giovedì 24 settembre 2020

RECENSIONE DEL SAGGIO "DISOBBEDIENZA CIVILE" DI HENRY DAVID THOREAU

 

Disobbedienza civile è un saggio pubblicato dallo scrittore americano Henry David Thoreau nel 1849. L'autore lo pubblicò col titolo Resistenza al governo civile, il titolo attuale fu messo dopo la sua morte.
Ho scelto per presentare questo saggio la foto di Gandhi perché l'opera fu ispiratrice dei grandi movimenti non-violenti, influenzando molto personalità come Martin Luther King e Gandhi. Thoreau infatti vede come unica soluzione alle politiche ingiuste dei governi, che perseguono solo i fini di una ristretta cerchia di potenti invece di occuparsi della collettività, la disobbedienza civile intesa come lotta non violenta. La soluzione per lui non sono le rivolte violente, che ammette solo in casi estremi, ma il mancato pagamento delle tasse.
Della disobbedienza civile da lui propugnata Thoreau non fu solo un teorico: rifiutò di pagare la poll tax per protestare contro la politica aggressiva del governo statunitense, finendo in galera.

In Disobbedienza civile Thoreau insiste sul principio che tutti dovremmo essere prima uomini e poi cittadini. 
Il cieco rispetto della legge produce uomini già morti; l'autore paragona i servitori dello Stato, quelli che mettono le leggi e l'autorità prima di sé stessi e della propria coscienza, a burattini di legno capaci di servire contemporaneamente sia Dio che il diavolo. Pochissimi sono quelli che servono lo Stato anche con la coscienza; questi finiscono sempre per opporsi a chi detiene il potere, e sono eroi comunemente trattati come nemici.
Thoreau fa un esempio relativo al periodo in cui scrive. Il governo americano è schiavista e guerrafondaio, la popolazione negli USA è composta per 1/6 da schiavi, inoltre l'esercito ha invaso il Messico e lì applica la legge marziale. Per un uomo essere associato a un governo del genere è un disonore.
In presenza di un Governo così lontano dal giusto, l'uomo che ha coscienza non può fare altro che ribellarsi. L'autore critica quegli uomini buoni che non condividono le politiche del Governo ma non fanno nulla per cambiarle; al massimo si limitano a dare il voto a qualcuno scaricandogli il compito di aggiustare la situazione. Questo è un comportamento passivo che non porta a niente, perché non fa altro che manifestare debolmente agli uomini il desiderio che il giusto prevalga, senza però fare niente affinché ciò accada. L'uomo saggio non aspetta la maggioranza, ma lotta.

Thoreau, facendo riferimento alla situazione a lui contemporanea, critica quelli che protestano contro l'invasione del Messico ma non si rifiutano nemmeno di pagare la tassa con cui viene finanziato l'intervento armato.
L'uomo non ha il dovere di estirpare il male dalla società, ma ha l'obbligo di tenersene fuori e non supportarlo. Tutto si può fare, a patto che non sia fatto a danno di qualcun altro. Non si può nemmeno aspettare di cancellare l'ingiustizia seguendo gli iter legislativi, ci vuole troppo tempo e l'uomo viene al mondo per vivere, non per sprecare tempo a migliorare la società. Questo principio, che è alla base della disobbedienza civile, è molto interessante perché introduce un concetto fondamentale: la vita del singolo, che è unica e irripetibile, vale più di quella della società intesa come ente politico; viene perciò abbandonata la retorica della supremazia della collettività per rimettere l'uomo al centro della vita.
L'uomo ha l'obbligo di non appoggiare le iniziative ingiuste dello Stato e allo stesso tempo non può dedicare la sua esistenza a una inutile e infinita lotta politica, ha quindi una sola strada da percorrere: la disobbedienza civile. Gli Stati Uniti avevano invaso il Messico, quindi l'uomo di coscienza come minimo non avrebbe dovuto pagare la poll tax istituita per finanziare l'invasione. Lo Stato tutela solo la propria autorità, non il giusto, per questo quando istituisce una legge ingiusta questa deve essere violata.

