giovedì 20 febbraio 2020

COMMENTO AL CANTO XXIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Quando ambedue i figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l'orizzonte insieme zona,
quant'è dal punto che 'l cenit inlibra,
infin che l'uno e l'altro da quel cinto,
cambiando l'emisperio, si dilibra,
tanto, col volto di riso dipinto,
si tacque Beatrice, riguardando
fiso nel punto che m'aveva vinto.
Il canto XXIX inizia con Beatrice che in silenzio guarda nella luce di Dio, quella che aveva abbagliato Dante in precedenza (nel punto che m'aveva vinto). Per descrivere la brevità del momento in cui la donna tace e osserva, il poeta lo paragona a quello in cui il sole e la luna ("figli di Latona" è riferito ad Apollo e Diana) stanno a cavallo dell'orizzonte, equidistanti dallo zenit (cenit, dall'arabo), l'uno nella costellazione dell'Ariete e l'altra nella Bilancia (coperti del Montone e de la Libra), subito prima che l'uno sorga del tutto e l'altra tramonti definitivamente; per alcuni critici si tratta di meno di un minuto, per altri addirittura di un istante (interpretazione più plausibile, visto che si parla della perfetta equidistanza dallo zenit dei due astri), comunque parliamo di un tempo brevissimo.
Beatrice interrompe il silenzio dicendo che spiegherà delle cose a Dante senza chiedergli cosa voglia sapere, avendolo già visto in Dio, dove non esistono né il tempo né lo spazio (la 've s'appunta ogni ubi e ogni quando). Ciò detto, inizia un lungo discorso sull'opera della creazione: Dio creò non per assicurarsi un maggior bene, cosa impossibile essendo Lui il sommo bene, ma perché la sua bontà potesse determinare l'esistenza delle creature risplendendo in esse (perché suo splendore potesse, risplendendo, dir "Subsisto"); nella sua eternità, fuori da ogni tempo e ogni spazio (i quali nacquero con la creazione stessa), dischiuse il suo eterno amore in altri amori per propria volontà (come i piacque), non per necessità. Non bisogna credere, aggiunge, che prima della creazione Egli giacesse inoperoso, dato che il tempo non esisteva e per questo non ci fu un prima della creazione (concetto espresso da sant'Agostino nel De civitate Dei, il quale contestava la visione di un Dio inoperoso che crea come se fosse pentito del proprio ozio). Forma e materia, congiunte e pure, furono create prive di imperfezioni, come dall'arco a tre corde raggiarono le tre saette; in tre versi (vv. 22-24) sono espressi molti concetti: Beatrice sostiene che furono create prive di imperfezioni la forma (le intelligenze, quindi gli angeli) e la materia (il mondo sensibile); quindi gli angeli e il mondo sensibile furono creati insieme, andando con questa affermazione contro san Tommaso, il quale sosteneva che fossero stati creati prima gli angeli e poi il mondo sensibile; per quanto riguarda l'arco a tre corde, esso rappresenta la potenza, la sapienza e l'amore della Trinità, e scocca le tre saette che sono gli angeli, la materia pura del mondo sublunare e i cieli che sono nel mezzo. Beatrice continua dicendo che il triplice effetto della creazione (la nascita degli angeli, dei cieli e del mondo sensibile) fu istantaneo così come un raggio di luce illumina immediatamente un vetro, un cristallo o un corpo d'ambra. Create insieme furono le sostanze e il loro ordine (Concreato fu ordine e costrutto a le sustanze): in cima furono poste quelle sostanze create come atto puro (gli angeli), la pura potenza (il mondo sensibile) fu posta più in basso (tenne la parte ima), e nel mezzo Dio strinse la potenza e l'atto in modo che non si potessero più separare (furono creati i cieli); san Girolamo scrisse in un trattato che gli angeli erano stati creati molti secoli prima del mondo sensibile, ma la verità che lei sta spiegando si trova in molte parti delle Sacre Scritture (in molti lati da li scrittor de lo Spirito Santo) e lui se ne accorgerà leggendole con attenzione, inoltre anche la ragione può capire che è così, essendo inammissibile che le intelligenze (i motori) siano restate tanto tempo senza operare e giungere alla perfezione. Conclude questa prima parte del discorso dicendo a Dante che adesso sa dove, quando e come gli angeli furono creati; già tre fuochi del suo desiderio sono spenti, cioè ha già avuto risposta a tre domande.
Dopo aver parlato della creazione degli angeli, Beatrice spiega a Dante della loro ribellione. Non passò il tempo necessario a contare fino a venti, che parte degli angeli sconvolse la terra ('l soggetto de' vostri elementi) con la propria caduta; gli altri rimasero e cominciarono a girare intorno a Dio (quest' arte che tu discerni) con una tale gioia da non smettere mai. La causa della caduta fu la maledetta superbia di colui (Lucifero) che Dante ha visto schiacciato al centro della Terra dal perso di tutto l'universo. Gli angeli che vede lì furono umili (modesti) e riconobbero la bontà che li aveva creati capaci di capire misteri così profondi (furon modesti a riconoscer sé da la bontate che li avea fatti a tanto intender presti); le loro viste furono esaltate dalla grazia illuminante di Dio e dal loro merito, perché hanno volontà ferma e piena. Beatrice spiega di volere che Dante non abbia dubbi, gli conferma che la grazia si riceve per merito, a seconda della maggiore o minore disposizione ad accoglierla. Conclude poi dicendo che ormai lui può capire molte cose degli angeli (questo consistorio) senza altro aiuto, se ha ben compreso le sue parole. 
