sabato 25 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO VII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il canto VII dell'Inferno è uno dei più enigmatici dell'intera Divina Commedia. Il verso con cui si apre, il celebre "Pape Satàn, pape Satàn aleppe!" pronunciato da Pluto, appare criptico ed è stato interpretato nei modi più disparati. Già riguardo la lingua con cui si esprime il demone non c'è certezza, per alcuni la frase deriva dal latino, per altri dal greco, altri ancora leggono derivazioni da termini ebraici o arabi, c'è perfino chi pensa si tratti di un miscuglio di lingue diverse. Se le opinioni riguardo la lingua usata sono molteplici e discordanti, sul significato è anche peggio: per alcuni è un'invocazione a Satana, per altri una minaccia a Virgilio e Dante, per altri ancora un'espressione di stupore. Tanti critici autorevoli nel corso dei secoli hanno dato un'interpretazione originale a quest'espressione, riportare nel dettaglio tutte le teorie richiederebbe molto tempo e quindi non posso farlo qui. Per chi fosse interessato ad approfondire la questione, c'è un'ampia pagina ad essa dedicata sul sito della Treccani. Io in breve posso dirvi che le opinioni sono tante e tutte molto ben motivate, sia riguardo la lingua usata da Pluto sia sul significato delle parole, e di certo io non ho la preparazione culturale necessaria per stabilire quali siano più plausibili e quali meno. L'unica cosa che penso, e mi permetto di farla notare, è che a queste parole Virgilio risponde ricordando che il loro viaggio è voluto nei cieli, inoltre risponde anche con una certa veemenza, questo mi porta a pensare che quella di Pluto possa essere stata una minaccia fatta loro per impedirgli di proseguire oltre il loro cammino.
Le parole di Pluto sono enigmatiche, ma anche l'identità stessa del demone ha diviso i critici. Tutti siamo portati a pensare che Pluto sia Plutone, il dio degli inferi nella mitologia romana, ma pochi sanno che nella mitologia greca esisteva anche Pluto, dio della ricchezza. Essendo posto a guardia del cerchio in cui sono puniti avari e prodighi, cioè coloro che mal amministrarono le proprie ricchezze, sarebbe plausibile che il demone sia Pluto. Eppure se oggi lo conosciamo poco è perché già in epoca romana fu oscurato dal suo più celebre semi-omonimo (Plutone) e molti ritengono che Dante stesso non conoscesse la sua esistenza, optando quindi per l'idea che il demone che qui appare è Plutone. In fondo, essendo relegato negli inferi, anche al dio Plutone nella mitologia fu associata la ricchezza, infatti regnava nel sottosuolo e i metalli pregiati derivano da miniere poste sotto terra. Anche in questo caso, entrambe le teorie sono corrette. C'è inoltre da considerare che, in quanto divinità regnante sugli inferi, la figura di Plutone avrebbe avuto più senso identificarla con Lucifero, da Dante però il signore dell'Inferno è sempre chiamato Dite. Anche in questo caso le teorie sono diverse e tutte potenzialmente valide.
Il canto si apre quindi coi due poeti al quarto cerchio, alla cui guardia c'è Pluto. Alle parole del guardiano di cui ho detto sopra, Virgilio risponde bruscamente: gli intima di tacere e gli spiega che il viaggio è voluto nell'alto dei cieli ("Non è senza cagion l'andare al cupo: / vuolsi ne l'alto, là dove Michele / fé la vendetta del superbo strupo"). La risposta di Virgilio è dura sia nei toni, inizia infatti con l'imperativo "taci", sia nei modi, infatti nel citare il Paradiso ricorda al demone la vittoria dell'arcangelo Michele su Lucifero. In pratica Virgilio lo zittisce e gli fa capire che deve farsi da parte per volere di chi sconfisse lui e il suo signore. La guida di Dante poi si rivolge al guardiano chiamandolo "maledetto lupo", egli infatti è a guardia del cerchio dove è punita l'avidità, già in precedenza identificata con la lupa. Pluto è sconfitto dal discorso di Virgilio e cade a terra come le vele di una nave quando l'albero maestro si spezza.
