martedì 28 marzo 2017

COMMENTO DE "MASTRO-DON GESUALDO" DI GIOVANNI VERGA


Avevo già letto Verga ai tempi del liceo. Allora mi avventurai nella lettura de I Malavoglia, abbandonandola però dopo pochi capitoli che trovai insopportabili. Dopo tanti anni, però, visto che nel tempo i miei gusti letterari sono cambiati parecchio (sto invecchiando!), ho deciso di dare all'autore una seconda possibilità. Posso dire con gioia di aver fatto bene, il romanzo mi è piaciuto moltissimo e la figura di Verga l'ho completamente rivalutata, probabilmente rileggerò anche I Malavoglia

Mastro-don Gesualdo è il secondo romanzo del ciclo dei "Vinti", iniziato da Verga con I Malavoglia e mai terminato. Mentre nel primo romanzo i riflettori erano puntati su una famiglia di poveri pescatori, piegata dalla sfortuna e da un affare sbagliato, qui leggiamo la storia di quello che oggi chiameremo self-made man, un uomo capace di diventare ricco partendo da niente.
Mastro-don Gesualdo nasce semplice manovale, è però un gran lavoratore e, a differenza dei suoi pari, ha un gran fiuto per gli affari. Riesce così ad accumulare una grande ricchezza. Il suo errore è però quello di pensare solo ai suoi beni, egli infatti fa ogni cosa in funzione della conservazione e l'accrescimento del patrimonio, anche il matrimonio e l'educazione della figlia sono per lui degli affari. Egli finisce quindi per essere un vinto, non si interessa minimamente della storia, si preoccupa solo di cavalcare l'onda e trarne vantaggio, ma finisce per esserne fatalmente travolto.
Il romanzo si divide in quattro parti. Nella prima parte conosciamo il personaggio di Mastro-don Gesualdo, la sua storia, il contesto in cui vive e la sua ascesa, fino al matrimonio con Bianca Trao, giovane esponente di una nobile famiglia caduta in disgrazia. La seconda parte inizia con l'asta delle terre del comune, evento in cui il protagonista si scontra duramente con una parte della nobiltà di cui fa adesso parte, e termina con la nascita di sua figlia Isabella. Nella terza parte conosciamo il modo in cui Mastro-don Gesualdo gestisce la vita famigliare, si va dall'iscrizione di Isabella al collegio (a soli cinque anni) fino al matrimonio combinato di quest'ultima con un duca palermitano interessato ai soldi del protagonista. La quarta parte ci mostra la drammatica decadenza del protagonista, che muore con la consapevolezza che il suo patrimonio verrà dilapidato e sua figlia è infelice.
Leggendo la storia di Mastro-don Gesualdo vediamo le vicende di un uomo che pianifica volta per volta il proprio arricchimento, addirittura il suo matrimonio e l'educazione di sua figlia sono studiate affinché il patrimonio si accresca e non svanisca dopo la sua dipartita. Il suo modo d'essere però lo porta a scontrarsi con tutti coloro che ha intorno, sanguisughe che cercano di approfittarsi della sua ricchezza. Alla fine del romanzo, che coincide con la morte del protagonista, egli arriva alla consapevolezza che sua figlia è infelice, perché intrappolata in un matrimonio non voluto con un uomo che lui stesso le ha imposto, e che il genero dilapiderà in breve tempo tutte le sue ricchezze. Dopo tante lotte, egli è sconfitto dalla vita e muore infelice.
In Mastro-don Gesualdo è il realismo a farla da padrone, come sempre nello stile di Verga. Non ci sono personaggi "buoni" e personaggi "cattivi", sono quasi tutti egoisti a modo proprio. Il protagonista ha i tanti difetti elencati sopra, ma è comunque circondato da personaggi senza scrupoli che pensano solo ad approfittarsi di lui, a partire proprio dai parenti. Anche quando la malattia lo sta divorando, prima la sorella e poi il genero lo intrappolano in casa così da poter arraffare i suoi beni non appena abbia esalato l'ultimo respiro. Gli unici personaggi che non attaccati ai suoi soldi sono Diodata (la serva), Bianca (la moglie) ed Isabella (la figlia), si tratta però di personaggi la cui sconfitta consiste nell'essere obbligate a subire le decisioni altrui.
Dei tanti personaggi che animano il romanzo, quello che mi ha colpito di più è senza dubbio Diodata, la serva fedele di Mastro-don Gesualdo. Quando il protagonista è solo un forte imprenditore, lei già mostra di amarlo e con lui intrattiene una relazione (non solo con lui, in realtà!) da cui nasceranno tre figli. Il protagonista però sceglie l'interesse prima dell'amore, sposa Bianca Trao così da entrare nel mondo dei nobili e impone a Diodata un matrimonio con Nanni l'orbo. Nonostante Diodata sia allontanata, non smette mai di voler bene a Mastro-don Gesualdo ed è l'unica a salutarlo davvero in modo compassionevole quando questo sarà prossimo alla morte. Nonostante suo marito sfrutti Mastro-don Gesualdo per i soldi ed i suoi figli siano spinti ad odiarlo dalle chiacchiere della gente, lei gli sarà sempre legata.
Leggendo questo romanzo possiamo vedere gli sconvolgimenti che creò nell'Ottocento l'affermarsi di una classe di mercanti capace di entrare in competizione e vincere contro la nobiltà ormai decadente. Il protagonista è un mercante ricco e negli affari tiene in scacco i nobili. La nobiltà lo odia, ma ha bisogno dei suoi capitali e con lui si indebita o fa affari, pur continuando a disprezzarlo. Sempre per affari, viene combinato il matrimonio tra Gesualdo e Bianca al fine di salvare l'onore della ragazza, dando in cambio al mercante il lasciapassare per il mondo dei nobili. Questo tema successivamente venne trattato anche da Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo. Tomasi di Lampedusa però mostra lo sconvolgimento sociale visto dagli occhi dei nobili;  Verga ci illustra come fu vissuto dai nobili, dai mercanti (il protagonista) e dal popolo (invidioso del loro pari che si è arricchito).

