giovedì 22 novembre 2018

COMMENTO AL CANTO XII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Di pari, come buoi che vanno a giogo,
m'andava io con quell'anima carca,
fin che 'l sofferse il dolce pedagogo.
Ma quando disse: << Lascia lui e varca;
ché qui è buono con l'ali e coi remi,
quantunque può, ciascun pinger sua barca >>;
dritto sì come andar vuolsi, rife'mi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi.
Dante procede di pari passo con Oderisi, le cui parole hanno chiuso il canto XI, finché Virgilio non gli dice di lasciarselo alle spalle e procedere oltre, visto che nel Purgatorio conviene che ognuno coi propri mezzi si preoccupi solo del proprio cammino. Il poeta obbedisce alla sua guida, riacquista la postura eretta per accelerare il passo, ma i suoi pensieri restano umili (chinati) e spogli della superbia (scemi). Le parole dell'amico lo hanno molto colpito, sia le riflessioni sulla vanagloria che le allusioni al suo esilio. I due pellegrini riprendono il cammino a passo svelto, finché Virgilio esorta il suo discepolo a guardare a terra così da vedere qualcosa che lo gioverà spiritualmente (...ed el mi disse: << Vogli li occhi in giùe: / buon ti sarà, per tranquillar la via, / veder lo letto de le piante tue >>). Per introdurci le immagini che trova, Dante le paragona a quelle dei defunti scolpite sulle pietre sepolcrali, sulle quali il ricordo spinge le anime pie a piangere, solo che queste del Purgatorio sono scolpite con maggiore maestria perché generate da un'arte non umana. Tutta la parte di suolo della sporgenza del monte è adorna di queste figure ("Come, perché di lor memoria sia, / sovra i sepolti le tombe terragne / portan segnato quel ch'elli eran pria, / onde lì molte volte si ripiagne / per la puntura de la rimembranza, / che solo a' pii dà de le calcagne; / sì vid' io lì, ma di miglior sembianza / secondo l'artificio, figurato / quanto per via di fuor del monte avanza").
La prima immagine mostra la caduta di Lucifero dal Paradiso dopo la ribellione a Dio, episodio citato nella Bibbia da Isaia e nell'Apocalisse. Dalla parte opposta è scolpita l'uccisione del gigante Briareo, che aveva osato ribellarsi a Giove. Ci sono poi scolpiti Apollo (qui chiamato Timbreo, soprannome che gli fu dato per via del tempio innalzatogli a Timbra), Atena e Marte, ancora armati intorno alle membra amputate dei Giganti. Vede poi Nembrot smarrito ai piedi della torre di Babele a causa della confusione delle lingue. C'è poi rappresentata Niobe, la quale guarda con la disperazione negli occhi i suoi quattordici figli uccisi da Apollo e Diana per punirla della sua superbia (aveva chiesto che la popolazione tebana tributasse a lei i sacrifici dovuti a Latona, vantandosi della sua progenie ben più nutrita, visto che la divinità era madre solo di Apollo e Diana). Poi è scolpita l'immagine di Saul, primo re d'Israele, suicidatosi dopo la sconfitta sul monte Gelboè; secondo la Bibbia, suo fratello David augurò al monte la sterilità a causa della siccità. Vede poi Aracne, già trasformata per metà in ragno da Atena, che l'aveva sconfitta in una gara di tessitura. C'è poi scolpito Roboam, successore sul trono d'Israele di re Salomone, che spaventato fugge su un carro e non mostra la superbia con cui aveva governato il suo regno. E' poi raffigurata l'uccisione di Erifile ad opera del figlio Almeone, che la punisce per essersi lasciata sedurre dalla collana dell'Armonia costruita da Vulcano ("lo sventurato addornamento") e aver mandato in guerra a Tebe suo marito Anfiarao, che lì venne inghiottito dalla terra così come aveva previsto. C'è poi scolpita l'uccisione del re assiro Sennacherib ad opera dei figli, i quali lo punirono della pestilenza che Dio aveva scatenato sul paese a causa della guerra contro Israele. Vede poi Tamiri, regina degli Sciti, che getta la testa del re persiano Ciro in un'otre piena di sangue per vendicare l'uccisione di suo figlio. C'è poi la rotta dell'esercito assiro in Giudea dopo la decapitazione del re Oloferne ad opera di Giuditta. Infine vede le rovine di Troia bruciata dai greci. Viste queste immagini, il poeta si chiede quale grandissimo artista possa averle scolpite con tanta maestria. I cadaveri e le persone sembrano reali, le sculture non sono meno reali degli eventi che raffigurano. La contemplazione il poeta la termina con un ammonimento ai vivi, che sono superbi e procedono a testa alta, invece dovrebbero abbassare lo sguardo così da vedere il sentiero che conduce alla perdizione ("Or superbite, e via col viso altero, / figliuoli d'Eva, e non chinate il volto / sì che veggiate il vostro mal sentero!"). 
Passato è più tempo e percorso è più cammino di quanto Dante, concentrato sulle sculture, abbia percepito quando Virgilio gli dice di alzare lo sguardo, non è più tempo di perdersi in meditazioni, e di osservare l'angelo che si sta avvicinando, facendogli poi notare che sei ore sono passate dall'inizio del giorno. La guida esorta il poeta ad assumere un atteggiamento di reverenza, così da convincere l'angelo ad avviarli alla seconda cornice, e gli ricorda che questo giorno non tornerà mai più. A loro si avvicina l'angelo, vestito di bianco e con una luce intensa irradiata dal volto ("A noi venìa la creatura bella, / biancovestito e ne la faccia quale / par tremolando mattutina stella"). L'angelo apre le braccia e le ali, invita i due poeti ad avvicinarsi, ci sono i gradini attraverso cui possono agevolmente salire alla seconda cornice, poi dice che a questo invito sono poche le persone che rispondono e si chiede come possa l'uomo, nato per volare al cielo, soccombere al vento delle tentazioni ("...disse: << Venite: qui son presso i gradi, / e agevolmente ormai si sale. / A questo invito vengon molto radi: / o gente umana, per volar su nata, / perché a poco vento così cadi? >>"). Li fa procedere dove la roccia è tagliata e con un colpo d'ali cancella la prima P dalla fronte di Dante, poi assicura al poeta di poter proseguire senza problemi. 
Così come dal lato destro diventa improvvisamente meno ripida la salita verso San Miniato grazie alle scalee costruite sulla costa del monte quando ancora non si falsificavano le misure catastali e gli atti comunali (è un riferimento velato a un episodio di falsificazione avvenuto a Firenze ai tempi di Dante), così la salita del monte diventa meno aspra e rende agevole il passaggio alla seconda cornice. L'angelo canta in un modo tanto celestiale da non poter essere descritto a parole << Beati pauperes spiritu! >>. A questo punto Dante, ricordando il suo recente passaggio all'Inferno, nota quanto sia diverso nel Purgatorio, dove si entra in ogni cornice accolti da canti celestiali e non da feroci lamenti. Man mano che sale, il poeta si accorge di essere più leggero di quanto avrebbe pensato e chiede a Virgilio quale peso gli sia stato tolto di dosso per rendere il suo cammino così agevole. La guida gli spiega che quando dalla fronte gli avranno cancellato tutte le P, così come ora l'angelo gli ha cancellato la prima, non solo i suoi piedi non sentiranno più il peso del corpo, ma addirittura troveranno piacevole l'essere spinti verso l'alto ("Rispuose: << Quando i P, che son rimasi / ancor nel volto tuo presso che stinti, / saranno, com'è l'un del tutto rasi, / fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, / che non pur non fatica sentiranno, / ma fia diletto loro esser su pinti >>"). Il poeta, che ancora non si era accorto della sparizione della P, fa come quelli che non sanno d'avere qualcosa in testa e lo deducono dai cenni fatti da altre persone, si passa le dita sulla fronte e al tatto sente le sei P incise. Guardandolo fare ciò, Virgilio sorride.