Superata l'opposizione di Pluto, Dante vede i dannati costretti nel quarto cerchio e si abbandona ad un'amara riflessione: "Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa / nove travaglie e pene quant'io viddi? / e perché nosta colpa sì ne scipa?". Dante è sgomento di fronte alla giustizia divina che mette insieme pene e travagli, poi si chiede come possa l'essere umano cedere alle tentazioni che lo portano ad una condizione tanto miserabile. Agli occhi di Dante ci sono gli avari e i prodighi, cioè sono puniti insieme coloro che tennero per sé le ricchezze e coloro che le sperperarono. Ai dannati in questo cerchio tocca trascinare dei massi: come in vita si affaticarono a raccogliere oro, per l'eternità si affaticheranno a trascinare i massi. I dannati tanto sono numerosi che si scontrano più volte nel corso del loro tragitto lungo il cerchio, quando c'è l'urto succede che l'avaro chieda al prodigo perché abbia sprecato le ricchezze ("Perché burli?") e di rimando si senta chiedere perché le abbia tenute solo per sé ("Perché tieni?"). Vista la loro condizione, Dante chiede al suo maestro quale pena essi stiano scontando e se quelli che vede rasati siano tutti uomini di chiesa. Virgilio, per spiegargli che sono avari e prodighi, dice che essi furono ciechi che in vita non videro mai il giusto modo di spendere. Quando fa riferimento alle domande che si scambiano tra loro, la guida definisce le loro voci un abbaiare, continuando l'identificazione tra avidità e lupo, infine spiega a Dante che tra questi dannati vi sono chierici, cardinali e perfino papi. Dante a questo punto ritiene di poter riconoscere qualcuno tra queste anime, ma Virgilio gli spiega che non è possibile perché il loro peccato li fa bruni, cioè li rende irriconoscibili. 
Il discorso con cui Virgilio spiega a Dante che non può riconoscere alcun dannato in questo cerchio si conclude con un insegnamento, gli spiega che tutti i beni dovuti alla fortuna che ci sono sulla Terra non potrebbero dare un po' di risposo nemmeno ad una di queste anime stanche. Dante si aggancia a questo discorso per chiedere cosa sia questa fortuna che ha tutti i beni del mondo tra gli artigli ("tra le branche"). Virgilio spiega quindi cosa sia la fortuna: Dio creò i cieli e i Motori (le Intelligenze) che li muovono e riflettono in ogni parte di essi la luce divina, ordinò poi un'Intelligenza a cui spetta il compito di permutare i beni terreni da una persona all'altra secondo logiche poste al di sopra delle leggi e delle ragioni umane. La guida spiega poi che spesso gli umani maledicono la fortuna, ma ella non se ne cura. 
Finito di spiegare la fortuna a Dante, Virgilio lo accompagna nel quinto cerchio. Per arrivarci i poeti passano sopra una sorgente che riversa le sue acque in un fossato. Sono arrivati nella palude del fiume Stige, il secondo fiume infernale. Questo corso d'acqua forma un pantano fangoso in cui sono immerse anime nude dal volto che tradisce rabbia ("con sembiante offeso"). Sono al cospetto degli iracondi, coloro che in vita si lasciarono vincere dall'ira. La loro punizione consiste nel azzuffarsi come bestie nello Stige, non possono infatti usare le mani, quindi si colpiscono tra loro con la testa, col petto, coi piedi e addirittura azzannandosi. Virgilio spiega a Dante quale colpa stiano espiando i dannati immersi nel fiume, gli dice poi che ce ne sono altri completamente immersi, la cui presenza è rivelata solo dalla presenza delle bolle sulla superficie. I dannati immersi completamente, spiega la guida, sono coloro che furono iracondi repressi, cioè covarono dentro la rabbia e i desideri di vendetta senza mai passare all'azione. Virgilio attribuisce a queste anime le seguenti parole: "Tristi fummo / ... / portando dentro accidioso fummo". Per capire questo passaggio è necessario ricordare che san Tommaso, nel Commento all'Etica, divise gli iracondi in: acuti, che sono coloro che manifestano subito l'ira; amari, che nascondono la rabbia dentro; difficili, che coltivano pensieri di vendetta senza mai metterli in pratica. Alle ultime due categorie, gli amari e i difficili, san Tommaso accostò il carattere della tristezza, ecco perché Dante fa dire agli iracondi, che si tennero dentro l'accidioso fummo (si ricordi che l'accidia è la mancanza di azione), "Tristi fummo". L'immagine che Virgilio regala a Dante è realisticamente cruda, egli infatti riporta le parole dei dannati immersi nello Stige, ma poi dice che queste parole "si gorgoglian ne la strozza, / ché dir nol posson con parola integra ", cioè gli sono rotte dall'acqua dello Stige che gli entra in gola.
Il canto si chiude coi due poeti che percorrono il cerchio guardando le acque del fiume, finché non giungono ai piedi di una torre.