Il miglior metodo di disobbedienza civile è il mancato pagamento delle tasse. L'unico momento in cui un cittadino medio incontra il Governo è quando arriva l'esattore delle tasse, per questo l'unico atto davvero efficace di disobbedienza civile è rifiutare di pagarle.
Ovviamente Thoreau propaganda il mancato pagamento delle sole tasse ingiuste, infatti lui dichiara di pagare volentieri quelle per le strade e l'istruzione.
Essendo il mancato pagamento delle tasse la forma migliore di lotta, l'autore spiega come la ricchezza sia un ostacolo alla disobbedienza civile. Quando un uomo ricco non paga le tasse, lo Stato gli prende tutto e perseguita anche i suoi figli. L'uomo che vive nella giustizia e nell'onestà perciò non deve accumulare ricchezze per non essere vulnerabile; deve possedere giusto quello che gli serve per vivere, così non avrà mai bisogno di sottomettersi allo Stato perché questi non potrà togliergli nulla. La ricchezza è quindi una forma di schiavitù.

Thoreau conclude il saggio analizzando la sua esperienza in carcere.
Racconta di aver perso fiducia nello Stato quando fu incarcerato per il mancato pagamento della poll tax. Vide che lo Stato lo trattava come carne e sangue, mortificandone il corpo invece di pensare a come avvalersi dei suoi servigi mentali. Lo Stato non fa valere così una superiorità intellettuale, ma come un bullo usa la propria superiorità fisica e si limita a premiare o punire il corpo dei suoi cittadini.
Nonostante fosse incarcerato, si sentiva più libero dei suoi concittadini: i veri prigionieri erano coloro che avevano pagato la tassa ingiusta e si erano sottomessi.
Capì in quel frangente di avere poco in comune coi suoi concittadini, i quali si dichiaravano interessati alla giustizia ma cercavano solo la sua parvenza.

Considero Disobbedienza civile un saggio da leggere assolutamente. Prima di tutto è necessario conoscerne i contenuti visto il grande impatto che ha avuto sulla storia del mondo, inoltre mostra un pensiero moderno che ancora oggi va preso in considerazione.
A differenza degli anarchici, Thoreau non vuole la fine di ogni governo, o almeno non una fine immediata, ma auspica l'avvento di classi dirigenti più vicine al cittadino, che non lo comandino per favorire gli interessi dell'una o dell'altra cerchia ma gli permettano di vivere la sua vita in serenità. 
Essendo però il sogno dello scrittore ben lontano dal realizzarsi, lui indica la strada della disobbedienza civile e della lotta non violenta.
Il pensiero di Thoreau a mio modo di vedere porta a un superamento del vecchio concetto di nazione. La nazione nei secoli scorsi era un'entità quasi sacra, il cui interesse era nettamente prevalente su quello del singolo; lo scrittore americano invece ritiene la vita dell'individuo molto più importante, così come la sua coscienza, e per questo un uomo giusto non può e non deve piegarsi all'ingiustizia, anche se questa è imposta da una legge.
Per valutare il pensiero dello scrittore bisogna però tenere presente di quello che a mio modo di vedere è il suo limite: egli ritiene che esista una giustizia assoluta. Per Thoreau l'uomo deve servire il giusto e non la legge, ma in mancanza del concetto di una giustizia assoluta questo concetto può diventare pericoloso, potrebbe infatti spingere chiunque a violare qualsiasi legge in nome di un proprio principio morale. Forse, onde evitare questo equivoco, sarebbe più giusto dire che deve essere violata qualsiasi legge che arrechi un danno ad altre persone, ma anche in questo caso entreremmo in un terreno pericoloso, perché incarcerare un assassino gli arreca un danno, e lui è pur sempre una persona, quindi si potrebbe opinare anche sul carcere per i delinquenti.
Il pensiero di Thoreau a mio modo di vedere va conosciuto ed apprezzato, preso come base per la formazione di un pensiero proprio circa il modo di rapportarsi a uno Stato tutt'altro che infallibile, ma necessariamente va rimodulato sulla base di presupposti più solidi della giustizia assoluta.

Francesco Abate

domenica 20 settembre 2020

L'OPPOSIZIONE NON VIOLENTA AL NAZISMO DELLA "ROSA BIANCA"

 

La Rosa Bianca fu un gruppo giovanile di ispirazione cristiana che tra giugno 1942 e febbraio 1943 organizzò una resistenza non violenta al regime nazista di Adolf Hitler attraverso la diffusione di opuscoli in Baviera e in Austria.
I membri più importanti del gruppo furono: Hans Scholl, Sophie Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf. Erano tutti ragazzi poco più che ventenni; solo in un secondo momento si unì a loro il professore Kurt Huber, che si occupò di scrivere gli ultimi due opuscoli.