Mastro-don Gesualdo è un romanzo ricco di spunti interessanti e di grande valore storico. Si tratta poi di un romanzo che si legge senza difficoltà, non è pesante e in molti punti invita alla lettura.

Francesco Abate

lunedì 27 marzo 2017

VI RACCONTO LA MIA POESIA "LA SPERANZA DEL SOLDATO INERME"


La speranza del soldato inerme è l'ultima poesia che ho pubblicato sul sito Spillwords.com.
Essa non nasce da un'esperienza in particolare, semplicemente vuole rendere lo stato d'animo di chi combatte la propria guerra sapendo che, se anche dovesse vincerla, ne uscirà ucciso. Il soldato si chiede "che senso ha calpestare un suolo/che vuole abbracciare il mio cadavere?", ciò che ci chiediamo un po' tutti quando il mondo sembra venirci contro, quando sembra che gli eventi siano mossi da una volontà a noi ostile. Ognuno di noi nella propria vita si trova a volte ad essere un soldato inerme, ad essere in balìa degli eventi e a non avere prospettive rassicuranti. 
Come ognuno di noi nella propria vita, però, anche il soldato inerme ha la sua speranza. Spesso nei momenti di disperazione quello che ci fa resistere è la speranza di essere importanti per qualcuno, di essere il pensiero gradito di qualcuno per noi importante, essere "...una rosa che adorna/i capelli di una giovane dea/che irradia il suo cielo/con la purezza dei suoi sogni".
Se vi fa piacere, potete leggere la mia poesia al link http://spillwords.com/la-speranza-del-soldato-inerme/.

Buona lettura.