Francesco Abate

mercoledì 22 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO VI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Al risveglio dallo svenimento causatogli dalla triste condizione di Paolo e Francesca, Dante si rende conto di essere circondato da "novi tormenti e novi tormentati" e non vede altro ovunque si volti. Il poeta si trova nel terzo cerchio, dove sono puniti i golosi. I dannati destinati al terzo cerchio, avendo dedicato la loro vita al buon bere ed al buon mangiare senza misura, sono tormentati da una eterna pioggia lurida e sono essi stessi pasto della bestia Cerbero. Loro che amarono i buoni sapori, sono immersi in una pozza nauseabonda e puzzolente, inoltre amarono mangiare e per questo sono mangiati. Cerbero è una creatura che la mitologia greca e romana ponevano a guardia della porta infernale, è citato anche nel mito di Orfeo (che lo addormenta col suono della sua lira) e in quello di Ercole (che lo uccide). Anche Virgilio lo inserì nell'Eneide, allorquando Enea scende negli Inferi e viene aiutato a superare la bestia dall'intervento della Sibilla. Dante ci descrive il terribile Cerbero come una bestia dalle tre teste, "Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e 'l ventre largo, e unghiate le mani", che scuoia e squarta i poveri dannati che gli capitano a tiro. Il poeta ci descrive il dramma dei golosi: urlano come cani, perdendo completamente la loro umanità; cercano di farsi scudo con altre anime, per evitare la pioggia lurida e i colpi di Cerbero; si voltano ora da un lato ora dall'altro in cerca di un momentaneo conforto che non arriverà mai. 
Non appena Cerbero nota la presenza di Dante e Virgilio, inizia a ringhiare e ad agitarsi: "le bocche aperse e mostrocci le sanne; / non avea membro che tenesse fermo". Virgilio prende della terra sudicia dal suolo e la getta tra le sue fauci, la bestia con immensa avidità si preoccupa solo di divorare il suo pasto e Dante ci rende questa scena con un paragone: "Qual è quel cane ch'abbaiando agogna, / e si raqqueta poi che 'l pasto morde, / ché solo a divorarlo intende e pugna, / cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che 'ntrona / l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde".
Dante e Virgilio camminano passando sopra le anime abbattute dalla pioggia lurida. D'improvviso una di loro chiede al poeta di riconoscerlo. L'anima in questione è quella di Ciacco, un concittadino del poeta, il quale crede di poter essere riconosciuto perché morì che Dante era già adulto, infatti gli dice: "riconoscimi, se sai: / tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto". Dante però non lo riconosce, si scusa con lui attribuendo questa sua incapacità al fatto che i lineamenti del suo viso sono alterati dalla sofferenza, e gli chiede di dirgli chi sia e perché sconti quella condanna. Ciacco si presenta subito con un'invettiva contro Firenze ("La tua città, ch'è piena / d'invidia sì che già trabocca il sacco"), poi indica il suo soprannome e spiega che gli fu affibbiato proprio per la golosità che l'ha condannato all'eternità. L'identità effettiva di Ciacco non è nota, nell'opera compare solo col soprannome che come sostantivo nella Firenze antica voleva dire "porco", anche se nel canto Dante non lo usa mai in senso dispregiativo e per questo molti critici lo intendono come nome proprio effettivo. Dante, saputo che Ciacco è un suo concittadino, gli chiede informazioni riguardo il futuro di Firenze. In questo canto abbiamo quindi le prime predizioni del futuro (ricordiamo che Dante ambienta la Divina Commedia in un periodo antecedente l'anno in cui la scrisse, quindi le predizioni narrano fatti che già erano storia) e arrivano per bocca di Ciacco. Le lunghe tensioni tra guelfi Bianchi e Neri scaturiranno in un fatto di sangue (presumibilmente uno scontro tra le due fazioni in piazza S.Trinità la sera del calendimaggio del 1300), la parte Bianca ("la parte selvaggia", perché capitanata dalla famiglia dei Cerchi, che provenivano dal contado) vincerà e nel giugno del 1301 i Neri verranno privati degli uffici civili ed espulsi dalla città, subendo anche delle ammende pecuniarie. I Neri però tireranno dalla loro parte Bonifacio VIII, già interessato alla conquista di Firenze, e il suo intervento li porterà di nuovo al governo della città, con la conseguente cacciata dei Bianchi. Ciacco poi allude al lungo periodo in cui governeranno i Neri e all'esilio che toccherà ai Bianchi: "Alte terrà lungo tempo le fronti, / tenendo l'altra sotto gravi pesi, / come che di ciò pianga o che n'aonti". Il suo discorso Ciacco lo conclude con un'amara sentenza, dice che "Giusti son due" e che i cuori sono accesi da superbia, invidia e avarizia. Sull'espressione "Giusti son due" ci sono due diverse interpretazioni: per alcuni indica che la giustizia è nel diritto naturale e in quello legale, in contrapposizione ai mali che invece governano la disputa, altri invece ritengono sia semplicemente un modo per far capire che di persone davvero giuste ce ne fossero pochissime. Sentita la predizione, Dante gli chiede notizia di alcuni personaggi politici noti, Ciacco gli spiega che sono più giù nell'Inferno perché colpevoli di peccati più gravi. Il dialogo si conclude con una preghiera, Ciacco infatti prega Dante di fare in modo che i fiorentini lo ricordino, infine gli dice di non chiedere più nulla perché più a niente risponderà.
Finito il dialogo, Virgilio spiega a Dante che le anime resteranno lì finché non vi sarà la venuta di Cristo, dopo la quale riprenderanno il loro corpo e la figura mortale e con essi ascolteranno il Giudizio Universale ("quel ch'in etterno rimbomba"). Dante a questo punto chiede se i loro tormenti, dopo il giudizio ultimo, cresceranno o diminuiranno. Virgilio richiama alla mente di Dante la filosofia aristotelica ("Ritorna a tua scienza") secondo cui più una cosa è perfetta, più sente il bene e il male. L'unità corpo e anima porta perfezione, quindi una volta che si saranno congiunti al loro corpo, i dannati patiranno ancor di più ciò che già stanno patendo. Finito questo discorso, i poeti scendono al quarto cerchio.

Per concludere il commento, voglio rapidamente spiegare come possano le anime provare dolore, pur non abitando più un corpo. La questione verrà trattata da Dante stesso nel canto XXV del Purgatorio, ma essendo che qui già vediamo anime soffrire per la pioggia e le zampate di Cerbero, è giusto fare chiarezza. Per Dante, quando una persona muore, la potenza sensitiva dell'anima rientra nella virtù informativa, in quella vita che aveva potenzialmente nel seme dell'uomo. La virtù informativa forma quindi una sorta di immagine visibile dell'anima capace di provare le stesse sensazioni che il corpo provava in vita. Se ci pensate, questa teoria permetterebbe anche di spiegare l'esistenza dei fantasmi, ma questo non c'entra niente con la Divina Commedia.