Il canto XII del Purgatorio ci mostra per la prima volta l'effetto della purificazione da un peccato capitale su Dante. Il poeta si sente più leggero, pur non essendo schiacciato da un peso visibile come le anime della cornice, la superbia comunque rendeva più pesante il suo cammino.
Di questo canto è comunque molto interessante e degna di nota la prima parte, quella in cui abbiamo osservato le sculture. All'entrata nella cornice (canto X), Dante ci aveva descritto degli esempi di umiltà, virtù opposta alla superbia. Il cammino nella cornice si conclude invece con la visione di esempi di superbia punita. Non è casuale questa disposizione, all'ingresso nella cornice è infatti mostrato come l'uomo avrebbe dovuto comportarsi per evitare di essere superbo, o comunque degli esempi di uomini che non hanno commesso tale peccato, alla fine del cammino è invece esposta la punizione dovuta alla persistenza della colpa. 
Molto interessante è anche il modo in cui sono descritte le sculture. Gli esempi di superbia punita sono tredici, ognuno contenuto in una terzina. Ci sono tre gruppi da quattro terzine ciascuno, la tredicesima è quella che descrive le rovine di Troia. Il primo gruppo vede ogni terzina cominciare con la parola Vedea, il secondo con O e il terzo con Mostrava. L'acrostico formato dalle tre iniziali forma la parola VOM, cioè "uomo", la creatura che ha commesso il peccato. Non è casuale inoltre che la rassegna di esempi termini con la caduta di Troia, degli eventi citati è infatti l'ultimo per ordine cronologico e con esso si chiude il periodo dell'antico errore. Dopo l'incendio di Troia inizia infatti il periodo della grazia, con la partenza di Enea da cui si genererà l'Impero romano, secondo popolo eletto da Dio.