Siccome però sulla Terra nelle scuole di teologia si insegna che la natura angelica è tale da capire, ricordare e volere (l'angelica natura è tal, che 'ntende e si ricorda e vole), lei parlerà ancora affinché lui veda la pura verità, che sulla Terra si confonde con questi insegnamenti: queste sostanze (gli angeli) furono subito felici di guardare la faccia di Dio, in cui ogni cosa è svelata, e non volgono mai da questa lo sguardo, per questo motivo la loro visione non è mai interrotta da un nuovo oggetto e perciò non hanno bisogno di ricordare. Sulla Terra si sogna a occhi aperti quando si sostengono certe tesi; alcuni lo fanno in buona fede, altri ingannano sapendo di ingannare, e questi ultimi sono i più colpevoli. A questo punto Beatrice muove una critica: gli uomini non seguono nel filosofare tutti la stessa via, alcuni infatti si lasciano deviare dal desiderio di apparire ingegnosi, e questi comunque sdegnano meno il cielo rispetto a quelli che pospongono le Sacre Scritture alla filosofia o rispetto a quelli che ne stravolgono il significato ("E ancor questo qua sù si comporta / con men disdegno, che quando è posposta / la divina scrittura, o quando è torta"). Non si pensa al sangue che hanno versato Cristo e i martiri per diffondere le Scritture e non si pensa a quanto piaccia a Dio chi si accosta alla sua parola con umiltà; ognuno per fare bella figura (per apparer) lavora di fantasia a proprio capriccio, le nuove pseudo-verità sono diffuse dai predicatori e viene taciuto il vero contenuto del Vangelo. Qualcuno, continua Beatrice, dice che durante la crocifissione di Cristo la luna invertì il suo percorso e si mise davanti al sole, generando un'eclissi, ma mente perché la luce solare si oscurò da sola, infatti l'eclissi fu vista dagli spagnoli e dagli indiani, oltre che dai giudei (fu vista in tutto il mondo, mentre seguendo la teoria del "ritorno" della Luna, accolta tra gli altri da san Tommaso d'Aquino, si sarebbe dovuta vedere solo in alcune regioni). A Firenze non ci sono tanti Lapi e Bindi (due nomi molto comuni nella città all'epoca) quante sono le favole che ogni anno dai pulpiti si gridano ovunque, così che i fedeli meno istruiti (le pecorelle che non sanno) si riempiono la testa di parole vuote e inutili (tornan del pasco pasciute di vento), e non li scusa il non essere consapevoli della falsità di ciò che hanno udito (e non le scusa non veder lo danno). Beatrice continua ricordando che Cristo non disse agli apostoli di andare e predicare ciance, ma diede loro il vero fondamento del Vangelo, il quale suonò dalle loro guance e fu nelle loro battaglie per la fede sia lo scudo che la lancia. Adesso si predica con invenzioni spiritose (motti) e beffe (iscede), e non si vuole altro che gonfiare di orgoglio il predicatore (e pur che ben si rida, gonfia il cappuccio, e più non si richiede). Ma se la gente vedesse l'uccello che si annida nel cappuccio di questi falsi predicatori (il demonio gioisce della loro predicazione che allontana la gente dalla verità di Cristo), capirebbe il valore nullo delle indulgenze che questi promettono e in cui loro confidano; per mezzo di questi predicatori è cresciuta sulla terra tanta stoltezza fa far correre la gente dietro ogni promessa senza che vi sia alcuna approvazione dell'autorità ecclesiastica (sanza prova d'alcun testimonio). L'accusa di Beatrice diventa poi più diretta: di queste indulgenze fasulle (moneta senza conio) si ingrassano l'ordine dei monaci Antoniani e altri monaci ancora più porci (l'accostamento nasce perché nell'iconografia cristiana sant'Antonio viene raffigurato con un maiale, inoltre i monaci Antoniani nel Medioevo allevavano un maiale per poi venderlo durante le celebrazioni dedicate al santo, così da finanziare le spese dell'ordine).
Finita la sua invettiva contro i falsi predicatori, Beatrice invita Dante a prestare di nuovo attenzione agli angeli (la dritta strada) affinché l'ultima parte della trattazione sia veloce (sì che la via col tempo si raccorci). L'ultima questione su cui si pronuncia è il numero degli angeli: questo aumenta di grado in grado (s'ingrada in numero) a tal punto da non essere esprimibile con le parole e non essere comprensibile coi concetti della mente umana, tanto che Dante, leggendo ciò che rivela Daniele nella Bibbia, si accorgerà che il loro numero non è rivelato, bensì è celato. La luce di Dio illumina (raia) la natura angelica ed è in essa ricevuta in tanti modi diversi quanti sono gli angeli in cui si riflette; siccome la forza dell'amore degli angeli è proporzionale alla grazia, essi amano con intensità diversa a seconda della visione che hanno di Dio (d'amar la dolcezza diversamente in essa ferve e tepe). Ormai Dante vede, conclude Beatrice, l'eccellenza e la grandezza di Dio (etterno valor), la cui luce si spezza in tanti specchi eppure mantiene inalterata la propria unità.

