introduzione si conclude poi con un'invettiva nei confronti dei dannati presenti nel fondo dell'Inferno, i peggiori peccatori vissuti sulla terra ("Oh sovra tutte mal creata plebe"), che giacciono nel luogo di cui è tanto difficile parlare e per i quali sarebbe stato meglio nascere pecore o capre. 
Dante e Virgilio sono nel Cocito, più in basso rispetto ai piedi del gigante Anteo perché il lago di ghiaccio declina verso il centro. Il poeta è ancora intento a osservare il muro opposto del pozzo quando sente qualcuno dirgli di guardare dove mette i piedi e non schiacciare le teste dei dannati ("Come noi fummo giù nel pozzo scuro / sotto i piè del gigante assai più bassi, / e io mirava ancora l'alto muro, / dicere udi'mi: << Guarda come passi: / va sì, che tu non calchi con le piante / le teste de' fratei miseri lassi >>"). Dante si guarda intorno e scopre di essere su un immenso fiume ghiacciato. Tanta è vasta la sua superficie da superare di gran lunga i grandi fiumi ghiacciati che ha visto sulla terra, come il Danubio in Austria e il Don (Tanai) in Russia. Tanto è grande che, qualora vi cadessero sugli argini (che sono i punti dove il ghiaccio è più sottile) due grosse montagne, il Pietrapana e il Tambura (chiamato anticamente Stamberlicche), non si creerebbero nemmeno delle piccole crepe. Immersi in questo fiume ghiacciato ci sono i dannati, dei quali emerge solo il viso ("insin là dove appar vergogna") e i cui denti, battendo, emettono un suono simile a quello fatto dalla cicogna quando batte il becco. L'autore paragona i dannati alle rane che emergono dallo stagno e il rumore dei loro denti a quello dei becchi di cicogna, torna così prepotentemente la loro disumanizzazione: le loro anime sono sfigurate dal peccato commesso in vita. Tutti i dannati hanno la faccia rivolta verso il basso, così coi denti testimoniano il freddo che provano e con gli occhi il dolore che gli strazia il cuore ("Ognuna in giù tenea volta la faccia; / da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo / tra lor testimonianza si procaccia").
Dopo essersi guardato intorno, Dante vede ai suoi piedi due visi così vicini da avere i capelli misti tra loro e gli chiede chi siano. I due, sentendosi chiamati, si sforzano di alzare il visto e volgere lo sguardo al pellegrino, solo che le loro lacrime gli colano lungo il viso e si ghiacciano, rinserrandogli gli occhi con maggiore efficacia di quanto una spranga rinserri due assi di legno. I due dannati reagiscono rabbiosamente cozzando le teste come fanno i becchi quando lottano. Un altro dannato, che a causa del gelo ha perduto entrambe le orecchie, prima chiede a Dante perché si soffermi a guardarli, poi gli rivela che i due che aveva interrogato sono i figli di Alberto degli Alberti, signori della valle di Bisenzio, che si uccisero tra loro per contendersi il feudo e spinti delle opposte idee politiche. Secondo il dannato, non c'è in tutta la Caina un'anima che meriti quella pena più di loro. Fa anche dei paragoni: non fu colpevole quanto loro Mordrec, figlio (o nipote) di re Artù, che lo tradì e da lui fu ucciso; non Vanni dei Cancellieri pistoiese, soprannominato Focaccia, che uccise un cugino di suo padre; non Sassol Mascheroni, che i toscani conoscono bene, il quale uccise il cugino che aveva in tutela per averne l'eredità (la storia fu molto nota in Toscana, per questo il dannato a Dante non la racconta: Sassol fu scoperto e confessò, fu poi chiuso in una botte e trascinato rotolandola per terra, infine fu decapitato). Il dannato conclude il proprio discorso presentandosi, si chiama Camicione dei Pazzi. Del suo peccato non parla, si limita a dire che attende la venuta di Carlino dei Pazzi il quale, macchiatosi di una colpa più grave, oscurerà la sua. Di Camicione dei Pazzi, vista la collocazione nell'Inferno, sappiamo che fu un traditore dei parenti, invece Carlino vendette ai guelfi Neri il castello in cui erano rifugiati i guelfi Bianchi cacciati da Firenze, fu quindi un traditore della patria e commise perciò un peccato ben più grave.
L'accenno alla figura di Carlino ci introduce alla seconda zona del Cocito, detta Antenora, dove sono puniti i traditori della patria e dell'idea politica. Dante vede un altro gruppo di dannati dal volto paonazzo (il poeta usa il termine "cagnazzi", sia per mantenere la disumanizzazione dei dannati, sia per rendere ancor più aspra la rima). Mentre cammina in mezzo a loro, forse per fortuna o forse per volere divino, urta col piede il viso di un dannato il quale, piangendo, gli chiede perché lo colpisca e crede che si stia vendicando per il tradimento di Montaperti. Quest'ultima affermazione suscita curiosità in Dante, il quale chiede a Virgilio di poter un momento fermarsi a chiarire un suo dubbio, promettendogli che poi potranno procedere più rapidamente. La guida lo autorizza e Dante chiede ancora al dannato che impreca chi sia e perché lancia accuse ad altri. Il dannato risponde con una domanda, gli chiede chi sia lui, che va prendendo a calci i volti dei dannati in un modo che, se lui fosse ancora vivo, non avrebbe accettato. Dante lo informa di essere vivo e, per invogliarlo a presentarsi, gli promette fama nel mondo dei vivi, questi però gli dice che vuole l'esatto contrario e lo invita in malo modo ad andar via. Il poeta a questo punto passa alle maniere forti, lo afferra per la pelle della nuca e minaccia di strappargli i capelli qualora non dovesse rispondere alle sua domande. Nonostante la minaccia subita, il dannato non cede e continua a serbare il proprio nome anche quando Dante inizia a strappargli i capelli. Sentendo le sue urla, un altro dannato si rivolge al torturato chiamandolo Bocca e gli chiede perché mai urli. Dante così capisce che si tratta di Bocca degli Abati, l'uomo che causò la sconfitta dei guelfi fiorentini a Montaperti col suo tradimento, e che fu quindi anche responsabile delle tribolazioni patite da Dante. Sentito il nome, il poeta dichiara a Bocca che porterà tra i vivi la notizia della sua dannazione, in pratica abbandona la tortura fisica per tormentarlo con quella morale ("<< Ormai >>, diss' io, << non vo' che più favelle, / malvagio traditor; ch'a la tua onta / io porterò di te vere novelle. >>"). Bocca a questo punto cerca di lenire la sua pena causandone una uguale al dannato che l'ha tradito, quindi chiede a Dante di portare notizia anche di Buoso di Duera, che vendette l'esercito ghibellino a Carlo I d'Angiò. Cita poi altri che sono lì presenti: Tesauro dei Beccaria, legato pontificio in Toscana, decapitato per tradimento; Gianni dei Soldanieri, ghibellino fiorentino che fece entrare in città i guelfi bianchi; Gano di Maganza (Ganellone), che tradì Carlo Magno e causò la disfatta di Roncisvalle secondo la Chanson de Roland; Tebaldello dei Zambrasi, che consegnò Faenza di notte ai guelfi bolognesi.
Ignorando le chiacchiere di Bocca, Dante e Virgilio proseguono il cammino e si imbattono in uno spettacolo agghiacciante. Ci sono due dannati posti uno davanti all'altro e quello dietro morde la nuca del compagno, strappandogli le carni. Il poeta cita l'episodio di Tideo, uno dei sette re che assediarono Tebe, il quale per rabbia morse il capo dell'avversario morente Menalippo. Dante invita il dannato che morde a spiegare perché ce l'abbia tanto con l'altro, così potrà portare la loro storia nel mondo dei vivi. Il poeta ipotizza che questa vendetta eterna sia stata voluta dall'alto, visto che i due sono infissi nella stessa buca, e arriva addirittura a ipotizzare che il peccatore sia solo quello che viene morso ("O tu che mostri per sì bestial segno / odio sovra colui che tu ti mangi, / dimmi 'l perché >>, diss' io, << per tal convegno, / che se tu a ragion di lui ti piangi, / sappiendo chi voi siete e la sua pecca, / nel mondo suso ancor io te ne cangi, / se quella con ch'io parlo non si secca. >>").

