mercoledì 30 maggio 2018

PUBBLICAZIONE DEL MESE E AUTORE DEL MESE


Sono felice di annunciarvi che la mia poesia "Canto del lupo solitario" è in gara come Pubblicazione del mese sul sito Spillwords.com. Sono inoltre in corsa io stesso come Autore dei mesi di aprile e maggio.
Ringrazio tutti quelli che hanno dedicato qualche minuto del loro tempo ai pezzi di anima che traduco in parole e lascio sparsi in giro. Spero che leggerli vi dia la stessa gioia che a me dà scriverli.

Potete votarmi sul sito Spillwords.com.

Non dimenticate di seguirmi sul blog e sui social, così da poter trovare tutte le mie ultime pubblicazioni.
Vi ricordo inoltre che potete sempre acquistare il mio romanzo, Il Prezzo della Vita, nelle librerie e in quelle online. Se vi piacerà, potrete anche lasciare il vostro parere nel blog o sui social.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

domenica 20 maggio 2018

COMMENTO AL CANTO XXVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch'i' ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone  per la mente
c'hanno a tanto comprender poco seno.
Il canto XXVIII inizia con versi che ci introducono a uno spettacolo particolarmente crudo. L'autore si chiede chi possa descrivere in prosa ("con parole sciolte") le mutilazioni e il sangue che lui vide. Evidentemente lo spettacolo che ci attende è così cruento da non poter essere reso efficacemente senza il ritmo della poesia, infatti il nostro linguaggio non può descrivere uno spettacolo del genere così come il nostro intelletto non è pronto a comprenderlo. Affidandosi ai versi, Dante prova a descrivere ciò che vide nella nona bolgia paragonandola a cruenti conflitti svoltisi nel sud Italia. Se si mettessero insieme tutti i morti delle guerre fatte dai Romani tra la Campania e la Puglia (contro Apuli, Lucani e Bruzii), tutti coloro che caddero nella seconda guerra punica, tutti coloro che morirono per fermare l'invasione di Roberto il Guiscardo e tutti gli uomini che perirono nelle battaglie di Ceprano e Tagliacozzo (guerra tra Angioini e Svevi), non si vedrebbero comunque tante ferite e mutilazioni quante Dante ne vede sul fondo della bolgia. 
Il poeta vede un uomo squarciato dal mento fino al bacino, aperto come non si aprirebbe una botte nel caso in cui perdesse una doga, con le viscere che gli pendono tra le gambe ("Già veggia, per mezzul perdere o lulla, / com'io vidi un, così non si pertugia, / rotto dal mento infin dove si trulla. / Tra le gambe pendevan le minugia; / la corata pareva e 'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia"). Il dannato si accorge di essere osservato, quindi si apre il petto e mostra a Dante a che punto il suo corpo sia scempiato, presentandosi poi come Maometto. Il profeta dell'Islam con le sue parole mostra ancora di sentirsi un personaggio importante, infatti dicendo "vedi come storpiato è Maometto!" sembra quasi protestare per il trattamento irriguardoso che gli viene riservato. Il profeta dice poi che davanti a lui c'è il cugino Alì (autore del primo scisma dell'Islam), cui il volto è ferito dal mento ai capelli. Spiega poi che nella bolgia sono puniti i seminatori di discordia e gli scismatici, i cui corpi sono tagliati a colpi di spada da un demonio che se ne sta nascosto. I tagli poi si rimarginano man mano che il dannato procede nel suo giro lungo la bolgia, finché non arriva un nuovo fendente a procurare una nuova ferita. Terminata questa spiegazione, il profeta chiede a Dante chi sia, ipotizzando che si tratti di un dannato piovuto nella bolgia, che tarda a scendere sul fondo a causa della paura. Virgilio risponde prontamente, spiega che né la morte né il peccato conducono lì il poeta, ma è opportuno che visiti tutti i settori dell'Inferno per avere una piena conoscenza delle cose. Sentite le parole di Virgilio, un gran numero di dannati si ferma a guardare il poeta con meraviglia, dimenticando per un attimo la propria pena ("<< Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena >>, / rispuose 'l mio maestro, << a tormentarlo; / ma per dar lui esperienza piena, / a me, che morto son, convien menarlo / per lo 'nferno qua giù di giro in giro; / e quest'è ver così com'io ti parlo >>"). Sentito che Dante è vivo, Maometto ne approfitta per chiedergli di dire a fra Dolcino che si armi e si rifornisca di vettovaglie nella sua fortezza, onde evitare di essere sconfitto e finire subito a scontare la sua pena nella nona bolgia. Detto ciò, va via. 