Nella lotta contro il nazismo i ragazzi della Rosa Bianca non vedevano solo il tentativo di liberarsi da una dittatura, per loro era in gioco una lotta più grande contro le forze del male; nel quarto opuscolo scrissero: "E' ben vero che si deve portare avanti con metodi razionali la lotta contro lo stato terroristico; ma chi oggi dubita ancora sulla reale esistenza di forze demoniache, non ha assolutamente capito lo sfondo metafisico di questa guerra. Dietro al concreto, che è afferrabile con i sensi, dietro ogni riflessione obiettiva e logica, sta l'irrazionale, e cioè la lotta contro il demonio, contro il messaggero dell'Anticristo".
L'obiettivo del gruppo era la sconfitta delle forze del male, di un dittatore che vedevano alla stregua di un demone uscito dall'Inferno, non c'era nei loro programmi nessuna intenzione di spingere la Germania verso una forma di governo democratica. Scrissero nel primo opuscolo di non voler formulare giudizi sulle diverse forme dello Stato, quindi nelle loro intenzioni non c'era la transizione democratica della Germania; Alexander Schmorell addirittura vedeva nel governo autoritario dello zar la soluzione adatta per il popolo russo, che era stato corrotto nella fede dai bolscevichi, mentre non aveva una buona opinione degli stati democratici.

Le prime azioni della Rosa Bianca furono più prudenti: si limitarono a spedire copie degli opuscoli ad indirizzi presi a caso in Baviera, a lasciarne altre nelle cabine telefoniche o alle fermate degli autobus. 
Nella distribuzione degli ultimi due opuscoli si concentrarono su Monaco di Baviera, fino a tentare di distribuire gli ultimi all'interno della stessa università. Sophie Scholl prese coraggio, salì in cima alla scala dell'atrio e lanciò le copie nel cortile, così che tutti gli studenti potessero vederle. Purtroppo quel coraggio costò caro: furono individuati dal bidello Jakob Schmid e consegnati alla Gestapo insieme a Probst.
Schmid fu ricompensato per la sua impresa (la Gestapo da tempo cercava invano di arrestare i membri della Rosa Bianca) con un pagamento di 3000 marchi, una promozione a impiegato e una cerimonia di ringraziamento in cui gli studenti lo acclamarono come un eroe.
Durante gli interrogatori, i fratelli Scholl provarono a prendere su di sé tutte le colpe e salvare i compagni da morte certa, ma non furono creduti. A interrogarli fu l'agente della Gestapo Robert Mohr, il quale si accanì particolarmente su Sophie, torturandola per quattro giorni (dal 18 al 21 febbraio). Otto anni dopo Mohr scrisse in una memoria consegnata al padre dei fratelli Scholl di averlo fatto per spingerla a dare tutta la colpa al fratello, così che si potesse salvare la vita. Sophie non cedette però alle torture e fu mandata a processo insieme al fratello e a Probst.
Hans Scholl, Sophie Scholl e Christoph Probst furono processati il 22 febbraio 1943 dal Tribunale del Popolo presieduto da Roland Freisler. Per capire quale immane farsa fu il processo e quanto scontata fosse la condanna, basteranno brevi cenni sul tribunale e il giudice.
Il Tribunale de Popolo fu istituito da Hitler dopo l'incendio del Reichstag, con la giurisdizione prima sui soli processi politici e poi sempre più ampliata. In questo tribunale era quasi del tutto negato all'imputato il diritto alla difesa: i pubblici ministeri potevano fare ricorso per richiedere un inasprimento della pena, mentre l'imputato non poteva ricorrere in alcun caso contro una sentenza; l'avvocato della difesa non poteva essere scelto dall'imputato e le imputazioni venivano fornite sempre in grave ritardo (spesso poche ore prima del processo). Ad aggravare la posizione dei giovani Scholl e Probst ci fu la figura di Freisler, noto come "il boia di Hitler". Nei pochi anni in cui Freisler resse il Tribunale del Popolo, furono emanate 5300 condanne a morte; lui inoltre era solito umiliare gli imputati durante il dibattimento urlandogli contro e costringendoli a presentarsi alle udienze senza cinture e bretelle, così da renderli ridicoli. 
In quel tribunale e con quel giudice, la condanna alla decapitazione dei tre imputati fu una conseguenza logica e prevedibile. Stando alle testimonianze dei secondini, non mostrarono alcun segno di paura o pentimento e affrontarono la morte con grande coraggio.
Dopo la decapitazione dei fratelli Scholl e di Probst, nonostante essi non fecero i nomi degli altri, la Gestapo arrestò gli altri elementi primari e secondari della Rosa Bianca (che nel frattempo era cresciuta numericamente), mandandoli quasi tutti a morte dopo i processi farsa al Tribunale del Popolo.