Francesco Abate

sabato 23 giugno 2018

COMMENTO AL CANTO XXXI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
così od' io che solea far la lancia
d'Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.
Il canto XXXI inizia agganciandosi al rimprovero mosso da Virgilio al suo protetto nei versi finali di quello precedente. Dante infatti constata come la stessa persona prima l'abbia rimproverato, poi l'abbia consolato. Il poeta richiama alla mente l'episodio mitologico della lancia di Achille, che l'eroe ricevette in eredità dal padre Peleo, la quale era in grado con un secondo colpo di rimarginare la ferita che essa stessa aveva causato. 
Dante e Virgilio danno le spalle alla bolgia e si incamminano verso la parete del pozzo di Malebolge senza dire neanche una parola. L'ambiente è poco illuminato, come se fosse il crepuscolo ("...era men che notte e men che giorno") e i pellegrini riescono a vedere poco al di là dei propri volti. Di colpo riecheggia il suono di un corno tanto forte che farebbe sembrare fioco qualsiasi tuono ("ma io senti' sonare un alto corno, / tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco"). Gli occhi del poeta si rivolgono nella direzione da cui proviene il suono. Il corno che Orlando suonò durante la disfatta di Roncisvalle non emise un suono terribile quanto quello udito da Dante. Poco tempo dopo aver voltato la testa, il poeta nota delle torri molto alte e crede siano l'ingresso di un'altra città fortificata come Dite, chiede perciò alla sua guida di quale città si tratti. Virgilio spiega che il lungo periodo passato nell'oscurità spinge adesso Dante e non comprendere nel modo giusto quello che vede, lo esorta perciò ad accelerare il passo perché quando sarà più vicino capirà di essere in errore. La guida però, immaginando l'impressione che susciterà nel suo discepolo la nuova visione, lo prende per mano e gli spiega che quelle non sono torri, ma giganti infilati nel pozzo dall'ombelico in giù ("Poi caramente mi prese per mano / e disse: << Pria che noi siam più avanti, / acciò che 'l fatto men ti paia strano, / sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa / da l'umbilico in giuso tutti quanti"). Così come quando la nebbia si dirada e la visibilità aumenta, man mano che si avvicina Dante riesce a distinguere i giganti e a capire il suo errore, provando sempre più paura di fronte a quella visione. Il poeta paragona ciò che vede alle torri che coronavano la fortezza senese di Montereggioni in Val d'Elsa. Come le torri coronavano le mura del castello, così i giganti ("cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona") svettano di mezza persona sul margine del pozzo. Il poeta è sollevato al pensiero che la natura non crei più creature tanto mostruose, togliendo al dio della guerra la possibilità di usarle per seminare distruzione ("Natura certo, quando lasciò l'arte / di sì fatti animali, assai fé bene / per tòrre tali essecutori a Marte"). Se la natura fa bene a continuare a generare elefanti e balene, si può soltanto lodarla perché non continua a creare mostri che alla forza fisica e alla malvagità possano unire l'intelletto ("E s'ella d'elefanti e di balene / non si pente, chi guarda sottilmente, / più giusta e più discreta la ne tene; / ché dove l'argomento de la mente / s'aggiugne al mal volere e a la possa, / nessun riparo vi può far la gente"). 
Dante passa alla descrizione del primo gigante. Per farci comprendere la sua grandezza, paragona come dimensioni la sua faccia alla grossa pigna di bronzo che un tempo stava nel mezzo dell'atrio dell'antica basilica di San Pietro (oggi è in Vaticano), ci dice poi che il busto esce di molto al di sopra del pozzo, tanto che non basterebbero tre uomini della Frisia (regione dell'attuale Germania i cui abitanti all'epoca erano noti per l'alta statura) a raggiungere i suoi capelli. Il poeta vede un'altezza di sette metri dal basso fino alla clavicola del gigante. Facendo una proporzione sulla base delle misure date da Dante, il gigante dovrebbe essere alto circa 25 metri. Comunque è molto probabile che non fosse nelle intenzioni dell'autore fornirci delle misure precise, egli semplicemente volle rendere coi suoi versi l'immensità del gigante e l'impressione che avrebbe potuto generare nell'animo di chi lo avesse visto. Il mostro inizia a gridare << Raphèl maì amècche zabì almi >> e subito Virgilio gli risponde duramente, apostrofandolo come "anima sciocca", esortandolo a divertirsi suonando il corno quando intenzionato a sfogare l'ira o le altre passioni. Terminato il rimprovero al gigante, la guida spiega a Dante che si tratta di Nembrot, l'uomo che col suo peccato ha determinato la presenza di tante lingue diverse nel mondo, e lo invita a non perdere tempo con lui, infatti loro non possono capire ciò che dice e lui non può capire nessuno. Il gigante in questione è il personaggio biblico di Nimrodh, fondatore dell'impero di Babilonia, spinto dalla superbia a costruire la Torre di Babele, scatenò l'ira di Dio che confuse il linguaggio degli uomini. Le prime parole con cui Virgilio spiega a Dante chi egli sia sono "Elli stessi s'accusa", infatti la frase che il gigante pronuncia non appena li vede è un insieme di parole che messe così insieme non hanno un senso compiuto. Nembrot è punito da Dio con l'impossibilità di capire e farsi capire. La presenza del corno è un richiamo alla fama di cacciatore del personaggio biblico.