Francesco Abate     


sabato 15 febbraio 2020

RECENSIONE DE "LA REPUBBLICA INQUIETA" DI GIOVANNI DE LUNA

Gli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale furono ricchi di tensioni e contraddizioni. Il paese cercava di ripartire dopo anni di dittatura e guerra che l'avevano distrutto.
Queste tensioni e queste contraddizioni sono analizzate dallo storico Giovanni De Luna nel suo libro La Repubblica inquieta. L'Italia della Costituzione. 1946-1948.

Giovanni De Luna è uno dei più importanti storici contemporanei, insegna storia presso la Scuola di studi superiori dell'Università di Torino, collabora in qualità di consulente con alcune trasmissioni RAI e scrive per il quotidiano La Stampa.
Nella sua attività di storico, De Luna è sempre molto attento nell'analizzare gli stati d'animo collettivi che agitavano periodi cruciali della storia d'Italia a partire dalla Resistenza fino ai terribili anni di piombo.

In questo libro l'autore mostra e analizza i fatti salienti che animarono il nostro paese tra il 1946 e il 1948, quindi subito dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra. La fotografia che ci mostra è quella di un paese profondamente ferito, diviso tra gli eroi della Resistenza, che speravano nella nascita di una nuova politica incentrata sui valori che avevano animato la lotta partigiana, e i politici, il cui unico obiettivo era il ritorno a un normale funzionamento delle istituzioni democratiche.
De Luna racconta la disillusione dei partigiani che, messi progressivamente da parte, videro svanire il loro sogno di un'Italia guidata dai valori della Resistenza. Ci fa vedere come questa disillusione in alcuni casi isolati si trasformò in rabbia ed esplose in tentativi sovversivi.
L'analisi di quel periodo storico ci mostra anche la funzione fondamentale che i partiti politici assunsero dopo la fine della dittatura, diventando il collegamento diretto tra i cittadini e lo Stato, incaricandosi così di un fondamentale ruolo di mediazione.
Particolarmente accurata e interessante è l'analisi che De Luna fa delle agitazioni causate dal ribaltone del quarto governo De Gasperi, in cui la DC per la prima volta mise il PCI all'opposizione e innescò un crescendo di tensioni il cui culmine si ebbe dopo l'attentato a Palmiro Togliatti. Molto suggestive sono le pagine che raccontano lo stato d'animo del popolo comunista quando il segretario del PCI fu ferito, così come viene accuratamente descritta la confusione del partito e la sua difficoltà nel gestire la rabbia che rischiava di trasformarsi in rivolta.

In quest'epoca in cui chiunque stravolge la storia a proprio piacimento, libri come La Repubblica inquieta diventano letture fondamentali. In queste pagine vengono presentati i fatti storici, i quali poi vengono analizzati accuratamente così da permettere al lettore di comprendere il clima politico e sociale dell'epoca. Per completare la lettura di quegli anni difficili, l'autore non si affida solo ai documenti, ma anche agli scritti e alle dichiarazioni di chi li visse sulla propria pelle. Chiunque ami non solo la conoscenza storica, ma anche l'approfondimento grazie al quale diventa possibile comprenderla appieno, troverà molto piacevole la lettura di questo testo.
Da segnalare la capacità dell'autore, Giovanni De Luna, che riesce a descrivere i fatti e ad approfondire gli stati d'animo da cui erano scatenati e che scatenavano senza mai diventare pesante. Leggere La Repubblica inquieta è come fare una chiacchierata con chi conosce appieno il dopoguerra e condivide con noi le proprie nozioni. Un libro importante, delicato, ma che si legge piacevolmente in una serata di relax davanti al camino.