Francesco Abate 


domenica 18 novembre 2018

RECENSIONE DELLE "CANZONI DELL'INNOCENZA E CANZONI DELL'ESPERIENZA" DI WILLIAM BLAKE

Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza è un'opera dello scrittore e incisore William Blake. Pubblicate per la prima volta le sole Canzoni dell'Innocenza nel 1789, dal 1794 Blake pubblicò in un'unica opera entrambe le raccolte di poesie. Nonostante siano nate in due momenti diversi, seppur vicini nel tempo, è giusto che le due raccolte siano unite in una sola opera e considerate come unica, infatti il loro significato è perfettamente comprensibile solo operando tra loro una contrapposizione.
Una particolare attenzione merita il metodo con cui furono prodotte le opere. Ogni tavola fu stampata in rilievo con una lastra di metallo incisa usando dell'acido, poi fu colorata a mano. Questa modalità di stampa fu inventata dallo stesso Blake e usata per produrre poche copie poi vendute ad amici e collezionisti. A rendere famosa questa doppia raccolta di poesie hanno contribuito anche i disegni che accompagnano i componimenti, come quello che vedete nella figura sopra.

Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza non è un'opera di facile lettura. Come nello stile di Blake, le poesie sono molto ricche di simboli e significati nascosti. Nonostante all'apparenza i vari componimenti possano apparire semplici, se ne può cogliere il significato effettivo solo scavando oltre la superficie dei versi.

Come detto all'inizio, Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza possono liberare in pieno il loro potenziale solo venendo lette insieme. Sono due opere che convivono e si contrappongono, che stanno insieme in un perenne e acceso contrasto.
Nella prima parte, le Canzoni dell'Innocenza, ci troviamo subito immersi nel mondo pacifico dei bambini. La prima immagine che troviamo è quella di un flautista a cui un bambino celeste chiede di suonare una canzone sull'agnello, il simbolo della purezza. Nelle poesie seguenti troviamo pastorelli, bambini che giocano felici in mezzo al verde, madri amorevoli, ottimismo e purezza. Diverse poesie sono scritte proprio dal punto di vista di un bambino, tutte inoltre mostrano la visione fanciullesca e spensierata della vita.
Nelle Canzoni dell'Esperienza cambia tutto radicalmente. La natura è spesso oscura, a prevalere è il mondo ipocrita e corrotto degli adulti, c'è sofferenza e morte ovunque. I bambini non sono più protagonisti, ma spesso vittime, mentre l'innocenza è completamente soffocata dalle regole della società. 