Dante e Virgilio proseguono il loro giro lungo il bordo del pozzo, imbattendosi in un altro gigante addirittura più grande di Nembrot. Questo gigante è cinto da catene, il braccio sinistro gli è legato al petto mentre il destro alla schiena, tutta la parte del corpo che emerge dal pozzo è legata da cinque giri di catena. Virgilio spiega che si tratta di Fialte, il quale usò la sua forza contro Giove quando i giganti si ribellarono agli dèi, così le braccia che avevano sovrapposto il monte Ossa al Pelio per permettere la scalata verso il padre degli dèi adesso sono immobilizzate dalle catene. Dante chiede alla guida di poter vedere Briareo, un altro gigante mitologico che si ribellò contro gli dèi, Virgilio gli spiega però che questi è più lontano, mentre il prossimo che vedrà è Anteo, il quale può essere compreso e non è legato, può quindi deporre i viaggiatori sul fondo del pozzo. Anteo non è legato perché nacque dopo la ribellione dei giganti, quindi non vi partecipò. Di colpo Fialte si scuote con una violenza mai vista nemmeno in un terremoto che scuote una torre. Il poeta teme più che mai la morte, ma si tranquillizza quando vede le catene che trattengono il gigante ("Non fu tremoto già tanto rubesto, / che scotesse una torre così forte, / come Fialte a scuotersi fu presto. / Allor temett' io più che mai la morte, / e non v'era mestier più che la dotta, / s'io non avessi viste le ritorte").
I poeti proseguono e arrivano presso Anteo, il cui corpo esce dal pozzo di ben sette metri e mezzo. Dante l'altezza la esprime in alle, un'unità di misura usata allora in Fiandra e in Inghilterra. Virgilio si rivolge al gigante, con lui non usa il disprezzo riservato prima a Nembrot. Ecco il discorso completo:
"<< O tu che la fortunata valle
che fece Scipion di gloria reda,
quand' Anibàl co' suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l'alta guerra
de' tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch'avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china, e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama,
ch'el vive, e lunga vita ancora aspetta
se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama >>"
Il discorso inizia con una lusinga, col poeta mantovano che fa leva sulla fama di uccisore di leoni di Anteo, ricordandogli il numero indefinito di leoni che uccise nella piana di Zama, dove Scipione sconfisse Annibale. Virgilio poi arriva a dire che, ci fosse stato Anteo, i giganti avrebbero vinto la guerra contro gli dèi. Dopo averlo lusingato, gli chiede di metter giù nel pozzo, dove il gelo ghiaccia lo stagno di Cocito, sia lui che Dante. Perché la sua preghiera sia più efficace, rivela ad Anteo che Dante è vivo e può dargli l'unica cosa che ancora si desidera all'Inferno, cioè la fama tra i vivi. Lo esorta quindi a depositarli sul fondo del pozzo e a non ignorarlo solo per la rabbia della cattiva sorte capitata ai giganti Tizio e Tifo, entrambi uccisi dagli dèi. Sentite le parole di Virgilio, Anteo stende la mano, la cui morsa fu già provata da Ercole (che fu l'assassino del gigante) e lo prende. Non appena si sente preso, il poeta mantovano dice a Dante di avvicinarsi e lo stringe a sé. Vedendo Anteo chinarsi verso di lui, il poeta ricorda un effetto ottico sperimentato al di sotto della Torre di Garisenda a Bologna: mettendosi dal lato della pendenza e guardando in altro, sembra che la torre cada verso le nuvole e non che queste si muovano nel cielo. La visione del gigante in movimento spaventa il poeta, che vorrebbe andar per un'altra strada. Anteo però lievemente posa i due pellegrini sul fondo del pozzo, poi si erge nuovamente come l'albero di una nave ("Qual pare a riguardar la Carisenda / sotto 'l chinato, quando un nuvol vada / sovr' essa sì, che ella incontro penda: / tal parve Anteo a me che stava a bada / di vederlo chinare, e fu tal ora / ch'i' avrei voluto ir per altra strada. / Ma lievemente al fondo che divora / Lucifero con giuda, ci sposò; / né, sì chinato, li fece dimora, / e come albero in nave si levò").