Francesco Abate

lunedì 10 febbraio 2020

COMMENTO AL CANTO XXVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Poscia che 'ncontro a la vita presente
de' miseri mortali aperse 'l vero
quella che 'mparadisa la mia mente,
come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n'alluma retro,
prima che l'abbia in vista o in pensero,
e sé rivolge, per veder se 'l vetro
li dice il vero, e vede ch'el s'accorda
con esso come nota con suo metro;
così la mia memoria si ricorda
ch'io feci, riguardando ne' belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.
Il canto XXVIII inizia con Dante che vede una luce negli occhi di Beatrice, colei che ha elevato la sua mente alla beatitudine celeste (quell che 'mparadisa la mia mente) parlando contro la corruzione dei mortali e mostrandogli così la verità (che 'ncontro a la vita presente de' miseri mortali aperse 'l vero). Vede questa luce riflettersi negli occhi della donna, quegli occhi con cui Amore lo ha legato, e fa come l'uomo che vede riflettersi nello specchio la luce di una torcia (doppiero, dal latino duplerius) e si volta per vedere se lo specchio gli rivela la vera sorgente luminosa. Negli occhi di Beatrice si era specchiato già il Grifone, che rappresentava Gesù Cristo, adesso fa lo stesso l'abbagliante luce di Dio, perché la teologia è l'unico mezzo per conoscere la natura della Trinità.
Non appena Dante si volta, i suoi occhi vengono colpiti da ciò che si vede nel Primo Mobile (quel volume; i cieli erano chiamati volumi del mondo) quando in esso si guarda con attenzione; vede un punto raggiare una luce così intensa da costringere l'osservatore a chiudere gli occhi, è tanto luminoso che anche la stella che noi vediamo più piccola nel cielo sembrerebbe la luna se collocatagli vicino come sono vicine due stelle nel cielo (e quale stella par quinci più poca, parrebbe luna, locata con esso come stella con stella si colloca). Vede poi un cerchio di fuoco distante dal punto tanto quanto appare distante l'alone (alo) che circonda la luce di un astro quando la nebbia di cui è formato è più densa (quando 'l vapor che 'l porta più è spesso); questo cerchio gira in maniera tanto veloce da superare la velocità del Primo Mobile, il cielo che racchiude l'universo intero (che più tosto il mondo cigne). Il cerchio è circondato da un altro e così il secondo, il terzo, il quarto, il quinto e il sesto; c'è n'è poi un settimo, così ampio da non poter essere contenuto nell'arcobaleno (messo di Iuno). Vede anche l'ottavo e il nono cerchio e nota che ciascuno si muove più lentamente quanto più distante è dal centro. Nota anche che il cerchio più vicino al punto luminoso brilla di più e suppone che ciò accada perché vede e conosce di più la natura di Dio (che più di lei s'invera). La struttura che Dante vede è un punto luminoso al centro circondato da nove cerchi di fuoco. La rappresentazione di Dio come di un punto al centro di un cerchio non è affatto casuale, ci dice infatti che Egli è perfezione (il cerchio è perfetto e il centro è equidistante da ogni punto), è indivisibile, immateriale, immobile ed eterno.
Beatrice vede Dante intento a ragionare (in cura) circa la natura di quel che vede e gli spiega che da quel punto dipendono la costituzione dei cieli e il loro influsso sulla natura (lo fa riprendendo l'espressione di Aristotele ex tali principio dependet coelum et natura e sostituendo al termine principio la parola punto, così da restare coerente coi versi precedenti), lo invita poi a osservare il cerchio più vicino al centro e dice che si muove così velocemente perché stimolato dal ferventissimo desiderio (affocato amore) di Dio. 
Dante manifesta però un dubbio: se l'universo fosse disposto secondo lo stesso ordine che osserva in quei cerchi, sarebbe pago della spiegazione di Beatrice, ma nel mondo sensibile i cieli (le volte) sono tanto più infiammati dall'amore divino quanto più sono distanti dal centro (la Terra); se il suo desiderio di sapere deve essere appagato nel Primo Mobile (in questo miro ed angelico tempio) che ha per confine solo l'amore e la luce di Dio, chiede alla guida di spiegargli perché il modello (i cerchi che sta osservando) non concorda con l'essemplare (il mondo sensibile), perché lui con la sua ragione non riesce a spiegarselo.
Beatrice afferma di non meravigliarsi che le dita del poeta non siano adatte a sciogliere quel nodo, diventato strettissimo (fatto sodo) perché nessuno ha mai tentato di scioglierlo; questa introduzione cela una critica di Dante alla teologia, rea di aver trascurato una questione così importante. Lo invita poi ad ascoltare la sua spiegazione e a rafforzare con essa il proprio ingegno (da esso t'assottiglia). Beatrice spiega che i cieli sono ampi o stretti (arti) a seconda della maggiore o minore virtù che si diffonde in ogni loro parte, perché maggiore è la bontà e più vuole diffondere il suo benefico influsso, e più si estende l'influsso più deve essere grande il cielo (maggior salute maggior corpo cape) se è perfetto in tutte le sue parti; il Primo Mobile, che trascina (rape) nel suo moto tutto l'universo, corrisponde al cerchio più infiammato di amore e di sapienza (quello più vicino a Dio); se Dante, conclude, smette di guardare alla dimensione dei cieli e si concentra sulla virtù che li anima, vedrà la corrispondenza tra ciascun cielo e l'intelligenza angelica che lo muove.
Come la metà del cielo che ci circonda (l'emisperio de l'aere), che viene rasserenato quando Borea soffia dalla guancia da cui scaturisce il vento più dolce, la tramontana, e rimuove le scorie (roffia) che prima lo offuscavano (si riferisce alle nubi), così si sente Dante dopo che Beatrice ha tolto il dubbio dalla sua mente: nel cielo vede la stella della verità splendere così come gli astri nel cielo ripulito. 
I cerchi, non appena Beatrice smette di parlare, sfavillano come il ferro incandescente battuto dal maglio. Ogni scintilla, cioè ogni angelo, si muove nel proprio cerchio (L'incendio suo seguiva ogni scintilla) e queste sono così tante che il loro numero s'inoltra nelle migliaia e giunge a un numero più grande della progressiva duplicazione delle caselle degli scacchi ('l numero loro più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla). Li sente di coro in coro osannare il punto fisso che li lega alle proprie sedi (li tiene a li ubi) dove sempre sono stati e dove resteranno per sempre (perché Dio è eterno e loro mai si sazieranno di Lui). 
Beatrice vede i pensieri incerti di Dante e interviene con una nuova spiegazione. L'incertezza del poeta è dovuta al fatto che la Bibbia indica varie tipologie di angeli, ma circa la loro gerarchia la teologia non era riuscita a produrre un'opinione comune. Spiega che i primi due cerchi mostrano rispettivamente i Serafini e i Cherubini, i quali seguono tanto velocemente il loro legame d'amore con Dio (i suoi vimi) per somigliargli quanto più possibile e possono somigliargli più degli altri perché sono più in alto nella gerarchia angelica (e la loro visione di Dio è più elevata). Il terzo ordine di angeli che gira intorno a Dio (Quelli altri amor che 'ntorno li vonno) è quello dei Troni, seggi da cui risplende l'aspetto divino, ed è quello che chiude la prima gerarchia. Deve sapere, dice Beatrice, che essi hanno tanto più diletto quanto più profonda è la loro visione di Dio, il vero che appaga ogni intelligenza (vero in che si queta ogni intelletto): da questo si può vedere che la beatitudine è generata dal vedere Dio, non dall'amarlo, perché l'amore è successivo alla visione; la visione di Dio è misura del merito della creatura angelica, il quale è dovuto alla grazia che Dio dona liberamente. La seconda terna di ordini (L'altro ternaro), che germoglia in questa eterna primavera che l'autunno (notturno Ariete) non interrompe, canta perpetuamente "Osanna" con tre diverse melodie cantate dai tre ordini di letizia. Nella seconda gerarchia ci sono le altre intelligenze: Dominazioni, Virtù e Potestà. Girano nei due cerchi successivi i Principati e gli Arcangeli, l'ultimo è degli Angeli festanti. Questi ordini guardano tutti verso Dio (di su tutti s'ammirano) e attirano a sé il mondo sensibile, così che sono tirati verso Dio e tirano il mondo verso di sé. Dionigi l'Aeropagita si mise a contemplare i cerchi angelici con desiderio e descrisse i nomi e gli ordini così come ha fatto lei, poi san Gregorio Magno si scostò dalla descrizione di Dionigi, ma non appena aprì gli occhi e vide la verità rise di sé stesso. Beatrice conclude dicendo a Dante che non deve stupirsi se Dionigi, un mortale, poté descrivere con precisione le gerarchie angeliche (tanto secreto), le quali non si possono conoscere con la ragione; a lui fu infatti tutto rivelato da colui che vide gli ordini angelici e altre verità che li riguardano.

