venerdì 29 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l'animo con essi,
e da ogne altro intento s'era tolto.
Il canto inizia col poeta che volge i suoi occhi a Beatrice e con essi a lei volge anche il suo animo, liberandolo da ogni altra incombenza; con questa immagine l'autore ci introduce già al tema della contemplazione, fondamentale visto che sta per mostrarci il cielo di Saturno, che è appunto quello degli spiriti contemplativi. Dante si accorge che lei non ride; la donna gli spiega che se lo facesse lo ridurrebbe in cenere, come accadde a Semele quando Zeus le si mostrò nella sua pienezza, infatti la sua grazia aumenta man mano che si risale verso i cieli superiori e, se non venisse attenuata, sarebbe troppo forte per i sensi di un mortale e lo distruggerebbe, come un fulmine fa con un ramo ("ché la bellezza mia, che per le scale / de l'etterno palazzo più s'accende, / com'hai veduto, quanto più si sale, / se non si temperasse, tanto splende, / che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore, / sarebbe fronda che trono scoscende"). Dopo avergli spiegato perché non ride, Beatrice informa Dante che sono saliti al settimo cielo, quello di Saturno, che in quel periodo è visibile dalla Terra nella costellazione del Leone. Alla fine la donna esorta il poeta a prestare attenzione a quello che sta per vedere ("Ficca di retro a li occhi tuoi la mente") e a fare in modo che i suoi occhi siano specchi che riflettono ciò che sta per apparire. La scelta dell'autore di informarci che Saturno nel periodo in cui si svolge la vicenda transita nella costellazione del Leone non è da considerarsi solo come uno dei tanti riferimenti temporali del poema, è allo stesso tempo un'introduzione allo spirito che apparirà nel canto: Saturno è il pianeta associato alla virtù contemplativa, mentre il Leone è la costellazione dell'ardore, e il santo che vedremo dopo nella vita unì in sé i meriti della contemplazione e della vita attiva.
Dante obbedisce all'esortazione di Beatrice e volge la sua attenzione al cielo in cui si trova. Scrive che solo colui che sa quanto egli godesse nel contemplare il volto dell'amata, può capire quanto gli piacesse obbedirle leggendo come volse rapidamente lo sguardo altrove ("Qual savesse qual era la pastura / del viso mio ne l'aspetto beato / quand'io mi trasmutai ad altra cura, / conoscerebbe quanto m'era a grato / ubidire a la mia celeste scorta, / contrapesando l'un con l'altro lato"). Il poeta guarda nel pianeta che porta il nome della divinità (Saturno) sotto il cui regno morì ogni malizia (l'età dell'oro, contraddistinta dall'innocenza dei costumi; ne parla Ovidio nelle Metamorfosi) e vede una scala color dell'oro su cui si riflettono i raggi del sole e che sale talmente in alto da non permettergli di vederne la fine. Per i gradini di questa scala vede scendere tante luci (i beati) da fargli credere che da lì venga ogni luce che è nel cielo. Il movimento dei beati ricorda a Dante quello istintivo ("per lo natural costume") delle cornacchie (le pole) quando all'alba, per scaldarsi le piume intirizzite, alcune volano dal nido per non tornare più, altre fanno un volo per poi tornare, altre ancora si aggirano volando là intorno; allo stesso modo sembrano comportarsi i beati quando raggiungono un gradino.
Un'anima si avvicina a Dante e aumenta il proprio splendore, rendendo evidente nella mente del poeta l'amore che prova per lui. Beatrice, colei da cui il poeta aspetta indicazioni sui modi e i tempi in cui parlare ("quella ond'io aspetto il come e 'l quando del dire e del tacer"), tace. Visto il solenne silenzio creato dall'anima e dalla guida, Dante decide suo malgrado di non spezzarlo e di non chiedere nulla. A questo punto la donna, vedendolo in silenzio, lo esorta a soddisfare il suo desiderio di chiedere. Il poeta si rivolge all'anima, dichiara di non essere degno di una sua risposta, ma lo esorta a soddisfarlo in nome di Beatrice ("colei che 'l chieder mi concede") e gli chiede come mai si sia avvicinata a lui e perché nel cielo di Saturno le anime non cantano come accade nei cieli inferiori ("e dì perché si tace in questa rota la dolce sinfonia di paradiso, che giù per altre suona sì divota").
Lo spirito gli risponde che non cantano per lo stesso motivo per il quale Beatrice non sorride, infatti anche l'udito del poeta è umano come la vista e il loro canto lo incenerirebbe. Spiega poi che è sceso lungo la santa scala per manifestargli con la luce che lo avvolge la gioia di vederlo, ma non lo ha fatto per un maggiore amore che prova per lui, perché da lì in su i beati provano il suo stesso amore o anche di più, semplicemente l'ha spinto il volere di Dio (l'alta carità), di cui tutti loro sono servi.
Sentite le parole dello spirito, Dante manifesta il suo dubbio: sa bene come basti il loro libero amore per seguire il volere di Dio senza ricevere ordini, ma non riesce a spiegarsi perché mai sia proprio lui a essere destinato al compito di avvicinarglisi (non si spiega secondo quali criteri un'anima sia predestinata rispetto a un'altra).
Il poeta non finisce di porre la domanda che già la luce inizia a ruotare orizzontalmente intorno al proprio asse come una macina (mola), poi l'anima che da essa è avvolta gli risponde. Spiega che la luce divina penetra in lui attraverso la luce che lo avvolge e lo eleva al punto di permettergli di vedere la divina essenza da cui è emanata ("la somma essenza de la quale è munta"), ovviamente in proporzione ai suoi meriti in vita ("<<Luce divina sopra me s'appunta, / penetrando per questa in ch'io m'inventro, / la cui virtù, col mio veder congiunta, / mi leva sopra me tanto, ch'i' veggio / la somma essenza de la quale è munta"); da qui viene la gioia che traspare dalla sua luminosità, che è tanto intensa quanto è chiara la sua visione della luce divina. Nonostante la capacità di vedere in Dio delle anime beate, perfino a Maria, l'anima che ha più chiara di tutte la visione di Dio, e perfino al serafino (i serafini costituiscono il primo ordine delle gerarchie angeliche), è impossibile rispondere alla domanda di Dante circa la predestinazione, questo perché è una questione che si inoltra così tanto nell'abisso delle eterne disposizioni di Dio da essere al di fuori dell'intelletto di ogni creatura ("da ogne creata vista è scisso"). Detto ciò, lo spirito invita il poeta ad ammonire i mortali, con particolare riferimento ai teologi che disputano sulla predestinazione, affinché non osino incamminarsi verso una meta così inaccessibile ("sì che non presumma a tanto segno più mover li piedi"), quindi non si permettano di fare congetture su un argomento così fuori dalla portata dell'uomo. La mente in cielo è luce pura mentre sulla Terra produce fumo, non è pensabile, conclude il beato, che laggiù si comprenda ciò che in Paradiso è incomprensibile.
Avuta la risposta circa il suo dubbio sulla predestinazione, Dante chiede all'anima chi sia. Questa risponde che tra i due mari, Tirreno e Adriatico ("due liti d'Italia"), ci sono delle montagne (l'Appennino umbro-marchigiano) e non molto distante da Firenze (circa 120 km) c'è una cima che si chiama Catria ed è più alta delle nuvole, per questo i tuoni rombano in basso ("tanto che ' troni assai sonan più bassi"); sotto Catria c'è un eremo (ermo) che ha per istituzione l'adorazione di Dio ("suole esser disposto a sola latria" - il termine latria indica nella religione cattolica un culto supremo riservato esclusivamente alla Trinità, distinguendosi dai culti di venerazione che hanno per oggetto angeli e santi). L'eremo a cui fa riferimento è quello di Fonte Avellana. Nell'eremo di Fonte Avellana, racconta ancora, si dedicò al culto di Dio con tanta fermezza da passare lietamente le estati e gli inverni mangiando cibi conditi solo con olio (liquor d'ulivi) e appagato dalla contemplazione del mistero divino. Un tempo quell'eremo rendeva al Paradiso una moltitudine di anime, dichiara ancora, adesso invece è così corrotto da rendere necessario che ciò presto si riveli. Nell'eremo egli fu Pier Damiani, mentre nella casa di Nostra Donna sul lido adriatico fu Pietro Peccatore. Poco gli era rimasto da vivere (quattordici anni) quando fu tolto dalla solitudine e fatto cardinale ("fui chiesto e tratto a quel cappello"), carica che passa da persone indegne ad altre ancora peggiori ("che pur di male in peggio si travasa" - riferito al cappello cardinalizio). Pier Damiani si lascia andare a un'invettiva: San Pietro (Cefas è uno dei nomi di Pietro nel Nuovo Testamento e in aramaico significa <<roccia>>) e san Paolo ("il gran vasello de lo Spirito Santo") vennero magri e scalzi, accettando il cibo da chiunque gliene offrisse; adesso i pastori moderni vogliono chi li accompagni, chi gli sollevi lo strascico e chi li aiuti a salire a cavallo, tanto sono grassi, e coprono i loro cavalli di mantelli così lunghi da ricoprire allo stesso tempo l'uomo e la bestia (due bestie è usato in senso dispregiativo).
All'ultima esclamazione di Pier Damiani, che conclude il suo discorso con un "oh pazienza che tanto sostieni", Dante vede le altre anime scendere dai loro gradini e girare, diventando più belle ogni volta che girano su se stesse. Gli altri beati si fermano intorno a Pier Damiani e insieme emettono un grido così potente da non assomigliare a nessuno di quelli che si odono sulla Terra; tanto forte è il suono da non permettere al poeta di capirne il contenuto, sente solo un rombo di tuono. Il senso del grido si spiegherà nel prossimo canto, adesso nel modo in cui è descritto anticipa soltanto il suo contenuto punitivo.