Francesco Abate      

domenica 10 giugno 2018

COMMENTO AL CANTO XXX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra 'l sangue tebano,
come mostrò una e altra fiata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,
gridò: << Tendiam le reti, sì ch'io pigli
la leonessa e ' leoncini al varco >>;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo l'un ch'avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annegò con l'altro carco.
E quando la fortuna volse in basso
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
sì che 'nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.
Il canto XXX inizia con l'evocazione di due favole ovidiane, quella di Atamante e quella di Ecuba. La prima narra di Atamante che, impazzito, scambiò sua moglie Ino e i suoi figli, Learco e Melicerta, per una leonessa con i leoncini, decidendo di tendergli un agguato per cacciarli. Il re riuscì a prendere Learco e lo uccise scagliandolo contro un sasso. Ino, disperata, si gettò in mare con l'altro figlio. La pazzia di Atamante fu causata da Giunone, la quale nutriva rancore nei confronti dei Tebani a causa dell'amore del marito Zeus per Semele. La seconda favola racconta della regina di Troia, Ecuba, che dopo la caduta della città venne portata via come schiava. Sulle rive della Tracia vide i cadaveri dei suoi figli, Polissena e Polidoro, e tanto fu il dolore provato che il suo pianto divenne uguale al latrato di un cane. Le due favole citate da Dante mostrano lo scempio della famiglia, anche se nella seconda è notevolmente accentuato il dolore materno. 
Queste scene strazianti servono a introdurre lo spettacolo che Dante vede nella bolgia in cui si trova, la decima. L'autore ci dice che né nelle furie tebane né in quelle troiane si vide tanto crudele furore come quello che lui vede nelle azioni di due dannati che ha davanti agli occhi. Questi corrono come maiali fuggiti via dal porcile lasciato aperto. Uno di loro azzanna alla nuca Capocchio e lo trascina sul terreno duro della bolgia. Griffolino d'Arezzo, tremando, spiega a Dante che l'aggressore, che chiama "folletto", indicandolo come uno spirito maligno, è Gianni Schicchi, il quale va per la bolgia azzannando i dannati che gli capitano a tiro ("E l'Aretin che rimase, tremando / mi disse: << Quel folletto è Gianni Schicchi, / e va rabbioso altrui così conciando >>"). Secondo le cronache dell'epoca, Gianni Schicchi si finse il defunto Buoso Donati, la cui morte il figlio Simone aveva nascosto, per redigere a suo nome un testamento con cui si accaparrò buona parte delle sue ricchezze, lasciando il resto a Simone, che aveva chiesto il suo aiuto. Dante chiede a Griffolino, dopo avergli augurato di non essere azzannato a sua volta, chi sia il secondo folletto. Griffolino spiega che è Mirra, colei che per vendetta di Venere si innamorò del padre Cinira, re di Cipro, e sotto mentite spoglie lo sedusse. Le figure di Schicchi e Mirra ci rivelano che siamo in presenza di un altro tipo di falsari. Nello scorso canto Dante, appena arrivato nella bolgia, aveva trovato i falsificatori di metalli. In questa schiera, sempre nella decima bolgia, ci sono invece i falsificatori di persone, cioè coloro che in vita si fecero passare per qualcun altro.
Una volta che sono passati Schicchi e Mirra, Dante volge l'occhio agli altri dannati. Ne vede uno dalle sembianze che rassomigliano al liuto, infatti ha il ventre gonfio e il viso esile. La somiglianza tra il corpo e lo strumento sarebbe più marcata se questo non avesse le gambe. A causa della grave idropisia (presenza di liquido nelle cavità sierose) il corpo è deforme e le labbra sono sempre aperte, la malattia infatti provoca l'arsura. Il dannato si rivolge a Dante e Virgilio, con tono pietoso chiede loro, che girano per la bolgia senza patire pena alcuna, di osservare e ascoltare la sua. Si presenta come maestro Adamo. Dice che da vivo ebbe quasi tutto quello che desiderava, adesso invece brama un goccio d'acqua. A perseguitare maestro Adamo ci sono anche i ricordi, la sua memoria infatti rievoca sempre i ruscelli dei colli del Casentino e il fiume Arno, aumentando in lui il bisogno d'acqua. Spiega poi che la rigida giustizia che lo condanna gli manda quelle immagini a tormentarlo perché rievocano i luoghi in cui commise il suo peccato. Fu ospite a Romena, nel castello dei conti Guidi, dove falsificò fiorini di Firenze ("la lega suggellata del Batista" perché i fiorini su una faccia recavano l'immagine di san Giovanni Battista) e per questo fu arso vivo. Maestro Adamo dice poi che se vedesse nella bolgia le anime di Guido, di Alessandro o dei loro fratelli, darebbe qualsiasi cosa per poterli avvicinare. Se le anime non mentono, ha sentito che uno di loro (Guido, morto nel 1292) è già lì. Vorrebbe trovarlo, ma lo stato del suo corpo glielo impedisce. Ce l'ha con loro perché lo indussero a compiere il peccato che sta scontando lì, facendogli battere i fiorini falsi. Secondo le cronache dell'epoca, egli fu infatti accolto come artista nel castello, poi i signori, bisognosi di denaro, lo convinsero a falsificare le monete.