Francesco Abate         

domenica 19 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO V DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Nei primi versi del canto V, in cui Dante scende dal primo al secondo cerchio, ci viene spiegata una caratteristica importante dell'Inferno. Il regno di Lucifero è a forma di imbuto, cioè si stringe man mano che si procede verso il basso, ed è diviso in cerchi. Il secondo cerchio è quindi meno ampio del primo, ma la pena che lo abita è maggiore. I dannati sono indirizzati al cerchio dove è punito il peccato che li ha allontanati dalla grazia di Dio, più in basso nell'Inferno sono destinati e più è grave la colpa che li ha perduti, quindi più è terribile la pena che patiranno per l'eternità. A destinare le anime al cerchio corrispondente la loro pena c'è Minosse, che "essamina le colpe ne l'intrata" e attorciglia la coda intorno al proprio corpo. Il numero di cerchi formati dalla coda del giudice infernale corrisponde al numero del cerchio a cui è destinata l'anima dannata. Dante lo vede e lo spiega chiaramente: "Dico che quando l'anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de la peccata / vede qual loco d'inferno è da essa; / cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa". Notata la presenza di un uomo ancora in vita, Minosse si rivolge minaccioso a Dante, dapprima cerca di minare la sua fiducia nei confronti di Virgilio ("guarda com'entri e di cui tu ti fide"), poi lo invita a non farsi incoraggiare dall'ampiezza dell'ingresso che conduce all'Inferno. L'ingresso dell'Inferno è infatti comodo, ma conduce all'eterna perdizione, ad una condizione che l'essere umano dovrebbe fuggire ad ogni costo. Virgilio non si lascia intimorire e risponde perentoriamente a Minosse, sfidandone apertamente l'autorità prima chiedendogli perché gridi, poi spiegandogli che "vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole", cioè che Dante è lì per volontà dell'onnipotente, infine gli ordina di non fare più domande. Il giudice infernale, colui che decide la sorte delle anime senza alcuna possibilità d'appello, viene zittito in modo perentorio. 
Superata l'opposizione di Minosse, Dante si trova in un luogo dove le anime sono in balìa di un violento uragano e volano trasportate dal vento. Ad essere puniti in tal modo sono i lussuriosi, in questo canto vediamo un contrappasso per analogia: così come in vita si abbandonarono al vento della passione, per l'eternità sono travolti dal vento infernale. Per descrivere la situazione dei lussuriosi e il gran numero di anime perse nel vento, Dante li paragona agli storni che volano in numerosi branchi nel vento invernale: "E come li stornei ne portan l'ali / nel freddo tempo, a schiera larga e piena, / così quel fiato li spiriti mali / di qua, di là, di giù, di sù li mena". Anche per descrivere i lamenti del gruppo di lussuriosi che gli si avvicinano, Dante si affida ad un paragone ornitologico, i loro lamenti infatti assomigliano al canto delle gru in volo. Dante chiede alla sua guida chi siano le anime che si sono approssimate, Virgilio gliele indica. La prima anima è Semiramide, regina degli Assiri, che per giustificare agli occhi dei sudditi la sua vita licenziosa promulgò una legge che permetteva ai sudditi di comportarsi allo stesso modo ("A vizio di lussuria fu sì rotta, / che libito fé licito in sua legge"). La seconda anima è quella di Didone, mitica regina di Cartagine, che in vita aveva promesso di restare vedova fedele al marito Sicheo, promessa che ruppe quando si innamorò e si concesse ad Enea. La terza è Cleopatra, regina d'Egitto che sedusse Cesare e Marco Aurelio. Ci sono poi Elena di Troia, Achille, Paride e Tristano. Le anime elencate da Virgilio non sono accomunate solo dal peccato di lussuria, si tratta infatti di personaggi che per amore sono morti in modo violento, per mano propria o altrui.
Finito l'elenco di Virgilio, Dante nota due anime "che 'nsieme vanno, / e paion sì al vento esser leggieri" e chiede al suo maestro di poter parlare con loro. Virgilio gli dice che potrà farlo non appena saranno vicine. Le due anime in questione sono quelle di Francesca e Paolo. La prima a parlare è la donna, che rivolgendosi al poeta mostra subito una grande dolcezza e sensibilità, dicendogli che pregherebbe per lui che di loro mostra pietà, se solo Dio fosse "amico". Essendo dannati, essi non possono pregare, quindi le parole di Francesca mostrano tanto l'apprezzamento per la pietà di Dante quanto l'angoscia di non essere nelle grazie di Dio. Dopo aver spiegato le sue origini, in modo da sottolineare il rimpianto per non godere più della vista di quei luoghi, la donna si abbandona ad un discorso dolcissimo, sottolineato dai versi di Dante che qui, a mio parere, vanno per forza riportati interamente:
"Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense."
Nei versi di Francesca da Rimini notiamo che non c'è rancore nei confronti di Paolo, il suo amante, colui che ha fatto nascere in lei la passione che l'ha perduta. Francesca parla dell'amore come fosse un'entità animata, che compie delle azioni e ha una volontà. L'amore, che si sviluppa nel cuore gentile (è quindi una qualità positiva, nonostante li abbia perduti), si impossessò di Paolo che fu ucciso. Francesca si innamorò a sua volta di Paolo, perché l'Amore non consente a chi è amato di non amare, e sottolinea come sia tutt'ora innamorata di lui. Essi sono quindi vittime dell'Amore, non colpevoli, e la morte non ha spento il loro sentimento. Il discorso si conclude con una sentenza: Gianciotto, marito di Francesca, colui che uccise lei e il suo amante, è atteso laddove si punisce chi ha versato il sangue dei congiunti. Le ultime parole possono sembrare un'invettiva, ma allo stesso tempo potrebbero essere una semplice constatazione. A mio parere sono valide entrambe le tesi, infatti la dolcezza del personaggio stona con l'auspicio di un'eterna pena per il suo assassino, allo stesso tempo però all'Inferno i dannati (lo vedremo anche in seguito) spesso si consolano sperando che tocchi qualcosa di peggio ad un loro nemico. 
Sentito il discorso della donna, Dante rimane pensieroso. Il poeta si chiede infatti come si sia scatenato l'amore tanto forte da perdere per sempre due anime tanto dolci. Francesca, dopo aver detto che non c'è niente di peggio che ricordare i tempi felici nel momento di miseria, racconta la sua storia. Stavano leggendo un libro che narrava della passione di Lancillotto per la regina Ginevra, erano soli ma nelle loro intenzioni non c'era nulla di malvagio, semplicemente leggevano insieme. Quando arrivarono al punto in cui Lancillotto bacia Ginevra, Paolo fu vinto dal trasporto amoroso e le baciò la bocca. Anche la narrazione della vicenda fornisce molti spunti. Come si vede, anche il libro che Paolo e Francesca stavano leggendo, e che favorì il loro sentimento, narrava della lussuria (Lancillotto amava Ginevra, moglie di re Artù) e la faceva trionfare. Secondo i critici, si fa riferimento ad un testo molto diffuso all'epoca di Dante e proibito con una Bolla di Innocenzo III. In questo caso vediamo quindi la cattiva cultura come veicolo che porta alla perdizione, e Francesca stessa esclama "Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse". Il canto si conclude con la descrizione di ciò che il poeta vede. Mentre Francesca parla, Paolo piange e tace. Tanto è triste la scena che Dante sviene.