La storia della Rosa Bianca, benché non ebbe un grande impatto sugli sviluppi politici e bellici, fu una grande storia di coraggio e un esempio di lotta non violenta. Fu anche la dimostrazione di come i giovani possano fuggire ai disvalori della prepotenza e della tirannide.
Essendo il gruppo spinto da ideali religiosi, i fratelli Scholl sono stati dichiarati martiri dalla chiesa cattolica, mentre Alexander Schmorell è stato canonizzato santo da quella ortodossa. 

Francesco Abate

lunedì 14 settembre 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "DUE VIVI E UN MORTO" DI SIGURD CHRISTIANSEN

 

Due vivi e un morto è uno dei romanzi più popolari dello scrittore norvegese Sigurd Christiansen, autore definito il Dostoevskij norvegese.
Pubblicato nel 1931, il romanzo impone un'attenta riflessione sul valore della vita e sul concetto che la società ha dell'eroismo.

Il romanzo si apre con una rapina a mano armata in un ufficio postale poco prima dell'orario di chiusura. Nell'ufficio sono presenti solo tre lavoratori. Kvisthus si imbatte per primo nei rapinatori e reagisce, finendo ucciso; anche Lydersen viene preso di sorpresa e viene colpito, ma per sua fortuna resta solo tramortito. L'ultimo a essere raggiunto è Berger che, a differenza dei colleghi, ha avuto il tempo di capire cosa stia accadendo e ha visto la sorte toccata al suo caro amico Kvisthus, quindi si arrende ai rapinatori e consegna la cassa senza reagire.
All'indomani del tragico evento, Berger si ritrova marchiato d'infamia mentre i suoi due colleghi sono visti come degli eroi. Lydersen, con cui non ha mai avuto un buon rapporto, ottiene anche dei vantaggi lavorativi nonostante sia in servizio da meno tempo di lui. Solo la moglie di Kvisthus, sentendo vivo il dolore per la morte del marito, ritiene quella di Berger la reazione più giusta e si chiede perché suo marito non abbia fatto lo stesso.
Il povero Berger si ritrova a dover affrontare anche i malumori della moglie. Lei è felice che lui sia sopravvissuto, ma soffre per la cattiva fama che ha acquistato presso la gente e finisce per soffocare il marito col proprio malessere.
Alla fine il protagonista inventa uno stratagemma per dimostrare che anche Lydersen, che si gode i vantaggi della nomea da eroe, se avesse avuto piena coscienza di ciò che stava accadendo avrebbe agito come lui.
Per conoscere nei dettagli il piano di Berger e l'esito finale, dovete leggere il libro.

Due vivi e un morto è un romanzo che tratta principalmente l'ipocrisia che avvolge il concetto di eroismo nella nostra società.
Berger viene etichettato come codardo perché ha ceduto la cassa senza combattere, nonostante i fatti dimostrino come un qualsiasi tentativo sarebbe stato inutile e avrebbe potuto solo causare un'altra tragedia. Tra la vanagloria e la vita, il protagonista ha fatto la scelta più ovvia e ha pensato a non restare ucciso. La società però non lo perdona, stigmatizza il suo comportamento e lo punisce, rovinandogli la vita e la carriera. 
Lydersen e Kvisthus vengono visti come eroi, eppure hanno combattuto solo perché non avevano ben compreso la reale portata del pericolo. Sono stati colti di sorpresa e hanno agito d'impulso; Berger invece ha avuto il tempo di valutare la situazione e ragionarci su, finendo per scegliere la salvezza. Più volte il protagonista sottolinea come i due cosiddetti eroi siano stati semplicemente incoscienti, forse un po' stupidi. Alla fine, quando anche Lydersen è costretto ad ammettere che nella situazione di Berger avrebbe agito come lui, che quindi agì diversamente solo perché non aveva capito la situazione, arriviamo a comprendere che l'eroismo inteso come sacrificio della vita è semplicemente una scelta stupida o comunque impulsiva, non ragionata: spesso ci ritroviamo a chiamare eroe un uomo avventato, mentre bolliamo come codardo uno che ha saputo ragionare e ha scelto la vita.
Il romanzo mostra poi anche il modo falso in cui la società celebra i suoi eroi: Kvisthus, morto per difendere la cassa, viene celebrato con funerali solenni e ricordato con rispetto, però nessuno si occupa della sua famiglia che si ritrova in condizioni di miseria. Si celebra l'eroe, si celebra l'atto di eroismo, ma non ci si preoccupa di chi ha subito le conseguenze di quell'atto. Il dolore della vedovanza e le tribolate condizioni economiche fanno sì che Eshter, la moglie di Kvisthus, capisca quanto sia stata più saggia la reazione di Berger. Solo quelli che dall'eroismo non vengono colpiti, che ne subiscono unicamente il fascino della retorica, lo percepiscono come virtù più preziosa della vita.