Terminato il commento del canto, occorre fare un po' di ordine circa la sistemazione delle gerarchie angeliche.
Secondo la teologia del tempo, fondata sul De coelesti hierarchia, opera erroneamente attribuita a Dionigi l'Aeropagita, c'erano nove ordini di angeli divisi in tre gerarchie. Dante nel Convivio aveva già affrontato il tema, accogliendo in parte le variazioni operate da papa Gregorio Magno, quindi aveva così ipotizzato il loro ordine: Serafini, Cherubini, Potestà, Principati, Virtù, Dominazioni, Troni, Arcangeli, Angeli. In questi versi della Commedia Dante fa però un passo indietro e accoglie totalmente la gerarchia attribuita a Dionigi.
Negli ultimi versi Beatrice spiega poi che non c'è modo di arrivare a definire la gerarchia angelica attraverso la ragione, quindi non ha senso filosofare intorno a essa, si può solo con la rivelazione; perciò è riconosciuta come veritiera la teoria di Dionigi, perché egli fu convertito al cristianesimo da san Paolo e per questo la conobbe dal racconto di chi, prima di Dante, aveva avuto il privilegio di salire in Paradiso da vivo e vederle di persona. La marcia indietro del poeta e l'accettazione totale della gerarchia espressa da Dionigi è perciò una resa dell'indagine filosofica alla rivelazione, unica vera lente che permette di vedere dentro le cose celesti.