Francesco Abate

sabato 11 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO IV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il canto inizia con Dante che viene risvegliato dal sonno. Così come i suoi sensi erano stati spenti da un prodigio alla fine del canto III, un nuovo miracolo, per l'esattezza un tuono, lo riporta in sé. Il poeta si guarda intorno e si rende conto di aver passato l'Acheronte e di trovarsi sulla riva "de la valle d'abisso dolorosa / che 'ntrono accoglie d'infiniti guai". Tanto è fitta l'oscurità in cui si trova immerso il poeta da impedirgli di distinguere alcuna cosa. Ovviamente l'oscurità di cui ci parla Dante è la mancanza della luce divina che penetra tutto l'universo, non c'è grazia di Dio nel luogo dove lui si trova adesso. La mancanza di luce causa smarrimento, ecco intervenire  il sapiente Virgilio, che invita Dante a seguirlo, assumendo nuovamente il ruolo di guida spirituale con le parole "Io sarò primo, e tu sarai secondo". Virgilio però è pallido, Dante pensa che ciò sia dovuto alla paura del viaggio imminente, dubita quindi nella validità di quella guida e manifesta la sua perplessità "dissi: << Come verrò, se tu paventi / che suoli al mio dubbiare esser conforto? >>". Virgilio a questo punto lo rassicura, spiegandogli che il suo pallore non nasce dalla paura, bensì dalla pietà per le anime che patiscono le loro pene nell'Inferno, e lo esorta a non perdere più tempo. 
Dante, seguendo il suo maestro, si ritrova nel primo cerchio dell'Inferno. Qui si trova nel Limbo, il luogo dove sono puniti coloro che non conobbero la Parola di Dio perché nati prima dell'avvento del Cristianesimo, coloro che non credettero nell'avvento futuro di Cristo, e i bambini non battezzati. Essendo queste anime non colpevoli di uno specifico peccato, pagano semplicemente la mancanza di fede, non subiscono una pena fisica, semplicemente vivono in eterno nella consapevolezza di non giungere mai alla beatitudine. Non essendo tormentati e straziati come le altre anime dell'Inferno, i dannati qui non piangono, semplicemente sospirano: "Quivi, secondo che per ascoltare, / non avea pianto mai che di sospiri / che l'aura etterna facevan tremare;". Virgilio spiega a Dante quali anime abitano il primo cerchio, facendogli capire con l'espressione "semo perduti" che anche lui paga lì la sua pena. La consapevolezza che il suo maestro sia un'anima perduta nelle tenebre mette tristezza a l poeta, che nei suoi versi constata come "gente di molto valore / conobbi che 'n quel limbo eran sospesi". Quest'ultima considerazione apre un confronto tra la ragione e la giustizia divina. Il poeta trova tra i dannati dei personaggi che egli considera valorosi, quindi Dio ha punito persone che per il metro di giudizio umano sarebbero da premiare. Vediamo quindi l'incapacità della ragione di comprendere appieno la giustizia divina, nei versi il poeta sembra quasi non capacitarsi che personaggi come Virgilio possano essere puniti, eppure è così. Il Limbo inteso come luogo di pena eterna per le anime che non hanno vissuto nella fede in Cristo apre la strada ad una questione spinosa. I patriarchi dell'Ebraismo, come ad esempio re David, nacquero prima dell'avvento del Figlio di Dio, furono quindi destinati al Limbo? Essi sono anche patriarchi del Cristianesimo. L'ambiguità viene subito risolta da Dante che chiede al maestro se mai alcun'anima sia uscita dal Limbo. Virgilio gli spiega che, poco tempo dopo la sua discesa nel primo cerchio, vide "venire un possente, / con segno di vittoria coronato.", si trattava di Gesù Cristo, che portò via dall'Inferno l'anima di Adamo, quella di Abele, quella di Noè, quella di Mosè, quella di Abramo, quella di re David e in generale quelle di tutti i patriarchi di Israele. Essi infatti non avevano assistito alla venuta di Cristo, però ci avevano creduto e l'avevano desiderato per millenni nel Limbo, quindi erano ormai meritevoli della beatitudine. Virgilio spiega poi che nessuno prima di loro fu mai salvato. 