Su Pier Damiani vanno spese alcune parole.
Nel discorso del santo a un certo punto leggiamo che nell'eremo fu Pietro Damiano mentre nella casa di Nostra Donna fu Pietro Peccatore. Su questo punto la critica è da sempre molto divisa. Per alcuni critici il riferimento è alla stessa persona, che com'era prassi tra i monaci dell'epoca firmava i suoi scritti come Pietro Peccatore; per altri si tratta di due persone diverse, con Pietro Peccatore che sarebbe un riferimento a Pietro degli Onesti, monaco ravennate contemporaneo di Pier Damiani che, come lui, si firmava Pietro Peccatore, generando già all'epoca confusione tra le due identità. La critica moderna accoglie più favorevolmente la prima ipotesi, che in effetti appare più plausibile, perché nel discorso di questo canto Pietro degli Onesti non c'entrerebbe, inoltre se Dante avesse voluto riferirsi a due persone diverse avrebbe dovuto scrivere il fu' del verso 122 senza l'apostrofo, rendendolo alla terza persona (trasformando così la terzina: "in quel loco fu' io Pietro Damiano, e Pietro Peccator FU ne la casa di Nostra Donna in sul lito adriano"). Per tali ragioni anche io ho preferito nel commento privilegiare la prima ipotesi.
Un'altra disputa tra critici nasce sull'identificazione de la casa di Nostra Donna. Per alcuni si tratta della chiesa di S.Maria in Porto fuori di Ravenna , per altri di S.Maria in Pomposa vicino Comacchio.
Sempre riguardo la figura di Pier Damiani, è da notare come parli della sua nomina a cardinale quasi come una violenza, dicendo di essere stato strappato dal suo eremo ("fui chiesto e tratto a quel cappello"). In effetti in una lettera che scrisse a Nicolò II, il santo lamentò di essere stato tratto a forza dalla solitudine; pare che papa Stefano IX lo minacciò di scomunica nel caso in cui non avesse accettato la carica di cardinale. Per quanto riguarda il riferimento al cappello cardinalizio, si tratta di una metafora usata per indicare la carica, ma ai tempi di Pier Damiani ancora non era stato istituito (il santo morì nel 1072, mentre il cappello fu istituito da Innocenzo IV nel 1245).
Per quanto riguarda la biografia del santo, c'è da dire che fu un eremita ma allo stesso tempo si dedicò molto attivamente alle questioni politiche della chiesa, sostenne la collaborazione tra papato e impero, criticò aspramente la corruzione del clero (come fa anche nel canto).