Dante vede poco lontano due anime che sono preda di una febbre così alta da far evaporare il sudore dal loro corpo, somigliando così alle mani che in inverno si vedono fumare a causa del freddo. Chiede a maestro Adamo chi siano, lui risponde che erano già lì quando piovve nella bolgia e non si sono mai mossi, inoltre crede che mai si muoveranno. Una è la moglie di Putifarre, la quale secondo la Genesi accusò ingiustamente Giuseppe di averle fatto violenza; l'altro è Sinone, colui che convinse i Troiani a portare il cavallo dentro le mura. Sono quindi due bugiardi, puniti con la febbre eterna.  A causa della febbre altissima emanano un cattivo odore di unto. Evidente è il disprezzo con cui maestro Adamo guarda i due bugiardi, pur essendo anch'egli un peccatore ("<< Qui li trovai - e poi volta non dierno - >>, / rispuose, << quando piovvi in questo greppo, / e non credo che dieno in sempiterno. / L'una è la falsa ch'accusò Gioseppo; / l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia: / per febbre aguta gittan tanto leppo >>."). Uno dei due bugiardi, sentendo le dure parole di Adamo, lo colpisce con un pugno sul ventre reso duro dalla malattia, che suona come un tamburo. Adamo lo colpisce al volto con una gomitata e gli dice che il suo braccio non ha perso la forza di un tempo, è quindi capace di rispondere ai colpi subiti. Dai colpi si passa a un grottesco battibecco, dove i due si rinfacciano i rispettivi peccati, ognuno convinto che sia più grave quello altrui. Sinone lo prende in giro dicendogli che non ebbe il braccio tanto pronto quando fu mandato al rogo, ma lo ebbe quando coniò le monete false. L'idropico gli rinfaccia la menzogna detta a re Priamo quando gli chiese la verità sul cavallo donato dai greci. Sinone ribatte che mentì una sola volta, mentre Adamo disse una menzogna per ogni moneta falsa coniata. Il falsario risponde che Sinone fu anche spergiuro e non può negarlo, visto che l'opera omerica e quella virgiliana hanno raccontato le sue gesta al mondo intero. A questo punto Sinone rinfaccia al maestro Adamo la pena, la lingua screpolata dalla sete e il ventre gonfio di acqua marcia. Adamo gli dice che ancora una volta la sua bocca si è aperta per il suo stesso male, infatti la febbre che consuma Sinone gli farebbe accettare dell'acqua senza troppi complimenti, in pratica non ha meno sete del suo nemico. 
Dante è preso dall'ascolto della tenzone, quando Virgilio interviene e lo riprende con ira. Sentendolo arrabbiato, il poeta si volta con vergogna verso di lui. Si sente come chi sogna di subire qualcosa di brutto e desidera che sia solo un sogno, che non sia reale ciò che gli sta accadendo. Vorrebbe scusarsi, ma non ci riesce. Virgilio comprende il suo stato d'animo e lo rincuora, gli spiega che giudica il suo peccato più grave di quel che effettivamente è stato, gli raccomanda poi di non fermarsi più a seguire litigi di così basso livello, accesi dalla bestialità e privi di ragione, perché seguendoli dimostra di voler seguire l'istinto e non la ragione ("<< Maggior difetto men vergogna lava >>, / disse 'l maestro, << che 'l tuo non è stato; / però d'ogne trestizia ti disgrava. / E fa ragion ch'io ti sia sempre allato, / se più avvien che fortuna t'accoglia / dove sien genti in simigliante piato: / ché voler ciò udire è bassa voglia. >>").

Francesco Abate   

sabato 9 giugno 2018

RECENSIONE DE "IL RITRATTO DI DORIAN GRAY" DI OSCAR WILDE

Simbolo della crisi di valori che travolse l'Europa nella seconda metà dell'Ottocento, e che in genere riaffiora periodicamente, Il Ritratto di Dorian Gray ci mostra l'esistenza umana totalmente votata al piacere e liberata di qualsiasi legge morale. Si può considerare allo stesso tempo un manifesto e una guida all'Edonismo, non si limita infatti solo a teorizzarlo e a mostrarne i lati buoni, ma evidenzia anche gli effetti negativi che possono sorgere quando si perde di vista completamente la propria anima.
Il romanzo inizia con il pittore Basil Hallward che confida all'amico, Lord Henry Wotton, di avere un nuovo amico che sta posando per lui, Dorian Gray. Basil magnifica la bellezza di Dorian al punto di incuriosire Lord Henry, che decide di conoscerlo. Dorian è bellissimo e viene ammaliato dai discorsi cinici di Lord Henry, mentre Basil dipinge un suo ritratto che tutti riconoscono come magnifico. Colpito dai discorsi sul valore della giovinezza, Dorian desidera che sia il ritratto a invecchiare al posto suo. Il desiderio si avvera, donando al ragazzo una giovinezza e una bellezza eterne, che lui usa per dedicarsi a una vita piena di piaceri estremi e priva di qualsiasi regola morale. Alla fine Dorian scopre però che il dipinto non segna su sé stesso solo lo scorrere del tempo, ma tutto il peso dei peccati si rivela alla sua vista ogni volta che lo osserva.