I due poeti non hanno percorso ancora molta strada tra le anime del Limbo, quando Dante vede un fuoco che parzialmente vince le tenebre del luogo. Si tratta di un castello in cui vivono le anime che, pur non credendo in Cristo, si distinsero in vita nelle arti. La loro grandezza ha disposto Dio a loro favore, così che gli è stata assegnata una posizione favorevole nel Limbo stesso ("L'onorata nominanza / che di lor suona sù ne la tua vita, / grazia acquista in ciel che sì li avanza". Queste anime accolgono tra gli elogi Virgilio. Dante vede queste anime dalla sembianza "né trista né lieta", infatti esse non patiscono alcuna pena e allo stesso tempo non hanno speranza di vivere la grazia eterna. Virgilio indica al suo protetto queste quattro anime: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Il discorso di Virgilio col quale indica i quattro grandi della poesia si conclude con un verso che, a una lettura superficiale, può farci vedere della presunzione. "fannomi onore, e di ciò fanno bene" dice infatti la guida. Nonostante Dante ammiri Virgilio al punto di eleggerlo come rappresentante della ragione, riesce difficile pensare che gli attribuisca una tale presunzione nella sua opera. Ritengo molto più plausibile che Dante, per bocca del suo maestro, voglia indicare come giusto il rendere onore all'arte, di cui in quel frangente Virgilio è un rappresentante. La frase assume quindi un significato più profondo e indica forse anche una speranza, Dante è infatti un poeta e si augura di ricevere gli onori dovuti alla sua arte nella propria patria. Nei versi che seguono infatti le grandi anime della poesia, dopo aver parlato un po', lo invitano tra loro "sì ch'io fui sesto tra cotanto senno". I sei poeti camminano fino al castello parlando di argomenti non attinenti ai temi del poema ("cose che 'l tacere è bello"). Per i critici il castello rappresenta la filosofia. Questo, ci dice Dante, è circondato da sette fila di mura e da un piccolo fiume. Per entrarvi il poeta deve passare sette porte. Sul significato di queste mura e queste porte i critici non sono concordi. Per alcuni le sette mura rappresentano le sette parti della filosofia (fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica, dialettica), mentre le sette porte indicano le sette arti liberali del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (musica, aritmetica, geometria, astronomia); altri vedono nelle sette mura le quattro virtù morali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) e le tre intellettuali (intelligenza, scienza, sapienza). Anche sulla simbologia riguardante il fiume ci sono diverse interpretazioni, Boccaccio per esempio vi vide il simbolo delle ricchezze e delle gioie materiali, che a vedersi sono invitanti ma possono portare alla perdizione. Una volta dentro al castello, Dante vede queste anime sagge il cui aspetto rappresenta l'idea stessa del sapiente ("Genti v'eran con occhi tardi e gravi, / di grande autorità ne' lor sembianti: / parlavan rado, con voci soavi"). A questo punto il poeta ci elenca le anime che riconosce nel castello, indicando numerosi personaggi celebri nella storia e nella leggenda di Roma (a partire dai troiani), filosofi e scienziati greci, e tre importanti personaggi mussulmani (Saladino, Avicenna e Averroè). Può incuriosire in un'opera permeata di teologia cristiana la presenza di personaggi mussulmani, ma non dobbiamo dimenticare che nel castello del Limbo vi sono grandi uomini di cultura che non conobbero la fede in Cristo. Saladino quindi è inserito tra i grandi perché fu liberale nei confronti dei cristiani, Avicenna e Averroè furono invece due grandi filosofi molto noti nel Medioevo. Alla fine del canto, terminato l'elenco, Dante ci dice di non poter citare tutte le anime perché son troppe, il gruppo di sapienti si scioglie e lui resta di nuovo solo con Virgilio ("La sesta compagnia in due si scema"). Insieme escono dal castello e tornano tra le tenebre, riprendendo il cammino nell'Inferno.

Francesco Abate   

"NEDDA" DI GIOVANNI VERGA

Nedda è una novella di Giovanni Verga pubblicata il 15 giugno 1874 sulla << Rivista letteraria di scienze, lettere e arti >>. Siamo negli anni in cui lo scrittore cominciò ad avere successo, il suo pubblico era perlopiù composto da ricchi borghesi e le sue storie erano ancora ben lontane dal Verismo. Nonostante queste premesse, però, in Nedda troviamo diverse caratteristiche che ritroveremo nelle opere future dello scrittore, già in questa novella Verga imboccò la strada che lo avrebbe portato a Vita nei campi, Novelle rusticane ed al ciclo I vinti.