Francesco Abate

giovedì 23 marzo 2017

I BORBONE RECLAMANO IL TRONO DI NAPOLI


Il tema dell'Unità d'Italia è ancora oggi oggetto di studi e di dibattito. Come in tutte le questioni storiche spinose, però, al dibattito serio e documentato si aggiungono le farneticazioni di chi trasforma tutto in tifo da stadio ed arriva a creare realtà parallele pur di sentirsi dare ragione.
Questo articolo lo scrivo dopo aver letto su Facebook l'ennesimo post anti-Unità d'Italia in cui qualcuno, che nemmeno ha avuto la decenza di firmarsi, dichiara Garibaldi un conquistatore e non un liberatore. Viene in pratica riesumato il vecchio concetto secondo cui egli fu un soldato al servizio dei Savoia e non un rivoluzionario mosso da ideali unitari. Al di là delle opinioni che ci possono essere, mettere in dubbio il movente idealistico di Garibaldi è indice di scarsa conoscenza della storia. Prima di tutto chi ha scritto il post ha dimenticato che Garibaldi aveva già partecipato ad una rivoluzione in Uruguay (dove di certo non l'avevano mandato i Savoia) e che quindi aveva già manifestato la sua propensione a lottare a favore di coloro che lui riteneva oppressi. Oltretutto, quando si parla di Giuseppe Garibaldi, non si deve dimenticare che egli stesso si lamentò molto della repressione troppo dura che il Regno d'Italia attuò nel sud Italia, arrivando anche a dimettersi dal Parlamento e dichiarare che, se avesse saputo che il Regno avrebbe operato con tanta crudeltà, non avrebbe combattuto per l'unificazione. Al di là delle proprie opinioni sull'Unità d'Italia, criticare Garibaldi e i suoi moventi è segno di una conoscenza scarsa della storia.

Il post di cui parlo sopra non è comunque un fatto estemporaneo, da un po' di anni ormai stiamo assistendo al proliferare di teorie anti-Unità d'Italia. Molto forte il sentimento anti-unitario è nel sud del paese, dove sta addirittura affiorando un orgoglio borbonico e proliferano gruppi di revisionisti che cercano di convincerci che il Regno delle Due Sicilie fosse molto più avanzato del Regno d'Italia e i meridionali nel passaggio forzato ci abbiano solo perso. Per questi gruppi il fenomeno del brigantaggio fu in realtà resistenza, i briganti furono partigiani, i Borbone furono sovrani illuminati e i Savoia dei crudeli conquistatori. Non c'è sicuramente dubbio sul fatto che i Savoia vollero l'Unità d'Italia per un loro interesse economico e politico, è ovvio che un sovrano non agisce da patriota e non trascina il proprio regno in una lunga guerra solo per fare un favore a qualcuno. Con l'Unità d'Italia si garantirono il sostegno dei tanti patrioti favorevoli all'unificazione, rafforzando il proprio potere, ed ottennero nuovi territori su cui governare. Sulle altre teorie revisionistiche però, c'è a mio parere molto da ridire. 
Definire il brigantaggio come una forma di resistenza è a dir poco ridicolo. Prima di tutto il fenomeno del brigantaggio non nacque all'indomani dell'annessione del regno borbonico al Regno d'Italia, già da secoli le strade del regno non erano sicure a causa della presenza di briganti. I briganti inoltre non erano organizzati come un esercito e perlopiù si dedicavano a scorrerie e rapimenti a scopo di estorsione. Dopo l'unificazione colpirono principalmente sindaci e "galantuomini", loro concittadini che ricoprivano una carica in nome dei Savoia, ma senza mai ambire o compiere atti di alcuna valenza politica. Ci fu qualche occupazione di piccoli centri urbani, ma si trattò di casi isolati. Anche i richiami a Ferdinando II di Borbone "unico sovrano" erano dovuti principalmente alla presenza tra i briganti di ex militari borbonici, loro veramente colpiti dal cambio di sovrano.