Per comprendere il romanzo, è necessario analizzare i personaggi principali che lo compongono.
Il pittore Basil Hallward, il primo a conoscere Dorian nel romanzo, è un fanatico cultore della bellezza, che considera come valore assoluto e specchio dell'anima delle persone. Per lui una persona bella come Dorian non può essere malvagia, inoltre alla bellezza dedica tutta la propria arte. Il suo culto gli costa però caro, infatti prima vede sfiorire la sua arte, poi viene ucciso dal bellissimo Dorian, la cui malvagità non vuole riconoscere.
Lord Henry Wotton è lo specchio fedele della nobiltà decadente e annoiata, che cerca il piacere e contesta gli ordini morali. Si diverte anche ad analizzare la realtà in ogni aspetto, ma lo fa cercando sempre di destare scandalo negli ascoltatori ed esaltando le contraddizioni che sono in ogni cosa. Nonostante il suo modo di fare, non cede mai a un'estrema dissolutezza, riesce infatti a mantenere intatta la propria posizione nella società e a non destare grossi scandali, a differenza di quanto fa Dorian.
Dorian Gray è l'esatta sintesi di Basil e Lord Henry. Conosce entrambi che è adolescente e finisce per essere condizionato dai loro modi di pensare. Egli come Basil cerca la bellezza e la considera come un valore fondamentale, inoltre imita Lord Henry nel suo tentativo di fare della propria vita un'opera d'arte, nel dedicarsi anima e corpo al piacere. Lui è l'eccesso di Edonismo, dimentica infatti di essere umano e non esita a rovinare sé stesso e gli altri in nome della ricerca esasperata del piacere. L'anima però non può essere ignorata, guardando il dipinto egli vede quanto si sia imbruttito, si rende conto di essere un mostro.

A un certo punto del romanzo, Dorian ragiona sulla sua volontà di creare un nuovo Edonismo. Così come già gli aveva detto Lord Henry, il cui parere tiene sempre in gran considerazione, egli cerca di vivere una vita priva sia di rinunce che di una volgare dissolutezza. Il suo scopo dev'essere vivere le esperienze, trascurando poi i frutti (buoni o cattivi) che generano.
Nelle righe in cui descrive questa riflessione, Wilde scrive una sorta di manifesto del nuovo Edonismo. Attraverso poi il seguito della vicenda di Dorian, ci mostra il pericolo dell'esagerazione, cioè della dissolutezza estrema e volgare. La ricerca del piacere e la sperimentazione di cose nuove non deve mai portare alla perdita dell'anima, bisogna ricordare sempre di essere umani.
La strada non è semplice come si potrebbe pensare, questo vuole insegnarci Wilde. Lord Henry forse riesce meglio di Dorian a vivere questo nuovo Edonismo, perché si toglie i suoi sfizi pur senza rovinarsi del tutto.

Il Ritratto di Dorian Gray è un romanzo che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita. Ne consiglio inoltre caldamente la lettura ai giovani d'oggi. Anche nella nostra epoca è infatti forte la crisi di valori, con la sostituzione di una morale nuova a quella dei nostri genitori. I tempi inoltre corrono sempre più veloci, quindi tali crisi saranno sempre più rapide e per questo più difficili e dolorose. Il romanzo di Wilde può insegnarci che la vita va vissuta, vanno assaporati i momenti anche trascurando a volte le conseguenze, ma non bisogna mai perdersi nei vicoli del piacere e non bisogna mai dimenticare di restare umani.