I personaggi principali dell'opera sono i tre dipendenti dell'ufficio postale, le mogli di Berger e Kvisthus, e Rognaas.
Berger è il protagonista assoluto, di cui Christiansen mostra nel dettaglio i travagli psicologici e le riflessioni. Si tratta di un uomo senza particolari qualità o difetti, un uomo comune, e davanti al pericolo ha la freddezza di scegliere la vita invece di un inutile sacrificio. Soffre molto per l'etichetta di codardo che gli affibbia la società, specialmente quando sente che anche sua moglie lo ritiene tale, e più volte medita di compiere qualche atto sconsiderato. Nonostante le pressioni che subisce, non cambia mai idea e resta sempre fermamente convinto di aver agito nel migliore dei modi durante la rapina.
Lydersen è l'antieroe della vicenda. Rimane ferito nella rapina, e da quel momento inizia la sua fortuna. Ostenta ciò che gli è accaduto perché felice di essere ammirato, ma allo stesso tempo è costantemente spaventato dall'idea che qualcuno non riconosca il suo eroismo. La vicenda gli porta notevoli vantaggi sul piano della carriera e sopravanza proprio Berger, con cui non ha mai avuto un buon rapporto. Alla fine si trova però costretto ad ammettere che reagì alla rapina solo perché preso di sorpresa; avendo modo di riflettere in una situazione di pericolo analoga sceglie anche lui la sopravvivenza.   
Kvisthus lo vediamo in azione solo durante la rapina in cui rimane ucciso. La sua importanza sta in ciò che rappresenta. Lui è il perfetto eroe, l'uomo che ha dato la vita per salvare qualcosa, e come tale viene celebrato e ammirato. Gli unici a non ammirare la sua scelta sono quelli che gli vogliono bene, Berger e la moglie, perché sentono le conseguenze e il dolore causati dalla sua morte. 
La moglie di Berger e quella di Eshter sono in perfetta antitesi. La prima è felice che suo marito non sia morto, ma soffre per l'etichetta di codardo che si è guadagnato e spesso arriva a chiedersi perché lui non abbia agito come gli altri due; la seconda invece soffre per la perdita del marito e ritiene senza dubbio che Berger abbia agito nel modo più giusto.
Rognaas lo conosciamo prima come coinquilino di Lydersen, poi come amico caro di Berger. Lui è il primo a contestare l'eroismo di cui viene vestito Lydersen e ritiene che Berger sia stato semplicemente più avveduto, non codardo. Si trova in sintonia con Berger non appena lo conosce perché come lui è tormentato; mentre il protagonista è torturato dal disagio per i torti subiti, Rognaas è divorato dai sensi di colpa.