La novella narra di Nedda, una povera contadina stagionale addetta alla raccolta delle olive. Già all'inizio della vicenda la troviamo indebitata e con la madre malata da mantenere. L'anziana madre muore, lei sembra sprofondare definitivamente nelle tenebre dell'infelicità, finché non arriva l'amore di Janu a tirarla su. Nel momento in cui la vicenda sembra prendere una piega felice, Janu si ammala e in poco tempo muore. La novella si conclude con la morte anche della piccola figlia di Nedda, uccisa dalla fame e dagli stenti.
Come detto sopra, all'epoca della stesura di questa novella Verga era uno scrittore popolare tra la classe dei ricchi borghesi. La letteratura che si offriva a questo pubblico all'epoca era finalizzata a colpire, la povera Nedda nacque per commuovere il pubblico e per farlo partecipare alle sue disgrazie. Non c'è ancora l'impersonalità tipica del Verismo, ma nella novella troviamo già la descrizione della miseria e l'impossibilità di liberarsi di essa che sarà tipica di tutta la produzione successiva dell'autore.
La povera Nedda non riesce ad emergere in alcun modo dalla sua miseria. All'inizio della vicenda è disperata per le condizioni della madre, povera e indebitata; alla fine la troviamo disperata e povera. Nonostante in mezzo trovi l'amore, un nuovo lavoro e una figlia, la sua condizione economica e quella morale non progrediscono. Nemmeno fa in tempo a sfiorare la felicità, ad assaggiarla, che una disgrazia la ripiomba nella cupa disperazione da cui partiva. La sua vita è talmente misera e dolorosa che finisce per ringraziare la Madonna quando le muore la figlia: nella morte non vede la fine di un dono, bensì la liberazione da un supplizio. Proprio quest'ultimo tema, quello della morte come liberazione dalle sofferenze, si ritrova spesso nelle novelle incluse nella raccolta Vita nei campi.

Verga da molti è considerato deprimente, io invece ritengo la sua produzione fondamentale. Oggi lodiamo quegli autori che usano la loro arte per evidenziare le disgrazie di coloro che soffrono, cercando di alimentare un dibattito su quanto sia ingiusto che la vita per alcuni sia così misera. Oggi si fa per i migranti, per i tossicodipendenti e altre categorie definite "svantaggiate". Le categorie svantaggiate di una volta erano i contadini, i poveri, e nel Mezzogiorno le condizioni peggioravano ancor di più rispetto al nord Italia. Verga con le sue opere non voleva deprimere il lettore, voleva a mio parere metterlo davanti ad una realtà triste e dura che molti ignoravano. Tutti parliamo sempre di miseria, ma pochi la conoscono davvero, e all'epoca non credo che ci fosse molta differenza. A Verga credo vada riconosciuto il merito di aver voluto con i suoi scritti mettere davanti agli occhi di tutti delle condizioni di miseria che molti nemmeno immaginavano esistessero. "Miseria" per molti era solo una parola, lui volle far capire cosa essa significasse davvero. Già in Nedda vediamo questo, infatti la povera contadina patisce una serie di disgrazie che nella Sicilia dell'epoca erano piuttosto comuni, quindi la sua deprimente storia probabilmente sarà stata vissuta da tante persone. 

Francesco Abate

domenica 5 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO III DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