Francesco Abate

giovedì 21 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Quando colui che tutto 'l mondo alluma
de l'emisperio nostro sì discende,
che 'l giorno d'ogne parte si consuma,
lo ciel che sol di lui prima s'accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una resplende.
Il canto comincia con l'aquila che smette di parlare come unico essere e le anime, aumentando la loro luce, iniziano a intonare canti così al di sopra dell'intelletto umano da essere impossibili da ricordare (labili e caduci). Questa scena richiama alla mente del poeta il tramonto, quando la luce del sole (colui che tutto 'l mondo alluma) smette di illuminare il cielo e questi si riempie di luccicanti stelle; anche in questo caso si quietano la voce potente e la luce sfavillante dell'aquila per lasciar posto alle tante voci e alle luci dei beati. L'autore si lascia andare a un'esclamazione: quanto appare ardente l'amore di Dio in quelle luci che sono ispirate solo da pensieri santi; in questa terzina (vv. 13-15) c'è la parola flailli, che dai critici è stata interpretata in due modi differenti: per alcuni deriva dal latino flare o dal francese antico flavel e significa "flauti", quindi fa riferimento alle voci con cui i beati cantano; altri invece la intendono come favilli, cioè "vive luci". Stando alle due interpretazioni, l'autore si riferisce nella sue lode ai beati o come a "quelle voci" o come a "quelle luci"; io, dovendo sceglierne una, ho scelto la seconda interpretazione, perché mi sembra più giustificata dall'intero verso 14 ("quanto parevi ardente in que' flailli"), visto che "ardente" in genere è riferito al fuoco che emana luce oltre che calore.
I beati, che Dante vede come gemme incastonate le cielo di Giove, pongono fine al loro canto e iniziano un mormorio simile al rumore di un fiume che scende da una montagna rocciosa, mostrando nell'abbondanza delle acque la ricchezza della sorgente ("Poscia che i cari e lucidi lapilli, / ond' io vidi ingemmato il sesto lume, / poser silenzio a li angelici squilli, / udir mi parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra, / mostrando l'ubertà del suo cacume"). Il suono sale dal collo dell'aquila, facendolo sembrare vuoto (bugio), così come la musica si forma nel collo della cetra o attraverso il fiato del musicista che entra nel foro della zampogna. Questo suono nel becco dell'aquila si trasforma in parole, le quali erano già attese nel cuore del poeta, dove poi le imprime.
L'aquila invita Dante a concentrarsi sul suo occhio, l'organo che nelle aquile mortali fissa il sole, perché lì sono le anime più degne di beatitudine. A questo punto c'è la presentazione dei beati, che l'autore fa attraverso le parole udite dall'aquila. A formare la pupilla c'è re David, definito "cantor de lo Spirito Santo" perché scrisse i Salmi, il quale trasportò l'Arca dell'Alleanza dalla casa di Abinabad fino a Gerusalemme, passando per la casa di Obed-Edom Ghitteo (l'arca traslatò di di villa in villa); adesso vede il merito della sua opera di scrittura, che fu frutto della sua volontà, grazie alla corrispondenza del grado di beatitudine a essa. La precisazione che l'aquila fa circa il merito di David è figlia della Summa theolgiae di san Tommaso, in cui è asserito che Dio scrisse la Bibbia e si servì degli scrittori come strumenti, ciononostante gli uomini scrissero di propria volontà e secondo il loro stile e la loro cultura, quindi anche loro furono autori delle Sacre Scritture ed ebbero il merito di ciò che scrissero; attraverso le parole dell'aquila, Dante ripropone il concetto espresso da san Tommaso. Vengono poi presentati i cinque beati che formano il ciglio dell'occhio. Quello più vicino al becco è l'imperatore Traiano, che per pietà di una vedova a cui era stato ucciso il figlio posticipò la sua partenza per la guerra ed emise una rapida sentenza con cui le diede giustizia (si tratta di una leggenda molto creduta all'epoca di Dante); adesso conosce, dichiara l'aquila, quanto costi caro non seguire Cristo, perché ha avuto sia l'esperienza della dannazione (nel Limbo) che quella della beatitudine. Il beato che segue Traiano è Ezechia, re di Giuda, che ottenne un prolungamento di quindici anni della vita grazie alle sue preghiere, e ora sa che non si muta il giudizio di Dio quando con la preghiera di un degno cristiano viene rimandato quel che è stato già pronunciato; secondo l'episodio biblico, Ezechia chiese più tempo non solo per meritare la beatitudine, lui che era sempre stato retto, ma anche per pentirsi delle sue colpe (perciò l'autore parla di vera penitenza, allontanando l'equivoco che potrebbe far credere alla paura della morte come motivazione della preghiera). Dopo Ezechia c'è l'imperatore Costantino, il quale portò la capitale dell'Impero a Costantinopoli (si fece greco) per lasciare Roma alla Chiesa, concretizzando così un'intenzione nobile che però nel tempo ha dato cattivo frutto (il riferimento è alla Donazione di Costantino, falso storico a cui la Chiesa per secoli si è aggrappata al fine di giustificare il proprio potere temporale; Dante vede la Donazione come l'inizio del potere temporale della Chiesa e perciò della sua corruzione); ora vede che le conseguenze nefaste del suo dono non gli sono imputate e non ledono il suo diritto alla beatitudine. Il primo beato che sta dove l'arco del ciglio si abbassa (ne l'arco declivo) è Guglielmo II il Buono, che governò quelle terre (Napoli e la Sicilia) che ora soffrono per i malgoverni di Carlo II d'Angio e Federico II d'Aragona; adesso lui sa quanto il cielo apprezzi un governante giusto, lo si vede dall'intensità della sua luce ("ora conosce come s'innamora / lo ciel del giusto rege, ed al sembiante / del suo fulgor lo fa vedere ancora"). Nessuno crederebbe, sostiene l'aquila, che la quinta anima del ciglio è del troiano Rifeo, un pagano; adesso lui conosce il mistero della grazia divina, che nel mondo non è possibile distinguere, benché non ne possa sondare la profondità come fanno le altre anime ("Ora conosce assai di quel che 'l mondo / veder non pò de la divina grazia, / ben che sua vista non discerna il fondo"). 
L'aquila tace, somigliando all'allodola che vola nell'aria e canta, per poi fermarsi come estasiata dalle ultime note del proprio canto. Riferendosi all'aquila, il poeta la definisce come impronta di Dio, per il cui desiderio ogni cosa diventa com'è ("Quale allodetta che 'n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de l'ultima dolcezza che la sazia, / tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta / de l'eterno piacere, al cui disio / ciascuna cosa qual ella è diventa"). Dante è però tormentato da un dubbio e, nonostante questo sia visibile ai beati, come se lui fosse di vetro trasparente, non ne sopporta il peso e finisce per chiedere cosa ha appena visto e udito (l'azione nei versi è descritta come se lui la subisse, è il peso del dubbio a cacciar fuori di forza le parole dalla sua bocca: "tempo aspettar tacendo non patìo, / ma de la bocca: <<Che cose son queste?>> / mi pinse con la forza del suo peso"). La luce delle anime aumenta, esse sono infatti contente di rispondere al dilemma che lo attanaglia; la risposta è data dall'aquila, il cui occhio aumenta di luminosità.
L'aquila spiega che vede come Dante creda alle sue parole, senza però riuscire a comprenderle, e per questo al suo intelletto restano oscure (ascose); fa come quello che conosce il nome di qualcosa e per questo capisce cos'è, senza però capirne la sostanza se qualcuno non gliela spiega. Il Regno dei cieli viene conquistato dalla carità e dalla speranza (il poeta lo descrive alla stregua di un atto violento scrivendo "violenza pate", cioè "subisce violenza"), le quali vincono la volontà di Dio; non è però una vittoria come quella dell'uomo che ne sopraffà un altro, la volontà divina infatti vuole essere vinta per trionfare con la sua bontà una volta che ciò è accaduto. Dante si meraviglia, constata l'aquila, per la presenza nel suo ciglio di due pagani (Traiano e Rifeo). Innanzitutto, a differenza di quel che crede, essi non morirono pagani, ma cristiani; Rifeo credendo al futuro martirio (passuri) di Cristo, Traiano al martirio già avvenuto (passi). L'aquila racconta la vicenda di Traiano: fu portato in vita dall'Inferno, dove non è più possibile il pentimento, per premiare la voglia che papa Gregorio mise nelle sue preghiere affinché l'antico imperatore romano potesse resuscitare ed essere convertito alla dottrina di Cristo; Traiano, nel poco tempo che rimase in vita, credette in colui che poteva salvarlo e si accese di un vero amore così ardente che lo rese degno di essere beato. Rifeo, in virtù della grazia divina, che sgorga da una sorgente così lontana che non può essere vista dall'occhio umano, si impegnò in vita per il bene e per la giustizia, per questo Dio gli fece conoscere il mistero della futura redenzione; lui credette nella fede cristiana e non riuscì più a tollerare le false credenze dei pagani, arrivando a criticare gli adepti (genti perverse); le tre donne che Dante vide vicino alla ruota destra del carro (le virtù teologali: fede, speranza e carità) lo battezzarono ben mille anni prima che il battesimo fosse istituito. Narrata la storia di Rifeo, l'aquila loda la predestinazione, la cui origine è così lontana dall'intelletto umano, che non può comprendere interamente Dio. Dopo la lode, c'è un ammonimento fatto agli umani: devono essere cauti nel giudicare perché i beati, che hanno il vantaggio di poter vedere Dio, non conoscono ancora chi sono tutti gli eletti, e questa mancata conoscenza è per loro motivo di letizia, perché conforma ancor di più la loro volontà a quella di Dio ("E voi, mortali, tenetevi stretti / a giudicar; ché noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti li eletti; / ed ènne dolce così fatto scemo, / perché 'l ben nostro in questo ben s'affina, / che quel che vole Dio, e noi volemo"). 
Il canto si conclude col poeta che constata come l'aquila abbia schiarito la sua vista confusa con una soave medicina, poi racconta che, durante la spiegazione data da quel simbolo divino, ha visto le luci di Traiano e Rifeo guizzare all'unisono così come battono le palpebre, ricordandogli il buon suonatore di cetra che, per rendere più piacevole il canto, lo accompagna col suono dello strumento.