Francesco Abate
  

mercoledì 5 febbraio 2020

ESTRATTO N°4 DEL ROMANZO "I PROTETTORI DI LIBRI"

Lo sbarco fortunatamente era stato più semplice del previsto, la Marina Italiana non si aspettava una manovra tanto rischiosa da parte dei nemici, e non aveva presidiato bene i propri porti.
Riuscito con successo lo sbarco, Epancin aveva fatto stabilire il campo base nel porto occupato e aveva pensato di fermare le truppe lì nell’attesa che arrivasse il supporto aereo.
Le notizie che arrivavano dalla madrepatria gli fecero però capire che bombardamenti in appoggio delle truppe di terra in Italia non sarebbero arrivati presto. Gli americani, infatti, avevano previsto questo tipo di manovra e avevano aumentato notevolmente il controllo dei cieli italiani. Di colpo i russi si trovarono isolati in territorio straniero.
Epancin sapeva di trovarsi in una situazione molto pericolosa. Sicuramente gli americani, predisposta una solida difesa contro eventuali attacchi aerei, avrebbero mandato truppe di terra a liberare il porto dai nemici occupanti. Non c’era bisogno di essere un genio delle tattiche militari per prevedere che presto i russi si sarebbero trovati a fronteggiare truppe molto più numerose, con l’aggravante di avere il mare alle spalle. Era chiaro che, rimanendo lì, sarebbero stati presto eliminati.

***

Volete sapere se i russi e il colonnello Epancin riusciranno a salvarsi la vita? La loro missione tanto rischiosa come farà cambiare la guerra?
Scoprirlo è semplice, basta acquistare I Protettori di Libri su uno dei link che trovate andando a questa pagina. Il romanzo è disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.
Dopo averlo letto, non dimenticate di lasciare un commento sul blog, su Facebook o su Twitter.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate 