Sfatato il mito del brigante-partigiano, andiamo ad analizzare un po' la situazione economica del regno borbonico subito prima dell'Unità d'Italia, cercando di capire se davvero sotto i Borbone i meridionali stessero meglio.
Al suo insediamento nel 1830, Ferdinando II di Borbone ereditò un deficit enorme. Egli decise di non aumentare la pressione fiscale per non inimicarsi il popolo, di fatto però scelse di bloccare definitivamente la spesa pubblica. Come conseguenza di questa scelta del sovrano, il regno divenne incapace di far rispettare le proprie leggi, di sviluppare le infrastrutture e di garantire servizi al cittadino.
Molto spesso i neo-borbonici si riempiono la bocca ricordando che il primo tratto ferroviario in Italia fu costruito dai Borbone. Questa cosa è vera, però lo sviluppo della rete ferroviaria si fermò praticamente lì. Subito prima dell'annessione al Regno d'Italia, nel Mezzogiorno vi erano 181 km di rete ferroviaria contro i 2520 km del resto d'Italia. La situazione era ben peggiore se parliamo di strade, visto che in tutto il regno ce n'erano 14.000 km, la metà di quelle presenti nella sola Lombardia, che era quattro volte più piccola. Nel sud della penisola le strade mancavano completamente in 1321 comuni su 1868 (non considerando la Sicilia), laddove c'erano non erano frutto dell'organizzazione e dell'azione statale, bensì erano state progettate e costruite da privati, col risultato che nelle zone più ricche c'era la rete stradale, in quelle più depresse si viaggiava a dorso di mulo.
Se la situazione della rete infrastrutturale era un disastro, non era migliore quella scolastica. Nel 1859 il Regno delle Due Sicilie contava appena 2010 scuole primarie, 67.428 allievi e 3171 maestri, su una popolazione di 9.000.000 di abitanti. Il tasso di analfabetismo era del 70-75%, mentre in Piemonte e in Lombardia il 90% dei bambini andava a scuola. La situazione lentamente cominciò a migliorare dopo l'Unità d'Italia perché valse anche per il sud la legge Casati del 1859, quindi il biennio elementare divenne obbligatorio. In realtà la strada da percorrere sarebbe stata ancora lunga perché la legge non prevedeva azioni legali nei confronti di chi sottraeva i bambini all'obbligo scolastico, quindi in molte famiglie i bambini venivano mandati subito a lavorare.
Un altro fatto da sottolineare quando si parla dello straordinario regno borbonico è l'epidemia di colera del 1836-37, in cui morirono circa 200.000 persone. L'epidemia fu infatti causata dalle condizioni igienico-sanitarie pessime, l'acqua di molti pozzi era contaminata e non veniva fatta rispettare la legge che imponeva la costruzione dei cimiteri fuori dai centri urbani. Mancavano inoltre impianti fognari.

Le considerazioni che ho riportato sopra vogliono solo essere un invito ad aprire la mente. La storia è materia affascinante, è giusto e bello farne oggetto di dibattito, bisogna però essere equilibrati e non distorcere i fatti per difendere degli slogan.
Trovo giusto che si analizzi a fondo il tema dell'Unità d'Italia e si cerchino di comprendere anche le ragioni di coloro che ad essa si opposero, è però assurdo vendere fumo per trasformare qualcuno in santo. Viviamo in un'epoca dove il revisionismo storico è di moda, esso però quasi mai si basa su fatti. Tutti vogliono insegnare, nessuno vuole studiare.
La vita per il Mezzogiorno sotto il Regno d'Italia prima e lo Stato italiano poi non fu (e non è tutt'ora) una festa, ma dire che si stava meglio sotto i Borbone mi sembra piuttosto azzardato. La realtà è che con il passaggio al Regno d'Italia il progresso ci fu, specialmente sul piano politico e sociale, mentre sotto altri aspetti il Regno fallì. Quando per ragioni di tifo (perché abbiamo bisogno di sentirci orgogliosi pur senza far niente per migliorare la merda in cui siamo immersi, è il nostro difetto principale) ci viene voglia di screditare il processo di unificazione d'Italia, dobbiamo essere umili e chiederci perché tanti intellettuali dell'epoca scelsero di patire o morire per portarlo avanti. Se davvero il Mezzogiorno sotto i Borbone se la passava bene, come qualcuno vuol farci credere, perché già prima di Garibaldi c'erano stati moti rivoluzionari contro i sovrani borbonici? E poi, se davvero il popolo avesse tanto amato i Borbone, Garibaldi con mille uomini sarebbe riuscito a portare a termine la sua impresa? Io credo che sia arrivato il momento di tacere, rileggere bene la storia e meditare tanto prima di riaprire la bocca.