Il canto è dominato dalle figure di Traiano e Rifeo, che servono al poeta per ribadire come la volontà divina e la grazia siano incomprensibili per la mente umana.
Riguardo la vicenda di Traiano, era molto in voga la leggenda della vedova a cui ho già accennato, tanto da essere ripresa anche nella Summa theologiae di san Tommaso. Sempre la leggenda, che viene qui ripresa da Dante, narra che papa Gregorio pregò Dio e ottenne che l'anima dell'imperatore salisse al cielo. Il poeta aggiunge il passaggio della breve resurrezione di Traiano e della sua conversione, io credo perché nel canto precedente i beati hanno detto che solo chi crede in Cristo può accedere al Paradiso, e l'imperatore non poteva fare eccezione.
Di Rifeo c'è molto meno da dire. Si tratta di un personaggio minore dell'Eneide di Virgilio, il quale con Enea organizza l'ultima disperata resistenza e in essa perde la vita. Dante si rifà alle poche parole che il poeta latino scrisse sull'eroe, con cui lo definì "giustissimo", e lo usa per rafforzare ciò che già voleva affermare con Traiano. Può anche essere che all'autore piacesse che tra i beati, insieme a un imperatore romano, vi fosse un troiano, di cui i Romani si consideravano i discendenti. 