La raccolta Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza getta la luce sulla contrapposizione che c'è tra il bambino, figlio della natura, e la società, che tale natura soffoca e sottomette. Tali differenze e tali contrasti diventano più evidenti attraverso l'analisi di alcune poesie che l'autore scrive proprio per rendere una il contrario dell'altra.
Un esempio lampante di quel che scrivo sopra l'abbiamo leggendo le poesie L'Agnello e La Tigre, contenute la prima nelle Canzoni dell'Innocenza e la seconda nelle Canzoni dell'Esperienza. L'Agnello sottolinea la mitezza del dolce e indifeso animaletto, il cui nome è lo stesso di Dio e la cui mansuetudine è quindi simbolo della bontà divina, oltretutto è tracciata nella poesia anche una similitudine tra l'onnipotente e il bambino, perché il primo venne al mondo nelle sembianze di un bimbo. Ne La Tigre è invece tutto diverso, domina la terribile figura del possente e violento animale, usato come metafora di un potere oscuro tanto vasto da non poter essere ostacolato neanche dalle forze del bene.
Un altro contrasto tra innocenza ed esperienza è visibile nelle due poesie Lo spazzacamino. Blake scrive versi dedicati alla figura dei bambini affamati e sfruttati per pulire i camini sia nelle Canzoni dell'Innocenza che nelle Canzoni dell'Esperienza. Essi sono un simbolo perfetto della degenerazione morale che distrugge l'innocenza. Nel primo caso il poeta ci racconta del piccolo Tom le cui paure sono lenite da un sogno di eterna beatitudine, nel secondo invece è illustrata la disperazione di un piccolo spazzacamino che riflette sulla crudeltà e l'ipocrisia di chi, come i suoi genitori, guadagna sulla sua miseria. Per cogliere la differenza tra i due componimenti, basta leggere come si chiudono. Il primo finisce con l'immagine della felicità di Tom e Blake che scrive "se tutti fanno il proprio dovere, non devono temer danno"; il secondo invece rievoca l'immagine dei genitori del piccolo spazzacamino che cantano le lodi a Dio in chiesa, con il bambino che finisce per chiedersi "chi può fare della nostra miseria un paradiso?". 

Tra le due raccolte di poesie c'è la differenza tra infanzia ed età adulta, tra purezza e ipocrisia, ma non solo. Una differenza degna di nota che appare molto evidente è quella tra religione e chiesa. Nelle Canzoni dell'Innocenza si parla spesso di Dio e di angeli, dell'agnello che è simbolo della natura umana di Dio, ma alla chiesa si accenna solo nella poesia Giovedì santo, in cui si vede una messa solenne con gli occhi puri di un bambino, con immagini che rievocano la natura, e la quale termina con un invito alla pietà nei confronti del più debole. Nelle Canzoni dell'Esperienza invece la chiesa compare più spesso ed è sempre vista come simbolo dell'ipocrisia, come ad esempio ne Lo spazzacamino e in Londra, oppure come catena che reprime gli individui uccidendone la gioia o negandogli il vero amore, come vediamo ne Il piccolo vagabondo e in Il giardino dell'amore. Ne Il piccolo vagabondo Blake auspica che nelle chiese venga servita la birra e acceso un fuoco così da rendere i fedeli più felici e far gioire Dio, sottintendendo così che una birreria accontenta il Signore più di quella che ha la pretesa di essere la Sua casa.

Quella di William Blake è una figura che da sempre è ammantata di fascino. Il suo spiritualismo e le sue poesie ricche di simboli hanno sempre eccitato la fantasia dei lettori in cerca di una scrittura alternativa, più distante da quella che si può trovare in buona parte delle opere letterarie dei diversi secoli. Blake dai suoi contemporanei non fu capito, solo i preraffaelliti iniziarono ad apprezzarlo, considerandolo un precursore del simbolismo.
Quello che è Blake possiamo capirlo solo leggendo le sue opere principali, Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza. Si tratta di un raffinato poeta capace con versi piacevoli da leggere per la loro musicalità di scuotere l'intera società dalle fondamenta. Il messaggio che Blake volle lanciare con le sue poesie è sin troppo chiaro, tutte le strutture costruite dalla società e tutti i dogmi su cui è fondata non fanno altro che alterare la nostra natura, prendendo la nostra purezza (i bambini che eravamo) e incatenandola, gettandola in un comignolo a insozzarsi con la fuliggine fino a essere tanto nera da apparire irriconoscibile. Blake ha preso l'umanità nella sua essenza più pura e l'ha mostrata all'uomo distrutto e deformato dalla società, mettendoci davanti all'evidente effetto venefico delle strutture sociali che tanto ci rassicurano. Solo tornando bambini, tornando alla natura e alla purezza delle cose, al vero amore, lasciando le chiese e tornando a Dio, potremo tornare a giocare felici su un grande prato verde.