Due vivi e un morto è un romanzo che ho scoperto per caso, scritto da un autore di cui non conoscevo l'esistenza.
Mi sono approcciato a questa lettura incuriosito dall'etichetta di Dostoevskij norvegese attribuita a Christiansen e posso dire di aver fatto un'ottima scelta.
Come Dostoevskij, Christiansen scruta nelle profondità dell'animo umano e ne rileva con attenzione i moti. A differenza dell'autore russo la sua scrittura è però più diretta e leggera, risultando così una lettura meno impegnativa e meno lenta. 
Molto interessante è poi la riflessione che scaturisce da questa lettura. Oggi si abusa del termine eroe, i media ci assediano con immagini di eroi, l'eroismo è un valore assoluto che la cultura e le arti celebrano come superiore alla vita stessa. Pensiamo all'aura che circonda coloro che si sacrificano per la patria, o per altre cose che la nostra cultura indica come valori positivi. Ebbene Christiansen solleva una questione sacrosanta: la vita è più importante di qualsiasi eroismo, perché è unica e niente può superarla in valore. Dice Berger: "Credo che non esista un solo essere il quale abbia donato la sua vita - sia pure per salvare quella d'un altro - che non tornerebbe volentieri indietro, una volta saputo il risultato". Il sacrificio della vita non è mai una scelta realmente consapevole, forse non è mai la scelta giusta.
Bellissimo anche il modo in cui l'autore segnala la falsità che circonda le celebrazioni degli eroi: i sopravvissuti hanno la fortuna di vedersi riconosciuti dei vantaggi, incuranti che questi si traducono in svantaggi per altri che non hanno colpe, quelli che ci lasciano la pelle invece incassano l'applauso e finisce lì.
Per la piacevolezza della lettura e per l'importanza dei temi trattati, vi consiglio caldamente questo romanzo.

Francesco Abate 

martedì 8 settembre 2020

ESTRATTO N°7 DEL ROMANZO "I PROTETTORI DI LIBRI"

 

Taipan rimase fermo a guardare quell'erbaccia piena d'immondizia e siringhe usate. Era improbabile che potesse esserci qualche tossico a quell'ora del giorno, però giudicò prudente dare un'occhiata in giro.
Il parco non era grande, ci mise poco a controllarlo tutto.
Trasalì quando vide che l'erba in un punto, scossa dal vento, si muoveva come se qualcosa ne tenesse schiacciata una gran quantità. Si avvicinò tenendo una mano posata sul pugnale che aveva infilato nei pantaloni, ma il vento gli portò al naso una puzza che lo rassicurò. Era puzza di carogna.
Quando poté vedere finalmente cosa schiacciava l'erba, trovò conferma alla sua intuizione: c'era un corpo senza vita sdraiato a terra. A giudicare dal colore, dal gonfiore e dalla puzza, doveva essere lì da qualche giorno. Aveva ancora la siringa infilata nel braccio sinistro, doveva essersi sentito male subito. Gli occhi erano chiusi e la bocca semiaperta. Taipan sorrise, non poteva essere un pericolo.
Si portò al centro del parco, dove l'erba era appiattita, dove si tenevano gli incontri tra spacciatori e clienti, e aspettò. A breve sarebbe arrivato Taurus, il suo diretto superiore.

***

Perché Taipan è andato al parco per incontrare Taurus, il suo superiore? Quale ordine riceverà? E perché Taurus è chiamato così? Cosa dirà il superiore dei massacri di cui si è macchiato Taipan?
A queste domande potrete avere risposta acquistando I Protettori di Libri su uno dei link che trovate andando in questa pagina. Il romanzo è disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.
Dopo averlo letto, non dimenticate di lasciare un commento sul blog, su Facebook o su Twitter.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

venerdì 4 settembre 2020

RECENSIONE DEL SAGGIO "SULLA VIOLENZA" DI HANNAH ARENDT

 

Sulla violenza è un saggio pubblicato nel 1970 dalla filosofa tedesca Hannah Arendt.
Tutti noi conosciamo la Arendt per il suo saggio La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963) in cui mostra come i nazisti, che furono capaci di torturare e uccidere milioni di persone, non furono dei mostri ma soltanto dei burocrati dall'aspetto tranquillo e i modi da uomo comune. Lei però fu molto prolifica e in questo saggio analizza la violenza e il suo legame col potere politico.

La Arendt inizia constatando come la violenza sia un fenomeno così radicato nella storia che fino ad allora nessuno aveva pensato di farne oggetto di studio. Chiunque avesse cercato di dare un qualche senso ai fatti storici era stato portato a vederla come un fenomeno marginale; fa gli esempi di Clausewitz, che definì la guerra "continuazione della politica con altri mezzi", e di Engels, che definì la violenza l'acceleratore dello sviluppo economico. I due esempi dimostrano come l'accento sia messo sulla continuità economica e politica, non sulla violenza in sé.
Intendendo la forza come l'energia sprigionata dai movimenti politici e sociali, la Arendt dichiara che la violenza è vicina alla forza perché tende coi suoi strumenti a moltiplicarla.