Francesco Abate
   

lunedì 18 novembre 2019

COMMENTO DE "L'ISOLA DI LAGO DI INNISFREE" DI WILLIAM BUTLER YEATS

Adesso mi alzo e vado a Innisfree,
e lì costruisco una piccola capanna, fatta di argilla e vimini intrecciati;
metto nove filari di fave, un’arnia per il miele d’api,
e vivo solo nella radura ronzante d’api.

E avrò pace laggiù, perché la pace arriva fluendo lentamente,
fluendo dal velo del crepuscolo al posto dove i grilli cantano;
là la mezzanotte è tutta un luccichio, e il mezzodì un bagliore purpureo,
e la sera è piena delle ali del fanello.

Adesso mi alzo e vado, tutte le notti e tutti i giorni
sento l’acqua del lago sciabordare presso la riva con suoni lievi;
mentre resto fermo in strada, o sul grigio marciapiede,
la sento nel profondo del cuore.

Questa che ho riportato sopra è la traduzione fatta da me della poesia Lake Isle of Innisfree ("L'isola di lago di Innisfree"), una delle più famose poesie del poeta irlandese William Butler Yeats.
Yeats compose questa poesia nel 1888 e la pubblicò due anni dopo sul National Observer
Innisfree è una piccola isola dove Yeats trascorreva in gioventù le vacanze; si trova nel Lough Gill, lago della contea di Sligo, in Irlanda.
Come si può facilmente dedurre dal testo, la poesia rievoca la nostalgia di un rapporto più profondo con la natura, ponendola nei versi finali in contrapposizione con la sterile vita di città (rappresentata dalla strada e dal grigio marciapiede).
Raccontò Yeats che a ispirarlo fu un getto d'acqua che vide in una vetrina a Londra e che serviva per promuovere un refrigeratore di bevande; il lieve rumore di quell'acqua gli riportò alla mente il Lough Gill e la contea di Sligo.
Nei versi Yeats dichiara l'intenzione di voler andare a Innisfree. Nella prima quartina ci mostra il soddisfacimento dei bisogni fisici in armonia con la natura, coi filari di fave e il miele; nella seconda invece evidenzia il benessere spirituale che quel posto gli può dare; nell'ultima il poeta ci mostra il desiderio e la nostalgia che abitano il suo cuore, tanto da fargli sentire i suoni di quella natura mentre si trova nel bel mezzo della caotica e civile Londra.
Questa poesia si può considerare un inno alla natura, un desiderio di fuga dalla civiltà e ritorno alla vita semplice e in armonia con la terra. Yeats da giovane lesse i saggi di Thoureau, scrittore statunitense che si costruì una capanna nel bosco e visse isolato, per poi descrivere questo suo ritorno a un contatto intimo con la natura nel romanzo Walden; ovvero La vita nei boschi; è evidente in questo componimento l'influenza che Thoureu ebbe su Yeats, cosa che tra l'altro confessò lo stesso poeta irlandese.

Ho scoperto Yeats di recente e mi ha tanto affascinato che ho voluto condividere con voi questa poesia, che mi sono divertito a tradurre.
Di Yeats bisogna dire che è considerato uno dei poeti più importanti del Novecento e la sua influenza è viva ancora oggi, tanto che nel 1986 il cantautore italiano Angelo Branduardi ha inciso un album, Branduardi canta Yeats, in cui ha musicato alcuni dei componimenti del poeta (tra cui anche questo, da lui tradotto come Innisfree, l'isola sul lago).