Un altro dannato, che ha un buco in gola e il naso mozzato, inizia a parlare, emettendo il suono delle parole direttamente dalla gola zampillante sangue. Questi si presenta come Pier da Medicina e gli chiede di informare i due migliori di Fano, cioè Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, che saranno chiusi in un sacco con una grossa pietra e gettati in mare ("gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati") presso Cattolica a causa del tradimento di un tiranno vigliacco. Il dannato commenta che Nettuno, dio del mare, non vide mai un tradimento così grave né da parte dei pirati né da parte dei greci. Il traditore guercio (chiaro riferimento a Malatestino Malatesta), il quale governa quella terra che l'altro dannato lì vicino non vorrebbe mai aver visto, cioè Rimini, li chiamerà a discutere di qualcosa e farà sì che non arrivino a pregare perché non vi siano tempeste a Focara (monte tra Pesaro e Cattolica). Pier da Medicina fu un membro della famiglia dei Cattani di Medicina, fu tra i signori dell'antico castello feudale e fomentò le discordie tra il contado e la città di Bologna.
Dante chiede chi sia il dannato che vorrebbe non aver mai visto Rimini. Pier da Medicina con la mano apre la mascella del compagno e spiega al poeta che non può parlare, poi racconta che spinse Giulio Cesare a non temporeggiare dopo l'emissione del decreto senatoriale che lo dichiarava nemico della Repubblica. Il poeta guarda sbigottito questo povero dannato a cui manca la lingua in bocca. Siamo in presenza di Caio Curione, tribuno romano del 50 a.C. che si avvicinò a Cesare dopo aver ricevuto un pagamento in denaro. All'indomani dell'emissione del decreto senatoriale citato sopra, Curione spronò Cesare a non temporeggiare, dicendogli che indugiare nuoce a chi ha i mezzi. Dante lo colloca nella nona bolgia perché col suo consiglio fomentò lo scoppio della guerra civile. Il tribuno in vita fu lodato da Cesare per la sua oratoria all'esercito, per questo Dante scrive: "Oh quanto mi pareva sbigottito / con la lingua tagliata ne la strozza / Curio, ch'a dir fu così ardito!".
Si avvicina un dannato con le mani mozzate, che tende i moncherini in alto e si sporca di sangue il viso. Questi urla a Dante di ricordare tra i vivi anche il Mosca, il quale disse in vita che quando una cosa è fatta, è finita. Il personaggio è Mosca dei Lamberti, il quale disse che era stato un bene uccidere Buondelmonte Buondelmonti, non preoccupandosi delle conseguenze. Secondo la tradizione fiorentina, da questo omicidio, avvenuto il giorno di Pasqua del 1215 e motivato da una promessa di nozze violata dalla vittima, scaturì la divisione di Firenze in guelfi e ghibellini. Dante risponde con un aspro rimprovero alle parole di Mosca, ricordandogli come quell'episodio diede inizio alla fine della sua stessa famiglia. Mosca accusa il colpo e sente su di sé la responsabilità dei tanti mali causati alla città da quell'episodio, così va via tristemente ("... << Ricordera'ti anche del Mosca, / che disse, lasso!, " Capo ha cosa fatta", / che fu mal seme per la gente tosca >>. / E io li aggiunsi: << E morte di tua schiatta >>; / per ch'elli, accumulando duol con duolo, / sen gio come persona trista e matta").  
Dante rimane a guardare la processione di dannati e assiste a uno spettacolo tanto terribile che, se non fosse appoggiato dalla sua coscienza pura, avrebbe paura di riferire senza prove. In pratica è qualcosa di difficile da credere. Il poeta vede camminare un dannato decapitato che tiene la testa per la chioma e cammina portandola come una lanterna. Quest'uomo arriva ai piedi della salita dove sono i poeti e si rivolge a Dante, dicendogli di vedere se esiste pena grande quanto la sua e chiedendogli di portare sue notizie nel mondo dei vivi. Si presenta come Bertrando dal Bornio, il quale aizzò il giovane erede al trono Enrico contro il padre, il re d'Inghilterra Enrico II. Bertrando paragona la sua opera a quella di Achinofel, personaggio biblico che tradì re David e si schierò a favore del figlio Absalom, e spiega la sua pena: in vita osò separare due uomini uniti da un legame di sangue, così adesso la sua testa è divisa dal corpo.
   