Francesco Abate

sabato 2 giugno 2018

COMMENTO AL CANTO XXIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebriate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi disse: << Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l'ombre triste smozzicate?
Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n'è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi >>.
La vista della moltitudine di persone mutilate che riempiono la nona bolgia stordisce gli occhi di Dante al punto da impedirgli perfino di piangere. Virgilio si meraviglia nel vedere il suo discepolo trattenersi a guardare quella moltitudine straziata, gli chiede quindi perché continui a osservare quelle anime mutilate (le "ombre smozzicate") visto che non l'ha mai fatto nelle altre bolge. Il poeta mantovano crede che Dante stia tentando di contare quanti dannati vi siano nella bolgia e lo invita a desistere, essa infatti abbraccia il giro di ventidue miglia e il tempo rimasto a loro disposizione per visitare il resto dell'Inferno è poco. C'è da fare una precisazione riguardo la misura della bolgia che l'autore ci dà attraverso le parole di Virgilio. Molti critici hanno dibattuto riguardo questa misura di ventidue miglia, alcuni vedendovi la misura delle mura che circondavano Roma, altri semplicemente un'indicazione del poeta per costruire agli occhi del lettore un'immagine più precisa dell'Inferno. Nel canto XXX l'autore scrive che la decima bolgia, quella successiva, è di undici miglia. Alcuni critici videro quindi nell'indicazione di queste cifre l'intenzione di Dante di costruire ai nostri occhi un Inferno dove ogni bolgia misura il doppio di quella successiva. Nel corso dei secoli però questa e altre teorie hanno perso valore, oggi si tende a credere che l'indicazione di questa misura e di quella della decima bolgia abbiano semplicemente la funzione di abbellire il verso. 
Sentite le parole del maestro, Dante gli risponde che, se avesse fatto attenzione al motivo per cui continua a guardare i dannati, forse gli avrebbe concesso di restare ancora ("<< Se tu avessi >>, rispuos' io appresso, / << atteso a la cagion per ch'io guardava, / forse m'avresti ancor lo star dimesso. >>"). Virgilio infatti è già in cammino, seguito dal discepolo, il quale continua a parlare e gli spiega che nella nona bolgia pensa vi sia lo spirito di un suo parente a scontare la terribile pena. Il maestro gli dice che non deve pensare al suo parente e nemmeno deve provare pena per lui, è giusto che pensi al suo sacro viaggio e gli lasci scontare la pena, poi racconta di averlo visto ai piedi del ponticello che gli puntava contro il dito con fare minaccioso, mentre Dante era intento a guardare altrove. Virgilio si era quindi accorto di lui e aveva anche sentito il suo nome, Geri del Bello, ma aveva volontariamente taciuto a Dante la sua presenza, lasciandogli ascoltare le parole di Bertrando dal Bornio. Il comportamento del poeta mantovano si può spiegare solo comprendendo chi fosse Geri del Bello e quali fossero le usanze dell'epoca. Cugino del padre di Dante, Geri del Bello fu la causa dell'inizio di un'inimicizia lunga decenni tra la famiglia degli Alighieri e quella dei Sacchetti. Egli uccise un membro della famiglia Sacchetti e per questo fu ucciso da Brodaio dei Sacchetti tra il 1290 e il 1295. All'epoca le vendette di sangue erano quasi un obbligo morale e coinvolgevano tutti gli appartenenti all'albero genealogico di colui che aveva subito il torto, quindi anche Dante Alighieri avrebbe dovuto portare avanti la guerra infinita contro la famiglia Sacchetti. Il poeta però aveva un concetto sacro dell'autorità e vedeva nelle vendette di sangue un residuo dell'antica barbarie, quindi si rifiutò sempre di portare avanti tale faida, che fu ufficialmente chiusa nel 1342 con una pace tra le due famiglie firmata da suo fratello. Forese Donati rimproverò Dante di non vendicare le offese arrecate a suo padre, ma il poeta lo ignorò e mantenne il suo atteggiamento distante dalla faida familiare. Conoscendo questi fatti, diventa semplice spiegare la vicenda descritta in questi versi. Virgilio ha visto Geri del Bello che, sicuramente, voleva rimproverare il discendente che non combatte perché sia vendicata l'offesa arrecata alla famiglia, così ha impedito che avvenisse l'incontro. Ancora una volta la guida, la razionalità, ha protetto l'uomo, stavolta evitando che fosse coinvolto in una barbara faida familiare. Dante a questo punto spiega al suo maestro il motivo della sua pietà, egli infatti sa che il parente è colmo di rabbia perché nessuno dei discendenti ha vendicato la sua morte.
Parlando di Geri del Bello, Dante e Virgilio arrivano al primo scoglio del ponte che sovrasta la decima bolgia, che sarebbe visibile fino in fondo se non vi fosse la totale oscurità ("Così parlammo infino al loco primo / che de lo scoglio l'altra valle mostra, / se più lume vi fosse, tutto ad imo"). Non appena arrivano sull'ultima riva di Malebolge (la decima bolgia è l'ultima), i dannati li vedono e iniziano ad alzare verso di loro i propri strazianti lamenti, costringendo Dante a coprirsi le orecchie. Il dolore e la puzza che si possono percepire nella bolgia sono gli stessi che ci sarebbero se si unissero tutti i malarici curati negli ospedali della Val di Chiana, in quelli della Maremma e in quelli sardi nel periodo tra luglio e settembre (periodo in cui le febbri epidemiche erano più frequenti). I poeti scendono sull'ultima riva in modo da poter vedere il fondo, dove la giustizia divina punisce i falsari e gli alchimisti. L'autore dice di non credere che sull'isola di Egina, dove tutti gli abitanti furono colpiti da una pestilenza mandata da Giunone, vi fosse uno spettacolo tanto triste e orribile quanto quello che gli si presenta davanti agli occhi. Il riferimento qui lo prende dalle Metamorfosi di Ovidio, dove è raccontato che Giunone lanciò la pestilenza sugli abitanti dell'isola perché Giove si era innamorato della ninfa Egina (da cui l'isola