Francesco Abate  

giovedì 9 marzo 2017

COMMENTO DE "LA SIGNORA DALLOWAY" DI VIRGINIA WOOLF

Ho sempre amato la letteratura inglese, per un periodo l'ho anche preferita a quella italiana, quindi per me era d'obbligo leggere qualcosa di Virginia Woolf, considerata una delle autrici inglesi più importanti dello scorso secolo. Della Woolf ho incontrato in libreria questo romanzo e subito ho deciso di fare questa nuova conoscenza.
Mi duole dire che in questo romanzo ho incontrato un po' tutto quello che non mi piace della letteratura. Prima di tutto non vi è una vera trama, è il racconto di una giornata in cui non succede niente di particolarmente importante ai protagonisti (se si eccettua il povero Septimus Smith), vi è semplicemente l'incontro di un gruppo di vecchi amici ad una festa. Ovviamente la Woolf non ha scritto il romanzo tanto per perdere tempo, la sua intenzione era quella di sezionare la psicologia dei personaggi e per farlo ha usato la tecnica del "flusso di coscienza". Il risultato della scelta dell'autrice però, a mio parere, non è dei più felici. Chiunque abbia letto L'Ulisse di James Joyce sa quanto sia difficile leggere il flusso di pensieri senza perdersi, è infatti una tecnica che rende perfettamente l'evoluzione del pensiero in libertà, ma per farlo spesso crea periodi confusi e difficili da seguire. Questo succede anche ne La signora Dalloway, in special modo durante i dialoghi tra i personaggi, quando si alternano senza soluzione di continuità cose dette e pensate, formando un turbine di parole difficili da seguire. Il romanzo perciò non mi ha mai invogliato alla lettura e ho dovuto impormi di portarlo a termine (per fortuna non è lungo quanto L'Ulisse di Joyce, altrimenti mi sarei arreso).
Anche i personaggi del romanzo non mi hanno colpito granché. La signora Clarissa Dalloway è una donna dell'alta borghesia che vive di ricordi e passa il tempo organizzando feste al fine di sentirsi viva; Peter Walsh è l'uomo più passionale, innamorato di lei e respinto, che con le donne e nella vita non riesce ad avere successo. L'unico personaggio davvero interessante è Septimus Smith, il quale impazzisce a seguito di un trauma di guerra ed incontra una fine tragica. La vicenda di Septimus è l'unica degna di essere seguita, anche se per lunghi tratti si fa fatica perché diventa il lungo flusso di pensieri di un pazzo. 
Nel complesso non mi è piaciuto questo romanzo e non credo leggerò altro della Woolf, soprattutto ricordando le tante pagine che l'autrice ha dedicato agli inizi della vicenda al semplice passaggio di un auto della famiglia reale ed alle reazioni da questa suscitata tra la gente. Già lì si presagiva la pesantezza e la piattezza dell'intero libro.

Francesco Abate

giovedì 2 marzo 2017

FACCIAMO DUE CHIACCHIERE


Il social network Goodreads, dedicato ai libri ed ai lettori, mi ha posto alcune domande relative alla mia attività artistica a cui mi sono divertito a rispondere. Di seguito vi riporto l'intera intervista tradotta in italiano.