Francesco Abate   

mercoledì 7 novembre 2018

COMMENTO DEL CANTO XI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

<< O Padre nostro, che ne' cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch'ai primi effetti di là su tu hai,
laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore
da ogne creatura, com'è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver' noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de' suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s'affanna.
E come noi lo mal ch'avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di leggier s'adona,
non spermentar con l'antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest'ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro. >>
Il canto XI si apre con il Padre Nostro recitato dai superbi nella prima cornice. La versione che qui leggiamo non è quella classica che i cattolici recitano in Chiesa ogni domenica, è una versione adattata al ritmo del poema ed estesa in modo da approfondire alcuni concetti espressi nella preghiera stessa. I superbi si rivolgono al Padre che è nei cieli, non perché sia in esso spazialmente limitato ("non circunscritto"), bensì per il maggior amore dei primi effetti della sua creazione (gli angeli). Lodano poi il suo nome, il suo valore e rendono grazie al suo vapore, tre figure che secondo alcuni critici rappresentano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, mentre per altri il vapore semplicemente rappresenta la bontà divina. Le anime auspicano poi la venuta della grazia divina, a cui gli esseri umani non possono arrivare solo con le proprie forze. Chiedono a Dio di dare loro il pane quotidiano, quello che sazia l'anima e rende immortali, senza il quale le anime del Purgatorio finirebbero per tornare indietro e allontanarsi dall'eterna beatitudine. Chiedono poi che il Signore perdoni a ognuno i propri peccati così come loro perdonano ogni torto subito, poi pregano che i loro meriti terreni non siano tenuti in considerazione, infatti non è per mezzo di questi che troveranno l'eterna beatitudine. La preghiera si conclude con la richiesta che Dio non lasci gli uomini in preda alle tentazioni, a cui non saprebbero resistere, e specificano che questo non è necessario per loro, ma per quelli che sono ancora in vita. Questa preghiera è recitata dalle anime dei superbi i quali, schiacciati da un peso simile a quello che a volte ci opprime negli incubi, camminano purificandosi dei loro peccati. 
Dante a questo punto si chiede cosa possa fare chi è ancora in vita per quelle anime che, in fase di purificazione, con la loro preghiera chiedono grazia e aiuto per i vivi. Conclude infine che è necessario un impegno costante da parte dei vivi affinché, attraverso le preghiere di suffragio, si acceleri l'accesso al Paradiso di queste anime ("Ben si de' loro atar lavar le note / che portar quinci, sì che, mondi e lievi, / possano uscire a le stellate rote"). Entra in scena a questo punto Virgilio il quale, dopo aver augurato alle anime di potersi presto liberare del peso che le opprime e poter salire al cielo, chiede loro quale sia la strada più breve e meno ripida per salire alla seconda cornice, infatti Dante ha ancora il corpo mortale e il suo peso è un ostacolo in caso di salite troppo proibitive. La risposta che giunge a Virgilio non si capisce da quale delle anime sia pronunciata. Gli viene detto di venire con loro verso destra, dove c'è una salita affrontabile da un corpo mortale. Colui che ha parlato dice che se non avesse il viso rivolto verso il basso a causa del peso che porta addosso, guarderebbe il mortale per capire se lo conosce o meno. Si presenta come figlio "d'un gran Tosco", cioè di Guglielmo Aldobrandesco, e dichiara che fu così superbo in vita a causa delle grandi opere dei suoi avi da sentirsi superiore ad ogni uomo, causando la propria tragica fine che conoscono bene sia in senesi che anche tutti i ragazzi di Campagnatico. In vita fu Omberto e la superbia non solo a lui ha fatto un danno, bensì tutti i suoi parenti hanno condiviso lo stesso destino. Nella cornice dei superbi è giusto che porti questo peso, dichiara, pagando a Dio il debito che non pagò in vita, quindi cancellando la sua superbia così