Molto interessante è lo studio della connessione tra violenza e potere politico.
Innanzitutto la Arendt spiega che è sbagliato considerare il potere come il mezzo attraverso cui un governo cerca di raggiungere un fine; il potere è il fine di sé stesso, cioè chi lo detiene lavora per mantenerlo e rafforzarlo.
Per alcuni la violenza è la massima manifestazione di potere, per altri è il potere a essere una forma di violenza istituzionalizzata. Sembrano però tutti d'accordo sullo stretto legame che c'è tra le due cose.
La Arendt ribalta questa concezione affermando che potere e violenza sono due concetti opposti, cioè dove uno domina l'altro è totalmente mancante. 
Secondo molti intellettuali il progresso tecnologico avrebbe reso impossibili le rivoluzioni, rendendo troppo schiacciante la superiorità di mezzi dei governi rispetto ai rivoluzionari. Eppure, osserva la Arendt, nel ventesimo secolo di rivoluzioni e guerre ce ne sono state tante, forse più che negli altri periodi storici, e spesso hanno avuto successo nonostante la superiorità di mezzi dei governi. Questo è successo perché il potere era in crisi mentre i ribelli erano compatti, quindi è stata la crisi del potere a scatenare la rivolta. 
Laddove invece è la violenza a sostituire completamente il potere, si arriva al terrore. La società viene tenuta atomizzata, viene impedita sul nascere la formazione di oppositori e la nascita di nuove forme di potere, si continua a governare usando solo la violenza. A differenza del semplice totalitarismo, il terrore si rivolge non solo contro i nemici, ma anche contro gli amici (furono un esempio le famose purghe staliniane), perché teme qualsiasi forma di potere.

Nel saggio la Arendt analizza anche un fatto storico contemporaneo per spiegare come la violenza produca i suoi effetti migliori quando alle spalle ha un sostegno popolare, quindi un potere.
Gli anni Sessanta e Settanta furono anni di rivolte universitarie. Lei constata come quelle degli studenti bianchi, che furono più ordinate e organizzate, raramente violente, ottennero risultati ben più scarsi di quelle degli studenti del Black Power, che furono molto più aggressive. La spiegazione che si dà al fenomeno è che le rivolte degli studenti neri avevano una forte base popolare alle spalle, infatti c'era l'intera comunità nera a sostegno degli studenti, invece gli studenti bianchi erano osteggiati dalle altre categorie sociali e non trovavano solidarietà.
Non ci si deve illudere però che la violenza sia la strada da seguire per ottenere i cambiamenti sociali. Ci tengo a specificare, cosa che la Arendt non dice ma che risulta ovvia per chiunque legge il saggio, che lei in alcun modo giustifica l'uso della violenza; lei fa un'analisi imparziale, non dà giudizi. A un certo punto però dice una cosa importantissima: la rivolta violenta può portare solo risultati a breve termine, ma nella maggior parte dei casi porta solo a un aumento costante della violenza.

Essendo un saggio che studia la violenza nel contesto del potere politico, non mancano da parte della Arendt valutazioni sui fatti storici e le loro conseguenze.
In un passaggio evidenzia come all'apice di importanza delle categorie sociali non ci siano più gli operai, ma gli scienziati e gli intellettuali, che sono stati i veri artefici del boom della produzione. Gli operai non appena vedono migliorate le condizioni di vita si imborghesiscono e difendono la società dei consumi, di cui non si sentono più vittime, perciò smettono di essere una classe rivoluzionaria. La vera classe rivoluzionaria per Hannah Arendt è quella degli intellettuali.

Nel corso della sua vita, sicuramente anche influenzata dalla sua esperienza personale, Hannah Arendt si è presa l'onere di studiare il male da diversi punti di vista: ci ha mostrato la "normalità" dei mostri, ha studiato i totalitarismi e ha spiegato la violenza.
Io credo sia molto importante la lettura di saggi come Sulla violenza perché non basta etichettare come cattivo un fenomeno per combatterlo, bisogna prima di tutto comprenderne la natura se si vuole estirparlo; come una malattia non si può curare se non si conosce prima la natura dell'organismo che la causa, così la violenza non può cancellare se non viene conosciuta a fondo.
Oggi viviamo in un mondo dove per tanti motivi la violenza è giustificata o comunque ne viene sottovalutata la gravità. Credo che la cultura sia l'unica strada da seguire per poter cambiare questa mentalità malata e per questa ragione la lettura di saggi come questo sia importantissima.

Francesco Abate