"PER ME SI VA NELLA CITTA' DOLENTE, 
PER ME SI VA NELL'ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA E 'L PRIMO AMORE.
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH'INTRATE".
Con queste parole si apre il canto III dell'Inferno. Dante le legge sulla sommità della porta dell'Inferno e non sono altro che una breve ma efficace descrizione di cosa sia il regno di Lucifero. La scritta sottolinea la natura delle anime che varcano quella soglia (la "perduta gente") e l'eternità della pena che spetta loro. Essa rivela però molto di più, spiegando che l'eterna punizione non è un atto di vendetta, bensì di giustizia. Proprio la giustizia spinse Dio a creare l'Inferno, il luogo dove le anime perdute subiscono supplizi per l'eternità. Nulla è antecedente alla creazione dell'Inferno, se non le cose eterne, quindi tutto ciò che riguarda il mondo sensibile è stato creato dopo. La scritta si conclude con un terribile monito, chiunque entra all'Inferno infatti non può sperare in nulla perché la pena è eterna.
Dante non comprende il significato delle terribili parole che legge, esse infatti rivelano una verità ultraterrena che difficilmente può essere compresa dalla mente imperfetta di un essere umano. Virgilio gli spiega che dovrà abbandonare timori e viltà, dovrà affidarsi a conoscenza e fede senza titubare per non perdersi nel complesso viaggio che sta intraprendendo. Gli spiega poi che vedrà coloro "c'hanno perduto il ben de l'intelletto", cioè le anime che mai potranno vedere la verità ultima, che è Dio. Virgilio poi prende una mano a Dante, confermandosi nel ruolo di guida sicura e amorevole allo stesso tempo, così entrano nel luogo che la ragione senza la rivelazione non può conoscere.
Subito Dante si trova immerso in un'atmosfera terribile, in una tenebra priva di stelle e qualsiasi altra fonte di luce. La tenebra di cui parla il poeta si giustifica facilmente col fatto che egli è penetrato nelle viscere della Terra, ma allo stesso tempo simboleggia il tormento morale che attanaglia l'anima lontana dalla luce di Dio. Si trova di colpo immerso nel dolore eterno promesso dalla porta, dove riecheggiano "sospiri, pianti e altri guai".
Nel dialogo che segue tra Dante e Virgilio, scopriamo che essi sono al cospetto della prima schiera di peccatori: gli ignavi. Si tratta di coloro che in vita mai presero una posizione, non furono né buoni né cattivi, non si schierarono né dalla parte del bene né da quella del male. Il loro peccato è tanto odioso da collocarli lontano dal Paradiso e allo stesso tempo fuori dall'Inferno, essi hanno dignità inferiore a quella di qualsiasi altro dannato. Virgilio spiega che con loro sono collocati quegli angeli che non si schierarono né con Lucifero né contro di lui, rimasero dubbiosi e neutrali. Questi angeli non sono voluti dal Paradiso, che ospitandoli rovinerebbe la sua bellezza, e nemmeno sono cacciati all'Inferno. Gli ignavi si lamentano perché consapevoli che la loro pena non finirà mai, inoltre a loro non è concessa neanche la speranza di essere ricordati sulla Terra. Nei prossimi canti vedremo come per i dannati sia di gran conforto la speranza di essere ricordati tra i vivi. Gli ignavi però, non avendo mai preso posizione ed essendo costati tanto a molti per la loro passività, non potranno essere ricordati, quindi a loro non spetta neanche questa misera speranza. Lo stesso Virgilio li disprezza, dicendo a Dante: "non ragioniam di loro, ma guarda e passa". Per la guida di Dante, parlare di gente del genere è inutile ed equivale ad una perdita di tempo. Dante nei prossimo canti parlerà con molti dannati, ma ora non si ferma un istante con nessuno degli ignavi. Qui è ben chiara la visione politica dell'autore: restare fuori dalle dispute politico-religiose è peccato ben più grave che schierarsi dalla parte sbagliata.
Attraverso gli occhi di Dante, possiamo osservare la pena che spetta agli ignavi. Si tratta di un contrappasso per contrapposizione, cioè di una pena che contrasta col peccato che li ha dannati. Le anime di coloro che mai si schierarono in vita sono costrette a correre dietro un vessillo per l'eternità, tormentate da mosche e vespe, calpestando sotto i piedi dei vermi che rappresentano la viltà che dominò i loro cuori durante l'esistenza terrena.   
Pur non parlando con nessuno, Dante riconosce un personaggio nell'immensa schiera di anime. Si tratta di Celestino V, il papa che lui descrive come colui "che fece per viltade il gran rifiuto". Pietro di Morrone fu eletto papa Celestino V nel 1294 e abdicò appena cinque mesi dopo, ecco qual è il gran rifiuto a cui Dante fa riferimento. Il poeta classifica l'atto di rinuncia del pontefice come manifestazione di viltà, mostrandosi particolarmente severo nel giudizio, forse anche perché l'abdicazione portò all'elezione di Bonifacio VIII, papa con cui ebbe grossi attriti. Francesco Petrarca fu molto meno drastico e motivò l'atto di Celestino V con la sua vocazione solitaria e contemplativa. In effetti Pietro di Morrone, prima di essere eletto papa a 79 anni, fu eremita sul monte Morrone e sulla Maiella. Essere papa a quell'epoca voleva dire guidare un potente regno coinvolto in numerose dispute sia politiche che religiose, non dovrebbe sorprendere che un eremita quasi ottantenne non si ritenne all'altezza del compito. Oggi probabilmente elogeremmo l'onestà di un religioso che rifiuta il ruolo di guida politica per continuare a seguire la sua vocazione, ammettendo di fatto di non sentirsi in grado di affrontare determinate sfide, ma all'epoca le idee politico-religiose erano differenti.
Dopo aver dato una veloce occhiata agli ignavi, che non meritano di più, Dante e Virgilio arrivano sulla riva dell'Acheronte. Il nome del fiume deriva dal greco e significa "fiume del dolore", è il corso d'acqua più grande dell'Inferno perché circonda interamente il primo cerchio. Le anime destinate all'Inferno, spiega Virgilio, si accalcano sulla riva di quel fiume fangoso e torbido (come le anime stesse) per essere condotte nel luogo della loro pena. Essendo l'eterno supplizio frutto di un atto di giustizia divina, le anime, che bestemmiano contro sé stesse, desiderano espiare la loro condanna, come se volessero vendicarsi contro sé stesse delle loro mancanze verso Dio.
Sull'Acheronte i poeti incontrano Caronte, colui che naviga e porta le anime da una riva all'altra. Costui svolge con sadica furia il suo compito, ricordando alle anime che le condurrà all'eterno supplizio e intimandogli di abbandonare ogni speranza. Le anime tremano sentendo le sue parole e incassano i suoi colpi di remo quando non sono leste a salire nella sua barca. Quando si accorge che tra i defunti vi è un uomo vivo, gli intima di andar via e gli spiega che per chi è ancora nella grazia (Dante è comunque ancora vivo, in lui quindi vi è ancora la grazia di Dio) ci sono altre vie per accedere alla spiaggia del Purgatorio. A questo punto interviene Virgilio, il quale spiega che "vuolsi così colà dove di puote / ciò che si vuole" e gli intima di non fare più domande. 
Dopo la visione del crudele Caronte che percuote le anime per farle salire in barca, il canto si conclude con un violentissimo terremoto che porta Dante allo svenimento. Questa perdita di sensi porta il poeta a non vedere, e quindi a non spiegarci, come supera l'Acheronte. L'ipotesi più ovvia è che egli, svenuto, sia imbarcato con Virgilio sulla barca di Caronte. Nei canti seguenti però vedremo che spesso gli svenimenti e i sonni di Dante si accompagnano a eventi sovrannaturali, alcuni dei quali ne facilitano il cammino, quindi non è folle l'ipotesi che un intervento angelico conduca i due poeti al di là del fiume.

Francesco Abate