come non fu in grado di fare in vita. Il discorso di Omberto è molto interessante, egli infatti accetta con umiltà la propria pena e ammette di meritarla, però nella sua presentazione persiste ancora un pizzico di orgoglio quando definisce il padre "un gran Tosco": l'umiltà c'è, ma la superbia non è ancora completamente cancellata, forse per questo è ancora nella cornice col peso sulla testa. Per quanto riguarda la figura storica, Omberto Aldobrandeschi fu conte di Soana, alleato di Firenze e grande nemico dei senesi, da cui fu ucciso. Sulle circostanze della sua morte ci sono due versioni: secondo la prima, fu soffocato nel proprio letto da sicari mandati dai senesi; per la seconda, morì in una battaglia contro Siena.
Dante china il viso e vede un'anima torcersi sotto il peso che la schiaccia e chiamarlo per nome. Il poeta cammina chino dietro le anime e riconosce quella che l'ha chiamato, quindi gli chiede se non sia Oderisi da Gubbio, maestro dell'arte che a Parigi è chiamata d'enluminer, cioè l'arte delle miniature. Oderisi ammette che le miniature di Franco Bolognese, un suo allievo di cui non si hanno notizie biografiche certe, sono superiori alle sue, dice poi che mai avrebbe ammesso una cosa del genere in vita e questa superbia ora sta pagando nel Purgatorio. Sarebbe addirittura all'Inferno se, ancora vivo, non avesse fatto ammenda dei propri peccati. Il miniaturista si lascia andare infine a un discorso contro la vanagloria, citando l'esempio di Cimabue, il quale si credette il miglior pittore e invece adesso è oscurato da Giotto, e quello di Guido Guinizzelli, a cui Guido Cavalcanti ha tolto la fama di miglior poeta, e forse addirittura è nato chi sostituirà il Cavalcanti ("Così ha tolto l'uno a l'altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà dal nido"). Colui che forse supererà Guido Cavalcanti è ovviamente Dante Alighieri, il quale si concesse scrivendo La Commedia questo piccolo peccato di superbia, il quale però aveva delle basi solide perché il poema che stava scrivendo avrebbe poi superato in fama ogni opera letteraria. Oderisi spiega che le chiacchiere mondane sono un fiato, un vento che può cambiare direzione in qualsiasi momento, poi a Dante chiede, se anche dovesse morire vecchio o se fosse morto bambino, che ricordo di lui ci sarebbe tra mille anni. La memoria degli uomini dopo un po' si cancella, inoltre anche mille anni sono un battito di ciglia se paragonati al periodo di rivoluzione del cerchio celeste più lontano dalla Terra (gli astronomi dell'epoca calcolarono questo periodo in 36.000 anni). Il miniaturista infine fa l'esempio dell'anima che, schiacciata dal peso, cammina poco avanti a lui: un tempo il suo nome risuonò in tutta la Toscana, adesso invece nella Siena che governò in pochi lo ricordano. La fama è come l'erba, il cui colore col passare del tempo si rovina e sbiadisce.
Dante, incuriosito dal discorso di Oderisi, gli chiede chi sia l'anima di cui ha appena parlato. Il miniaturista gli risponde che è Provenzano Salvani, la cui superbia lo portò a voler tenere Siena tutta sotto il suo controllo, per questo ora sconta la pena nella cornice. Provenzano Salvani fu un ghibellino senese e podestà di Montepulciano, il quale perì nella battaglia di Colle (1269) in cui i ghibellini senesi furono sconfitti. Il poeta a questo punto ha un dubbio, infatti, stando alle parole di Oderisi, non ci fu pentimento in vita di Salvani, quindi dovrebbe essere fermo nell'Antipurgatorio. Dante chiede come si possa invece trovare già lì e Oderisi gli spiega che in vita si umiliò pubblicamente nella pubblica piazza di Siena e chiese l'elemosina per poter liberare un suo amico prigioniero di Carlo I d'Angiò, in virtù di questa opera pia e di massima umiliazione ha avuto l'accesso diretto al Purgatorio. Nel discorso finale del miniaturista c'è anche un accenno all'esilio prossimo di Dante, infatti gli dice che passerà poco tempo prima che i suoi concittadini gli facciano vivere da vicino una situazione simile. L'allusione è all'offerta che nel 1315 i fiorentini fecero a Dante, cioè l'avrebbero rimpatriato se si fosse offerto pubblicamente in piazza san Giovanni e avesse pagato un compenso in denaro, condizioni che il poeta rifiutò. 