Francesco Abate

giovedì 14 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Parea dinanzi a me con l'ali aperte
la bella image, che nel dolce frui
liete facevan l'anime conserte.
Parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne' miei occhi rifrangesse lui.
Il canto XIX inizia con l'autore che ci descrive cosa vede nel cielo di Giove e che impressione desta in lui. Gli appare l'immagine dell'aquila dalle ali aperte, formata dalle anime riunite insieme (conserte) nella lietezza della visione di Dio (nel dolce frui); ciascuna anima sembra al poeta un piccolo rubino (rubinetto) che viene colpito da un raggio di sole e lo riflette ai suoi occhi (chiara metafora della loro luce che riflette la grazia di Dio). 
A questo punto l'autore precisa che ciò che sta per raccontarci non è stato mai detto, né scritto, né compreso con l'intelletto; l'aquila parla (Dante sente infatti parlare il rostro, quindi il becco) dì sé in prima persona usando i pronomi "io" e "mio", ma intende in realtà la collettività delle anime che formano il suo disegno ("E quel che mi convien ritrar testeso, / non portò voce mai, né scrisse inchiostro, / né fu per fantasia già mai compreso; / ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro, / e sonar ne la voce e <<io>> e <<mio>>, / quand'era nel concetto <<noi>> e <<nostro>>"). Questa introduzione fatta dall'autore al discorso dell'aquila non ha solo lo scopo di favorire l'immaginazione del lettore, permette anche di mantenere l'attributo personale delle anime nonostante esse si esprimano collettivamente, riuscendo perciò a far coesistere la personalità dei singoli con l'universalità della giustizia divina a cui egli ora si rivolge.
L'aquila parla, spiega che si trova esaltata lì nel cielo di Giove, in quella gloria che non viene vinta dai desideri terreni, per essere stata in vita giusta e misericordiosa (ricordiamo che nelle Epistole e nel De Monarchia Dante illustrò l'idea dell'Impero, di cui l'aquila è simbolo, come fonte della pietà); tanto grandi furono le sue azioni, dichiara, che ancora oggi è ricordata anche dalle persone malvagie, le quali però la lodano (commendan lei) senza seguirne l'esempio. Il poeta nota come da tutte le anime esca una sola voce, così come da tante braci viene emesso un unico calore.
Sentite le parole dei beati, Dante parla loro, definendoli fiori che non avvizziscono mai perché irrorati dall'eterna grazia di Dio (l'eterna letizia) e che fondono i loro odori in un'unica perfetta fragranza. Il poeta gli manifesta un suo dubbio che sulla Terra non è mai riuscito a risolvere; lui sa bene, spiega, che la giustizia divina si specchia nel cielo in un'altra gerarchia che loro sono in grado di vedere chiaramente (che 'l vostro non l'apprende con velame), sanno poi bene quanto lui sia pronto e attento ad ascoltare le loro parole e li invita a parlare, non facendogli alcuna domanda perché loro sanno bene qual è il dubbio che lo tormenta.
Sentite le parole del poeta, l'aquila, che è formata dai beati che cantano lodi che solo in Paradiso si possono sentire, si anima, facendo come il falcone quando è liberato dal cappuccio di pelle, che sbatte le ali e si fa bello. L'aquila spiega al poeta che Dio, il quale tracciò i confini dell'universo e in esso pose le cose visibili e invisibili, non poteva fare ciò senza che il suo Verbo non restasse in eccesso, perché altrimenti l'universo sarebbe stato infinito; a mostrare la distanza tra la perfezione di Dio e l'imperfezione del creato c'è la vicenda di Lucifero ('l primo superbo), la più perfetta delle creature, che fu gettato via dal Paradiso per colpa della propria voglia di conoscere più di quanto poteva il suo intelletto senza aspettare il lume divino (per non aspettar lume); essendo la natura angelica incapace di vedere nella perfezione di Dio (quel bene che non ha fine e sé con sé misura), lo è di più quella umana, e la vista dell'uomo non può essere così forte da vedere Dio, visto che è solo uno dei raggi della Sapienza; l'uomo può vedere nella giustizia divina come l'occhio dentro il mare, che dalla riva vede bene il fondo, mentre dove l'acqua è alta non lo vede, benché il fondo ci sia comunque; l'unica luce che può portare alla vera conoscenza è quella che deriva da colui che mai si turba (Dio), le altri sono ombra o veleno. Fatta questa lunga premessa circa la necessità della Sapienza di Dio per la comprensione delle verità dell'anima, l'aquila passa ad affrontare direttamente il dubbio di Dante: adesso è stato aperto il nascondiglio (latebra) che celava al poeta la giustizia divina, spingendolo a chiedersi se sia giusto condannare un uomo nato sulle rive dell'Indo, dove nessuno parla del Vangelo e del Cristianesimo, che vive una vita retta nelle parole e nelle azioni, solo perché mai battezzato e non credente; l'aquila gli chiede come possa lui, che non vede a una spanna, giudicare ciò che succede a mille miglia di distanza; ci sarebbe ragione di dubitare, conclude, se non ci fossero le Sacre Scritture a guidare l'intelletto umano; Dio (la prima volontà) è il sommo bene e non si è mai mosso da sé stesso, in Lui volere il bene si traduce in causare il bene. In parole povere, gli spiriti del cielo di Giove spiegano che l'uomo non può comprendere la giustizia divina e deve astenersi dal giudicarla, deve solo ricordare che Dio è il bene e tutto ciò che da Lui è determinato è giusto.
Finito di parlare, l'aquila inizia a volare sopra il nido come la cicogna che ha sfamato i cuccioli e così Dante, come i cuccioli sfamati dalla madre, la guarda muoversi con le ali sospinte dai tanti voleri dei beati fusi in uno solo ("Quale sovresso il nido si rigira, / poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, / e come quel ch'è pasto la rimira; / cotal si fece, e sì levai i cigli, / la benedetta imagine, che l'ali / movea sospinte da tanti consigli"). Volando in circolo, canta che come il suo canto è incomprensibile per il poeta, così lo è la giustizia divina per i mortali. Poi l'aquila, quel simbolo che rende i Romani ancora degni di rispetto nel mondo ed è formato dai beati (quei lucenti incendi dello Spirito Santo), si ferma e ricomincia a parlare. Spiega che nessuno è salito in Paradiso senza aver creduto in Gesù Cristo, né prima né dopo la crocifissione, poi lancia un monito: quando verrà il Giorno del Giudizio, molti di quelli che invocano Cristo saranno più lontani a Dio di quelli che non lo conoscono; questi Cristiani ipocriti saranno condannati dall'Etiope quando saranno formate le due schiere, una di quelli che saranno eternamente ricchi (i beati) e l'altra di quelli che saranno eternamente poveri (i dannati). A questo punto l'aquila diventa più specifica e si rivolge direttamente ai re cristiani: si chiede cosa diranno i Persiani quando sarà aperto il libro in cui saranno riportate tutte le cattive azioni dei re cristiani (insinua che perfino i pagani resteranno inorriditi dai peccati dei re cristiani); si vedrà che l'imperatore Alberto d'Asburgo ha occupato il regno di Praga per toglierlo a suo fratello; si vedrà il dolore che porta in Francia Filippo il Bello, che produce monete false per pagare l'esercito invasore delle Fiandre, il quale morirà colpito da un cinghiale (una morte senza onore); si vedrà la superbia che spinge Edoardo II d'Inghilterra e Roberto Bruce di Scozia a farsi guerra per allargare i propri domini; si vedrà la vita lussuriosa e pigra di Ferdinando IV, re di Castiglia, e di Venceslao IV, re di Boemia, che mai conobbero valore; lo zoppo (Ciotto) di Gerusalemme, cioè Carlo II d'Angiò, vedrà nel libro segnate con una I le buone azioni e con una M quelle cattive, cioè saranno in rapporto di una a mille; si vedrà la viltà e l'avarizia di Federico II d'Aragona, che regge la Sicilia (l'isola del foco), dove morì il vecchio Anchise, e le sue malefatte saranno annotate con lettere abbreviate perché saranno troppe; saranno evidenziate le ignobili azioni dello zio e del fratello di Federico II (Giacomo re di Maiorca e Giacomo II re di Sicilia e d'Aragona), che hanno insozzato due grandi nazioni e due grandi dinastie; si conosceranno le malefatte di Dionisio l'Agricola, re del Portogallo, e di Acone VII, re di Norvegia, e quelle di Stefano Urosio II, re della Serbia orientale, che fu falsificatore di monete; beate sarebbero l'Ungheria e la Navarra, se la prima non si facesse malgovernare da Andrea III e la seconda usasse i Pirenei per non farsi annettere alla Francia; come anticipo di questo che ha detto, ognuno deve sapere che già l'isola di Cipro si lamenta per la tirannia della bestia che la governa, Arrigo II di Lusignano, che in quanto a turpitudine non si differenzia dai sovrani sopra citati.