G: DOVE HAI PRESO L'IDEA PER IL TUO LIBRO PIU' RECENTE?
F: Io inizio sempre un romanzo per mandare un messaggio, per spiegare un mio punto di vista su qualcosa che ritengo importante.
Ho scritto "Il prezzo della vita" per dimostrare che nella nostra società il denaro ha troppa importanza. Il romanzo parla di una persona che con i soldi compra ogni cosa: amici, sesso e la vita intera. Oggi il denaro non compra solo beni e servizi, ma anche le persone. Per avere una vita sociale soddisfacente è necessario avere i soldi, perché ogni azione ha un costo in denaro (come ad esempio i soldi che servono per passare una cena con gli amici). La vita intera dipende dal denaro. Nel mio romanzo io approfondisco questo concetto e mostro questa realtà in tutta la sua bruttezza.

G: COME SI FA A TRARRE L'ISPIRAZIONE PER SCRIVERE?
F: Secondo me non c'è una regola. A volte traggo ispirazione da un accadimento, altre volte da una notizia, a volte da una canzone o da un altro romanzo. Certe volte vengo ispirato da un sogno, altre volte dal bisogno di spiegare una mia idea. L'ispirazione ha infinite forme.

G: A COSA STAI LAVORANDO ATTUALMENTE?
F: Adesso sto lavorando alla sceneggiatura di un cortometraggio e sto scrivendo un altro romanzo. Contemporaneamente sto scrivendo poesie per Spillwords, sto gestendo i miei due blog e sto promuovendo "Il prezzo della vita".

G: QUAL E' LA COSA PIU' BELLA DELL'ESSERE SCRITTORE?
F: Scrivere.
Essere uno scrittore significa mettere su carta la tua mente e il tuo cuore e condividerli con il mondo intero. E' fantastico perché è un'evoluzione della più grande attività umana: la condivisione delle idee. Quando le persone parlano, condividono le idee con l'interlocutore, lo scrittore invece le condivide col mondo intero e per farlo inventa una storia. Come il pittore che usa i colori per dare un altro significato alla realtà, lo scrittore fa lo stesso usando le parole.

G: QUAL E' IL TUO CONSIGLIO PER UN ASPIRANTE SCRITTORE?
F: Scrivi tutto ciò che ti passa per la testa. Leggi tanto, in special modo i classici. Non smettere di sognare come i bambini.
Scrivere non è un lavoro, è passione. Quando scrivi un libro, fai arte e non affari. Sii sempre originale e non pensare alle vendite, devi creare qualcosa di bello e non qualcosa che piaccia agli altri. Sii te stesso e non scrivere facendo calcoli. Mantieni il tuo stile e non copiare gli altri scrittori.

G: COME GESTISCI IL BLOCCO DELLO SCRITTORE?
F: E' un problema che non ho mai avuto.
Penso sia importante capire il motivo del blocco. A volte è possibile che semplicemente non hai niente da dire, in tal caso penso sia meglio non scrivere niente invece che scrivere libri vuoti. L'unica cosa che posso consigliare è leggere di più e vivere esperienze diverse, così si seminano idee nuove nella mente. Le nuove idee fanno nascere i nuovi libri.

Potete trovare l'intervista originale al link https://www.goodreads.com/author/16462940.Francesco_Abate/questions.



Il prezzo della vita può essere ordinato al link http://www.csaeditrice.it/index.php?option=com_virtuemart&view=productdetails&virtuemart_product_id=294&virtuemart_category_id=2&lang=it, presso tutte le librerie e sui siti delle principali librerie online.

Potete seguire l'attività dell'autore su questo blog, sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese" (https://www.facebook.com/FrancescoAbatescrittore/?fref=ts) e su Twitter "@FrancescoAbate3".

Grazie mille e buona lettura.

Francesco Abate

Francesco Abate nasce a Salerno il 26 agosto 1984, ma da sempre vive nella città di Battipaglia. Sin da piccolo manifesta interesse prima per la lettura, poi per la scrittura. Comincia ad abbozzare i primi romanzi già ai tempi del liceo, ma la prima pubblicazione arriva solo nel 2009 con "Matrimonio e Piacere". Autore anche di poesie, alcune delle quali pubblicate su http://spillwords.com/. Il prezzo della vita è la sua prima pubblicazione per la CSA Editrice.