Francesco Abate 
    

sabato 3 novembre 2018

RECENSIONE DEL ROMANZO "NANA' " DI EMILE ZOLA

Pubblicato nel 1880, Nanà è uno dei romanzi più famosi e amati dello scrittore francese Emile Zola. L'opera fa parte del ciclo di romanzi I Rougon-Macquart. Storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero, con cui Zola illustra la società francese dell'epoca che va dal colpo di Stato di Napoleone III alla sconfitta di Sedan attraverso le vicende dell'intero albero genealogico di una famiglia. Del ciclo fanno parte venti romanzi cronologicamente collegati tra loro. Nanà è il nono di questi e si collega al settimo, L'ammazzatoio, perché narra le vicende della figlia di Gervaise Macquart. Nonostante il collegamento, è comunque possibile leggere, apprezzare e comprendere questo romanzo anche senza conoscere i precedenti.

Nanà racconta la storia di una giovane e bellissima parigina, la quale attira le attenzioni di tutto il bel mondo sul proprio magnifico corpo grazie ad uno spettacolo teatrale in cui si esibisce nuda nel ruolo di Venere. La ragazza, consapevole del fascino che è in grado di esercitare sugli uomini, e già dedita alla prostituzione nel suo appartamento, inizia ad alzare il tiro ed a diventare l'amante degli uomini più benestanti e potenti di Parigi, venendo in poco tempo rispettata e sommersa dalle ricchezze. Nonostante più volte abbia l'opportunità di contrarre un vantaggioso matrimonio, Nanà preferisce vivere nella promiscuità e darsi delle arie da signora. La bellissima donna finisce per essere la rovina di tutti i suoi amanti, finché non decide di sparire dalla circolazione e lasciare dietro di sé solo un alone di leggenda, con un'uscita di scena degna del miglior spettacolo teatrale. La storia di Nanà non ha però un lieto fine e il ritorno in scena della donna che ha fatto parlare di sé Parigi è tragico, mentre la guerra franco-prussiana inizia a intravedersi dalle finestre dell'hotel in cui le donne vegliano il suo cadavere.

Zola attraverso le vicende di Nanà ci mostra tutta la società parigina, dall'aristocrazia fino ai più derelitti, spogliandola delle sue ipocrisie. Nelle case e nei letti di Nanà passano tantissime persone, chi innamorato e chi accecato dalla passione, uomini e donne, ricchi e poveri, quindi con gli occhi della ragazza possiamo vedere tutta Parigi messa a nudo. 
Tra i tanti amanti di Nanà, quello più assiduo e di sicuro il rappresentante più autorevole dell'aristocrazia parigina è il conte Muffat. Si tratta di un uomo estremamente religioso e bigotto, il cui salotto austero sembra racchiudere una monotona santità che annoia i giovani come il libertino Vandreuves. L'arrivo di Nanà come un terremoto sconvolge tutta l'esistenza della famiglia Muffat. Il sant'uomo cede ad una passione mai provata prima, sempre repressa in nome dei princìpi religiosi, e dietro questo nuovo ardore perde le ricchezze, dilapidate per soddisfare i capricci di Nanà, e la dignità, finendo per farsi apostrofare come cornuto da una prostituta e diventando nell'intimità l'animale domestico della ragazza. La malattia morale portata da Nanà non infetta solo il conte, infatti mentre lui tradisce la moglie Sabine, lei lo ricambia concedendosi al giornalista Fauchery. La famiglia, una delle più in vista di Parigi, precipita nella povertà e nell'infamia.
Tanti altri sono i membri della buona società di Parigi che finiscono male per via di Nanà, tanto da spingere Fauchery, in un articolo scritto per Le Figaro, a descriverla come una malattia morale che infesta e distrugge la buona società parigina. L'analisi di Fauchery ha una doppia funzione: spiega il ruolo che ha Nanà (che in questo caso rappresenta il vizio nelle sue forme più estreme) e contemporaneamente rivela l'ipocrisia della società parigina. Il giornalista che scrive l'articolo ha infatti una relazione clandestina con la moglie di Muffat, è l'amante di Rose Mignon (rivale della protagonista) e finisce a sua volta nel letto di Nanà. Chi vede e censura il malcostume che rovina la società, si tuffa in quel mare di vizio e ci nuota beato.
Attraverso la protagonista non vediamo soltanto la Parigi dei salotti e delle feste. Nel momento in cui Nanà fugge con Fontan, veniamo di colpo trasportati nei bassifondi, dove le ragazze battono la strada in cerca del denaro che regala loro la sopravvivenza. Lo stesso rapporto con Fontan è squallido e violento, riportando la protagonista nella triste realtà delle famiglie povere e dei quartieri degradati.