Francesco Abate   

giovedì 7 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Già si godea solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l'acerbo;
e quella donna ch'a Dio mi menava,
disse: <<Muta pensier: pensa ch'i' sono
presso a colui ch'ogni torto disgrava>>.
Il canto XVIII comincia con l'immagine di Cacciaguida che si compiace del suo pensiero (verbo); ovviamente in questo compiacimento non c'è superbia perché egli non è soddisfatto di sé, bensì della luce divina in cui ha avuto visione del futuro di Dante, di cui egli è specchio (quello specchio beato). Il poeta intanto ripensa alla profezia dell'avo, mitigando l'amarezza per il futuro esilio col pensiero della gloria futura (temprando col dolce l'acerbo). Beatrice lo tranquillizza ricordandogli che lei si trova presso Dio, colui che ripara ogni ingiustizia; colei che lo ha tratto fuori dalla selva oscura, gli assicura che non gli negherà in futuro il suo sguardo benevolo e la sua intercessione presso Dio. Sentite le parole di conforto della donna, il poeta si gira verso di lei e nei suoi occhi vede splendere un amore di cui non può lasciarci alcuna descrizione; non sono l'incapacità di esprimersi o la mancanza di memoria a far desistere Dante dal descriverci ciò che vede, ma la consapevolezza che la mente umana non può richiamare a sé tale ricordo senza il sostegno della grazia di Dio. La visione di quello splendore toglie ogni desiderio e ogni turbamento dall'animo del poeta, perché sono i raggi che Dio indirizza sul viso di Beatrice e che da lì si riflettono verso di lui. La donna lo illumina con un nuovo sorriso e gli dice di prestare attenzione a Cacciaguida, perché non è solo nella contemplazione dei suoi occhi il Paradiso ("Vincendo me col lume d'un sorriso, / ella mi disse: <<Volgiti ed ascolta; / ché non pur ne' miei occi è paradiso>>").
Dante si volta verso Cacciaguida e nella sua luce vede che ha voglia di dirgli ancora qualcosa, così come guardando negli occhi una persona è possibile vederne il sentimento quando tutta l'anima ne è partecipe. L'avo paragona il Paradiso a un albero che viene nutrito dalla cima (cioè dalla grazia di Dio), fruttifica sempre e non perde mai nessuna foglia (accoglie sempre nuovi beati e non ne perde mai nessuno, essendo la beatitudine eterna); spiega che nel quinto cielo del Paradiso ci sono beati che in vita furono così importanti da poter essere con le loro gesta un ottimo argomento per la poesia; lo invita poi a guardare i bracci della croce, perché lui indicherà i nomi di alcune anime e queste, per farsi vedere, sfolgoreranno così come fa il baleno attraverso le nubi. Detto ciò, Cacciaguida elenca una serie di nomi: Giosuè, personaggio biblico che condusse il popolo ebraico nella Terra Promessa dopo la morte di Mosè; Giuda Maccabeo (l'alto Maccabeo), che liberò il popolo ebraico dalle imposizioni del re di Siria; Carlo Magno, qui collocato perché difese il papato dai Longobardi; Orlando, paladino di Carlo Magno, morto combattendo i Mori; Guglielmo d'Orange e il suo suddito Rainouart (Rinoardo), le cui statue furono erette ai lati del duomo di Verona; Goffredo di Buglione, che partecipò alla prima crociata e fu proclamato re della città santa; Roberto il Guiscardo, che promosse la riconquista della Sicilia occupata dai Mussulmani. Mostrati al discendente questi beati, Cacciaguida torna a ricongiungersi con le altre anime nella croce, e intona un canto così dolce che dà un'altra prova di quanto sia grande la sua arte di cantore delle cose divine ("Indi, tra l'altre luci mota e mista, / mostrommi l'alma che m'avea parlato / qual era tra i cantor del cielo artista").
Dante si gira verso destra per guardare Beatrice e sapere da lei, attraverso parole o gesti, cosa deve fare; vede la luce degli occhi della sua guida così splendenti da superare anche la loro ultima manifestazione (cioè quella che ci ha descritto nei primi versi del canto). Vedendo aumentare lo splendore della donna, Dante capisce di essere salito al cielo superiore, quello che descrive un arco più ampio rispetto al cielo di Marte; in Beatrice cresce la bellezza così come nell'animo dell'uomo disposto al bene cresce la virtù giorno dopo giorno (attraverso questa similitudine, l'autore ci mostra i valori della vita morale e quelli della perfezione del creato). Agli occhi del poeta si materializza un cambio di colore repentino: come il viso di una donna perde rapidamente il rossore e torna al candore naturale quando questa smette di vergognarsi, così lui vede svanire di colpo il colore rosso di Marte per far posto al bianco di Giove. L'autore definisce Giove "la temprata stella", questo perché Tolomeo riteneva il pianeta gigante una stella temperata, essendo posta tra il caldo Marte e il freddo Saturno. 
Dante vede i beati del cielo di Giove (lo sfavillar de l'amor che lì era) comporre con la loro luce delle lettere dell'alfabeto (nostra favella). Così come le gru si alzano in volo liete dopo essersi dissetate alla riva di un fiume, formando cerchi o una lunga fila, così i beati si dispongono mentre cantano a formare delle lettere: D, I ed L ("E come augelli surti di rivera / quasi congratulando a lor pasture, / fanno di sé or tonda or lunga schiera, / sì dentro ai lumi sante creature / volitando cantavano, e faciensi / or D, or I, or L in sue figure"). Le anime si muovono cantando e seguendo il ritmo del canto poi, formata la lettera, tacciono per un po' di tempo e gli danno la possibilità di leggerla. A questo punto l'autore invoca la diva Pegasea, che rende gloriosi e immortali gli ingegni dei poeti, così che essi riescano a rendere immortali le città e i regni, e le chiede di dargli la capacità di ricordare le lettere così come le vide, poi la incita a far risplendere nei versi seguenti la sua divina potenza. Secondo la maggior parte dei critici, la diva Pegasea non indica una Musa in particolare, ma è un'invocazione generica; secondo il mito, da un calcio del cavallo alato Pegaso scaturì in Elicona la fonte Ippocrene, detta appunto Pegasea, che era simbolo dell'ispirazione poetica.
Agli occhi di Dante si mostrano trentacinque lettere tra vocali e consonanti, e lui nei versi le annota nell'ordine in cui sono espresse. Prima compare la scritta "DILIGITE IUSTITIAM" ("amate la giustizia"), poi "QUI IUDICATIS TERRAM" ("voi che siete giudici sulla terra"); la scritta rappresenta il primo verso del libro della Sapienza, testo biblico attribuito a re Salomone. Le anime restano ferme sull'ultima lettera M, così da far sembrare l'argenteo Giove fregiato d'oro in quel punto. Vede poi altre anime fermarsi alla sommità della M, cantando quello che crede essere una lode al Dio che verso di sé le muove ("E vidi scendere altre luci dove / era il colmo de l'emme, e lì quetarsi / cantando, credo, il ben ch'a sé le move"). A un certo punto, Dante vede le anime salire ognuna a un'altezza diversa, determinata dal proprio grado di beatitudine; questa immagine gli ricorda le faville che si liberano dai tizzoni ardenti quando vengono percossi, sul cui numero e sul cui movimento gli stolti traggono i loro auspici. Ciascun'anima si ferma al suo posto, si forma il disegno della testa e del collo di un'aquila ("Poi, come nel percuoter de' ciocchi arsi / surgono innumerabili faville, / onde li stolti sogliono augurarsi, / resurger parver quindi più di mille / luci, e salir, qual assai e qual poco / sì come 'l sol che l'accende sortille; / e quietata ciascuna in suo loco, / la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi / rappresentare a quel distinto foco"). Colui che dirige la formazione del disegno, cioè Dio, non ha bisogno di prendere spunto dalla natura, bensì è Lui a imprimere alla natura la forma delle cose. Le anime rimaste a formare la M, che con le altre ferme alla sommità formano il disegno del giglio araldico (infatti l'autore parla d'ingigliarsi a l'emme), con piccoli movimenti vanno a completare il disegno dell'aquila. 
A questo punto l'autore si lancia in una lunga invettiva. Inizialmente glorifica Giove, la dolce stella, ricordando quale grande numero di anime (gemme) dimostrano che la giustizia sulla Terra discende proprio dal sesto cielo. Si rivolge poi a Dio, colui da cui nascono i moti e le virtù del cielo di Giove, pregandolo di guardare il luogo dove la cupidigia oscura il lume della giustizia, così che possa adirarsi di nuovo della presenza dei mercanti nel Tempio costruito con i miracoli e i martìri. Invita poi i beati del cielo di Giove, il cielo della giustizia, a pregare per coloro che sulla Terra sono sviati dal cattivo esempio dei papi. Prima si faceva la guerra con le spade, adesso invece i papi la fanno negando a loro piacimento il pane dell'Eucarestia, quel pane che Dio non nega a nessuno (si tratta di un chiaro riferimento all'abuso della scomunica). A questo punto il poeta si rivolge direttamente a un pontefice, colui che scrive solo per cancellare (allude all'annullamento dei benefici ecclesiastici, deciso per arricchire la Curia coi loro proventi), ricordandogli che Pietro e Paolo, che per la chiesa morirono, sono ancora vivi; immagina poi la risposta evasiva del papa, che si dichiara devoto di san Giovanni Battista (che visse solo nel deserto e morì a causa della danza di Salomè, la quale chiese la sua testa al padre come ricompensa) e dichiara di non conoscere il pescatore Pietro e nemmeno Paolo (Polo). Riguardo al papa a cui si riferisce Dante, la critica ritiene si tratti di Giovanni XXII; per quanto riguarda la frase di discolpa che il poeta gli attribuisce, probabilmente la dichiarata fedeltà a san Giovanni è un riferimento all'attaccamento del pontefice ai fiorini, il denaro fiorentino su cui c'era l'effige del santo, che fa rinnegare al capo della chiesa il culto di san Pietro (primo papa) e san Paolo.