lunedì 3 febbraio 2020

COMMENTO AL CANTO XXVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

"<<Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo>>,
cominciò, <<gloria!>>, tutto il paradiso,
sì che m'inebriava il dolce canto.
Il canto XXVII inizia con le anime dei beati che lodano la Trinità. Quel dolce canto a Dante sembra una rivelazione di gioia dell'intero universo e la sensazione di piena soddisfazione entra in lui attraverso l'udito e la vista (lo viso). L'autore a questo punto si lascia andare a una serie di esclamazioni che accentuano il suo stato di beatitudine e loda prima l'allegria impossibile da descrivere (ineffabile allegrezza), poi la vita perfetta (integra) fatta di pace e amore, infine la ricchezza sicura generata dal possesso di Dio e per questo priva di desiderio (sanza brama). 
Davanti al poeta stanno le quattro luci (san Pietro, san Giacomo, san Giovanni e Adamo) e quella di san Pietro, la prima che si era manifestata, diventa più intensa e passa dal bianco al rosso vivo. Per descrivere questa scena, l'autore immagina l'argenteo Giove e il rosso Marte come due uccelli che si scambiano le penne: la mutazione di san Pietro è paragonabile a quella che subirebbe in tal caso Giove ("e tal ne la sembianza sua divenne, / qual diverrebbe Giove, s'elli e Marte / fossero augelli e cambiassersi penne"). 
La Provvidenza, che nel cielo assegna a ciascuno il proprio compito (che quivi comparte vice ed officio), fa scendere il silenzio nel coro dei beati, così che Dante possa udire le parole di san Pietro. Il santo lo invita a non meravigliarsi del suo cambio di colore perché, una volta che avrà fatto la sua invettiva, anche gli altri beati lo cambieranno; ciò detto, parla di colui che ha usurpato la sua carica di capo della Chiesa (si riferisce a Bonifacio VIII, che fu accusato di aver comprato la carica e per questo Dante lo colloca all'Inferno tra i simoniaci), istituzione a cui ora manca la presenza di Gesù Cristo, e ha reso il Vaticano (cimitero mio) una fogna dove si raccolgono il sangue e il fetore, rendendo soddisfatto Lucifero ('l perverso che cadde di qua su). Circa l'invettiva di san Pietro vanno fatte alcune considerazioni. Alcuni critici non credono che Dante accolse come veritiere le accuse circa l'elezione illegittima di Bonifacio VIII, convinti che usando il termine usurpa volesse semplicemente indicarlo come indegno della carica, ma non dobbiamo dimenticare che nell'Inferno Bonifacio VIII è atteso tra i simoniaci, e che si parla di lui nel canto XIX come di colui che prese la bella donna (la Chiesa) con l'inganno; se in questi versi c'è una posizione non netta, nell'Inferno la collocazione credo che chiarisca l'idea del poeta sulla legittimità di Bonifacio VIII. C'è poi da sottolineare come nelle parole di san Pietro, oltre che all'usurpazione della carica, ci sia un riferimento alle guerre (sangue) e alla corruzione (puzza). Non è poi marginale il fatto che l'invettiva del santo sia stata introdotta da un silenzio imposto dalla Provvidenza, come l'autore ci tiene a sottolineare nel verso 16, a significare come l'accusa sia il frutto della diretta volontà di Dio.
Come san Pietro aveva anticipato, tutte le anime cambiano in rosso il colore della luce, richiamando alla mente del poeta le nubi che all'alba e al tramonto, colpite dai raggi del sole, diventano di colore rosso porpora. Beatrice fa come la donna retta, la quale resta ferma nella sua rettitudine ma si imbarazza ascoltando i peccati altrui; anche lei cambia sembianza (questi versi fanno pensare che anche la sua luce diventa rossa, come chi arrossisce di vergogna, ma altri critici ritengono che impallidisca). L'eclissi del cielo dev'essere la stessa, immagina Dante, che ci fu quando morì Gesù. 
Ricomincia a parlare san Pietro, con una voce tanto sdegnata da non richiedere più alcuna variazione della luce (la voce esprime lo stato d'animo perfettamente). Dice che la sposa di Cristo (la Chiesa) non fu costruita col sangue suo e dei suoi successori (Lino e Anacleto furono i due pontefici che lo succedettero e furono entrambi martiri) per essere usata al fine di ottenere ricchezze; cita poi altri papi (Sisto, Pio, Callisto e Urbano), dicendo che subirono il martirio per giungere all'eterna beatitudine. La loro intenzione, continua, non era dividere il popolo cristiano per fazioni politiche, nemmeno che le chiavi segno dell'autorità apostolica diventassero simbolo su un vessillo usato nella guerra contro altri cristiani (nel 1229 Gregorio IX introdusse le chiavi sulla bandiera dell'esercito pontificio durante la guerra contro Federico II), e nemmeno che la sua immagine fosse usata come sigillo per l'attribuzione di privilegi falsi e corrotti che causano la sua vergogna e il suo sdegno. Il discorso continua col santo che lamenta come i pastori siano diventati lupi che occupano tutti i pascoli (riferimento agli uffici ecclesiastici), poi invoca il soccorso (difesa) di Dio e chiede perché ancora non interviene. Cita poi papa Giovanni XXII (Caorsini, perché nativo di Cahors) e Clemente V (Guaschi, perché guascone), i quali si apprestano a bere il sangue dei primi martiri (a nutrirsi dei privilegi acquisiti illecitamente con la carica), e con un'esclamazione si lamenta del fine vile per cui viene usata la Chiesa. Il suo discorso lo termina con una profezia: la Provvidenza divina, che fece vincere Scipione a Zama e consegnò all'impero romano la gloria, interverrà presto. Fatto il suo discorso, esorta Dante a rivelare tutto ciò che ha detto una volta tornato sulla Terra. 