Quando Nanà decide di abbandonare il teatro per darsi alla vita da prostituta d'alto bordo, lo fa perché vuole diventare ricca e rispettata come una signora. Quando riesce a farsi donare dal primo amante ricco la villa dei suoi sogni, inizia a godersi la nuova vita da donna ben sistemata e ad atteggiarsi da dama di alto livello. La sua felicità in quel frangente è quasi fanciullesca, ritrova un entusiasmo perso da tempo e finisce per innamorarsi davvero di un giovane che in lei suscita un tenero istinto materno. Tutto ciò però svanisce quando conosce una vecchia prostituta arricchita (Irma d'Anglars) che vive in un immenso castello ed è rispettata come una gran dama. Da quel momento, abbandona il suo tenero amore e si concede ad un vecchio che la ripugna pur di acquisire ricchezza e soprattutto rispetto. Per questo comportamento, in Nanà potremmo vedere quasi il tentativo di un riscatto sociale. Figlia di genitori poveri e un padre alcolizzato, la giovane si vende per poter uscire dalla miseria ed entrare nel bel mondo che ha sempre dovuto vedere da fuori. Questo riscatto però lo ottiene in un modo molto diverso, infatti non è tanto lei a salire in alto quanto i suoi amanti a cadere in basso, la sua diventa una rivalsa verso il mondo aristocratico che sporca e distrugge con le sue perversioni. Tale sete di distruzione diventa evidente quando rifiuta diverse proposte di matrimonio, fatte da uomini che potrebbero arricchirla e sistemarla a vita, solo per poter continuare a vivere in una palese promiscuità ed a distruggere i regali e i sacrifici dei tanti amanti. Tutto il veleno che lei getta nell'anima della società parigina finisce però per distruggere anche lei. Nonostante la sua uscita di scena improvvisa, che lascia viva nella città qualcosa di simile a una leggenda, nelle ultime pagine la ritroviamo con la sua bellezza devastata, come se il marcio del suo animo fosse alla fine traboccato e le avesse deturpato ogni lembo di pelle.

Nanà è un romanzo che rientra a mio parere tra le letture fondamentali, cioè quelle che nella vita vanno assolutamente affrontate. Zola riesce a descrivere con semplicità e allo stesso modo in maniera quasi simpatica i lati più oscuri di una società, ci dipinge un quadro dove possiamo vedere chiaramente il vizio, l'ipocrisia e la voglia di distruzione. Lo scrittore ci fa conoscere i vari personaggi e lentamente li spoglia, libera le loro immagini delle armature che indossano e ce li mostra in tutta la loro verità. Il personaggio stesso di Nanà viene sminuzzato, dapprima è presentata come la classica ragazza che vende il proprio corpo, poi è mostrata senza filtri la sua insaziabile sete di perversione e distruzione, facendoci capire che non è il successo il suo fine reale, bensì l'annientamento degli altri.
Tutti questi contenuti sono inseriti in una vicenda appassionante, a tratti divertente (come le scene dei banchetti), che si fa leggere con molto piacere.

Francesco Abate