Francesco Abate

sabato 2 novembre 2019

ESTRATTO N°2 DEL ROMANZO "I PROTETTORI DI LIBRI"

<<Per capire l'importanza del mio compito, devi chiederti perché il regime vuole impedire alla gente di leggere questi libri. Chiediti, anzi, perché nel corso della storia, molti regimi abbiano combattuto la cultura o abbiano cercato di assoggettarla. Il regime totalitario vuole rendere l'uomo un involucro senz'anima, trasformarlo in un suddito ubbidiente, nel semplice pezzo di un puzzle. L'uomo che legge è un uomo che pensa; l'uomo che pensa ha idee, giuste o sbagliate che siano, ha spirito critico. L'uomo che ha spirito critico sarà complice o nemico, ma non sarà mai schiavo. In un mondo pieno di gente che pensa, un regime totalitario ha vita breve perché finisce per avere troppi nemici. Io in cantina nascondo l'antidoto per il veleno che ha infettato la nostra società.>>

***

Con questo discorso il Protettore di Libri non solo chiarisce le ragioni che animano la sua sacra missione, ma spiega il motivo per cui io ho sentito il bisogno di scrivere questo romanzo.
Cosa sarà costretto a fare il nostro eroe per salvare il suo tesoro?
Scopritelo acquistando I Protettori di Libri su uno dei link che troverete in questa pagina. Il romanzo è disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.
Dopo averlo letto, non dimenticate di lasciare un commento sul blog, oppure sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese", o ancora sull'account Twitter "@FrancescoAbate3". 

Grazie e buona lettura.