prendeva il nome). Sopravvisse solo il re Eaco, che ottenne da Giove di poter ripopolare la sua terra trasformando le formiche in uomini. Secondo la leggenda, che è narrata anche da Apollodoro, così nacquero i Mirmidoni, la popolazione su cui regnò Achille. Da questa citazione è evidente che la pena patita dai falsari è la malattia, più precisamente la malaria e la scabbia. Il poeta vede alcuni dannati distesi sul ventre, altri sulla schiena, altri ancora si trascinano carponi. In silenzio, Dante e Virgilio camminano, guardando e ascoltando gli ammalati che non riescono ad alzarsi in piedi, sono costretti a strisciare come vermi. Assistiamo ancora una volta allo stravolgimento della natura umana. Il poeta vede due dannati seduti appoggiati l'uno all'altro, come si poggiano a scaldare due teglie, i cui corpi sono pieni di croste da capo a piedi. Li vede accanirsi con le unghie sulle piaghe con una frenesia superiore a quella con cui il mozzo di stalla aspettato dal padrone striglia il cavallo, o superiore a quella dello stalliere assonnato che governa di fretta e furia gli animali, tanto è fastidioso il prurito senza fine delle piaghe. I dannati con le unghie si tolgono di dosso le piaghe, come il coltello del cuoco toglie le squame della scardola, un pesce dalle squame molto dure ("Passo passo andavam senza sermone, / guardando e ascoltando li ammalati, / che non potean levar le lor persone. / Io vidi due sedere a sé poggiati, / com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia, / dal capo al piè di schianze macolati; / e non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso, / né a colui che mal volentier vegghia, / come ciascun menava spesso il morso / de l'unghie sopra sé per la gran rabbia / del pizzicor, che non ha più soccorso; / e sì traevan giù l'unghie la scabbia, / come coltel di scardova le scaglie / o d'altro pesce che più larghe l'abbia"). 
Virgilio si rivolge a uno dei due dannati con parole cariche di disprezzo. Prima lo apostrofa "tu che con le unghie ti dismaglie", paragonando le croste che gli coprono il corpo a una maglia; gli chiede poi se tra loro c'è qualche italiano; infine conclude la richiesta sbeffeggiandolo, gli augura infatti che le unghie gli bastino a grattarsi per l'eternità. Ancora una volta non c'è pietà per chi soffre un'eterna pena, c'è soltanto il disprezzo per chi ha rinnegato la natura umana e adesso ne paga il giusto prezzo. ("<< O tu che con le dita ti dismaglie >>, / cominciò 'l duca mio a l'un di loro, / << e che fai d'esse talvolta tanaglie, / dinne s'alcun Latino è tra costoro / che son quinc'entro, se l'unghia ti basti / etternalmente a cotesto lavoro") Il dannato risponde di essere italiano lui e che lo è anche il compagno che gli è poggiato addosso, poi gli chiede chi sia. Virgilio dice semplicemente di essere uno che scende lungo l'Inferno per mostrarlo all'uomo vivente che è con lui. I due dannati si separano ("si ruppe lo comun rincalzo") e tutti gli altri, sentendo le parole del poeta mantovano, si girano verso i pellegrini. Virgilio si avvicina al suo discepolo e lo sprona a dir loro ciò che vuole. Dante invita i dannati, affinché il loro ricordo non svanisca tra i mortali, quindi affinché non perdano l'unica consolazione che possono avere, a dirgli chi sono e a quali famiglie appartengono, li sprona poi a non vergognarsi della loro disgustosa condizione ("<< Se la vostra memoria non s'imboli / nel primo mondo de l'umane menti, / ma s'ella viva sotto molti soli, / ditemi chi voi siete e di che genti; / la vostra sconcia e fastidiosa pena / di palesarvi a me non vi spaventi >>"). 
Il primo dannato a farsi avanti è Griffolino d'Arezzo. Sull'effettiva identità di questo personaggio ci sono diverse ipotesi: per alcuni fu un notaio laico, per altri fu rettore della Chiesa di Quirico a Siena. Nessuna delle due ipotesi è comunque dimostrabile. Griffolino racconta a Dante di essere stato bruciato sul rogo come eretico, ma non fu l'eresia il suo peccato. Egli dichiarò al suo amico Alberto da Siena di essere in grado di farlo volare e quello, poco assennato, ci credette e gli chiese una prova. Quando Alberto vide che Griffolino lo aveva preso in giro, sfruttò la fiducia che in lui nutriva il vescovo di Siena e lo fece mandare al rogo come eretico. Griffolino spiega che Minosse però, non potendo sbagliare come i giudici terreni, non l'ha punito per l'eresia che mai commise, bensì per la sua attività di alchimista. Secondo la leggenda, gli alchimisti erano in grado di trasformare i metalli in oro e argento. Tali storie si diffusero grazie a due libri sulla pietra filosofare che furono erroneamente attribuiti a San Tommaso. Nella vita reale, gli alchimisti non erano nient'altro che falsificatori di metalli, quindi imbroglioni. Sentita la storia raccontata da Griffolino, Dante chiede a Virgilio se al mondo vi siano persone vuote e frivole come i senesi. Perfino i francesi, che hanno la fama di essere frivoli, secondo il poeta non lo sono quanto gli abitanti di Siena.
Si fa avanti un altro dannato che risponde alle parole di Dante, ricordandogli di Stricca e della famosa Brigata dei dodici, un gruppo di senesi benestanti che decise di scialacquare i propri beni nei modi più assurdi. Il falsario racconta di Niccolò, fratello di Stricca, che adottò l'usanza di mettere i garofani nei fagiani e nelle pernici arrosto così da drogarsi. Detto ciò, invita Dante ad aguzzare la vista per capire chi sia colui che gli dà ragione. Si tratta di Capocchio, un alchimista bruciato sul rogo nel 1293 a Siena per aver falsificato i metalli. Dante in vita aveva conosciuto Capocchio, avevano infatti studiato filosofia naturale insieme. I critici dell'epoca scrissero che divenne molto dotto e iniziò a studiare la vera alchimia, poi iniziò a falsificare i metalli. Capocchio dice a Dante che deve ricordarsi come "io fui di natura buona scimia", cioè fu bravo a contraffare le cose naturali così come la scimmia imita le operazioni umane.

Francesco Abate