Dante vede le anime muoversi verso l'alto come i fiocchi di neve cadono verso il basso quando il sole è in congiunzione con la costellazione del Capricorno (il corno de la capra del ciel). Segue l'ascesa delle anime con lo sguardo finché il troppo spazio ('l mezzo, dal latino medium) che si frappone tra lui e loro non li fa sparire dalla sua vista. Beatrice, che lo vede intento a guardare in alto, lo invita a guardare in basso e notare il giro che ha compiuto nel cielo. Lui guarda e si accorge che dalla prima volta in cui aveva guardato ha compiuto un arco di novanta gradi (i' vidi mosso me per tutto l'arco che fa dal mezzo al fine il primo clima - per gli antichi l'emisfero si divideva in sette climi), così adesso vede lo stretto oltre Cadice (Gade, si riferisce allo stretto di Gibilterra) che Ulisse scelse follemente di varcare, mentre dall'altro lato vede le spiagge dove Giove, trasformato in toro, fu cavalcato da Europa (la Fenicia). Potrebbe vedere anche di più, ma il sole dista da lui più di un segno zodiacale e le altre regioni sono in ombra; Dante si trova nella costellazione dei Gemelli, il sole nell'Ariete, quindi tra loro c'è l'intero Toro e parte dell'Ariete. 
La mente di Dante, che vagheggia sempre Beatrice, desidera ardentemente di riportare gli occhi su di lei; quando lui asseconda questo desiderio, si accorge che lo splendore della donna fa sembrare niente tutte le opere della natura espresse nei corpi umani e nella pittura, che seducono gli occhi e la mente. La virtù che lo sguardo della donna fa nascere in lui, lo stacca dalla costellazione dei Gemelli (bel nido di Leda - secondo la tradizione Castore e Polluce, che danno il nome alle principali stelle della costellazione, nacquero da un uovo generato da Leda dopo un rapporto con Zeus mutato in cigno) e lo eleva fino al cielo superiore, quello del Primo Mobile. Le parti vivissime ed eccelse di questo cielo sono così uniformi da non fargli capire da quale punto Beatrice l'abbia fatto accedere. Lei sente il desiderio di sapere del suo protetto e comincia a spiegare, illuminandosi di un sorriso così lieto da far sembrare che Dio in esso gioisse. 
Beatrice inizia spiegando il funzionamento di questo nono cielo: la natura della Terra, che sta immobile al centro dell'universo mentre intorno tutto gira, è regolata da leggi è strutture che qui cominciano; questo cielo non è situato in alcun luogo, non è circoscritto da nient'altro, è circondato solo dall'Empireo da cui hanno origine l'amore che lo muove e la virtù che irradia agli altri cieli. L'Empireo, spiega poi, comprende come in un cerchio il cielo cristallino così come quest'ultimo comprende gli altri cieli, e la sua natura è nota solo a Dio. Il moto del Primo Mobile, aggiunge Beatrice, non è misurato dai cieli inferiori, ma i moti degli altri cieli a questo sono commisurati, come il dieci col cinque e col due. Ormai a Dante può essere chiaro, dichiara, come il tempo tenga nel Primo Mobile le radici e nei cieli inferiori le foglie. 
Data la spiegazione circa la natura del Primo Mobile, Beatrice si lamenta della cupidigia umana, che fa sprofondare così tanto i mortali da rendergli impossibile la vista della legge celeste. Non è che non fiorisca negli uomini la virtù, dichiara ancora, ma la continua pioggia (le tentazioni) trasformano le susine in bozzacchioni (susine deformate e vuote). Fede e innocenza si trovano solo nei pargoli, che l'hanno ricevuta col battesimo, ma vengono perse prima dell'età adulta, quando le guance si coprono con la barba. Passa poi a esprimersi con metafore: molti, ancora pargoli balbettanti, digiunano, per poi divorare avidamente qualunque cibo in qualunque parte dell'anno (anche in quaresima) non appena hanno la parlata sciolta; molti da piccoli amano la madre e l'ascoltano, poi crescono e desiderano di vederla morta (tanta è la corruzione da far dimenticare perfino l'amore materno). Così, commenta Beatrice, la pelle che è bianca all'alba diventa nera al tramonto (chi nasce puro muore corrotto); circa la metafora espressa nella terzina 136-138 le interpretazioni sono tantissime e piuttosto varie, specialmente tante sono le interpretazioni circa la natura de la bella figlia. Beatrice dice poi a Dante che non deve meravigliarsi del fatto che la natura umana si corrompa in modo tanto grave, è una logica conseguenza della mancanza di una guida. Conclude il suo discorso con una profezia: prima che gennaio finisca tutto fuori dall'inverno per via della parte centesimale del giorno trascurata nel calcolo dell'anno, questi cieli irradieranno i loro influssi benefici e genereranno la tanto attesa fortuna, che cambierà la rotta del genere umano (per alcuni critici della sola Europa cristiana), e il fiore tornerà a produrre il vero frutto (viene ripresa la metafora della susina). Per spiegare al meglio la profezia di Beatrice, è necessario spiegare perché viene immaginato che gennaio uscirà fuori dall'inverno. Ai tempi di Dante l'anno era misurato ancora con calendario giuliano, durava perciò 365 giorni e 6 ore, e ogni anno veniva allungato di 12 minuti: Dante calcolò che, continuando ad addizionare i 12 minuti ogni anno, nel giro di una novantina di secoli gennaio sarebbe diventato il mese d'inizio della primavera. Tale imprecisione fu poi corretta con l'avvento del calendario gregoriano, introdotto da Gregorio XIII nel 1582. La profezia perciò inizia con Beatrice che, per dire che non c'è da aspettare molto prima che la fortuna giri, dice che succederà prima dello spostamento di gennaio in primavera.

Francesco Abate