Sulla collocazione di Maometto tra gli scismatici c'è da ragionare. Egli fondò una nuova religione, ma di fatto non operò alcuno scisma nella chiesa Cristiana perché mai ne fece parte. Probabilmente l'autore lo giudicò colpevole di aver diviso parte del popolo di Dio dalla rivelazione cristiana. Il giudizio di Dante nei confronti di Maometto fu molto duro, nel descriverne le mutilazioni infatti usò un linguaggio quasi scurrile e per nulla poetico, dicendo che era diviso ""infin dove si trulla" (un po' come dire "fino al buco del culo") e indicando i suoi intestini come "'l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia". Il Maometto dantesco è un personaggio convinto della propria importanza, ma privo della fierezza che è propria per esempio a Farinata degli Uberti. Dai versi di Dante emerge un Maometto quasi ridicolo, per niente rispettabile.
In questo canto compare anche la figura di fra Dolcino. Non si tratta di un frate, bensì di un eretico. Visse tra il 1250 e il 1307 e predicò intorno al 1300. Successe a Gerardo Segarelli come capo laico della setta degli apostolici. Sostenne l'assoluta comunanza dei beni e delle mogli. Contro di lui fu bandita una vera e propria crociata. Si ritirò in una fortezza sui monti del Biellese con i suoi adepti e venne preso dopo un lungo assedio, quando dovette arrendersi a causa della mancanza di viveri. Fu bruciato sul rogo nel giugno del 1307, subito dopo aver assistito all'esecuzione della sua compagna Margherita. Di fra Dolcino e dei dolciniani (così vennero chiamati i suoi adepti) si discute ampiamente nel romanzo Il Nome della Rosa di Umberto Eco (http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/06/commento-de-il-nome-della-rosa-di.html).

Francesco Abate

mercoledì 16 maggio 2018

CARLO MAGNO RACCONTATO DA ALESSANDRO BARBERO

Tra i personaggi che hanno profondamente segnato la storia del nostro continente, Carlo Magno fu di certo uno dei più importanti. A testimoniare il ruolo centrale di quest'uomo, che fu prima re dei Franchi e poi, dal 25 dicembre 800, imperatore del Sacro Romano Impero, basta il fatto che quasi 1200 anni dopo la sua morte ci si stia ancora interrogando sul suo ruolo quale padre della moderna Unione Europea.
Attraverso il libro Carlo Magno. Un padre dell'Europa, lo storico Alessandro Barbero ci permette di conoscere meglio questa figura quasi leggendaria, spogliandola anche dei luoghi comuni che la storia le ha cucito addosso, consentendoci così di avere un'immagine nitida dell'imperatore e del suo impero, mettendoci nelle condizioni di chiederci se sia per lui calzante la definizione di "padre dell'Europa" o se si tratti di un'esagerazione dettata da un eccessivo entusiasmo pro-europeo. 
Come sempre accade nei libri del professor Barbero, nonostante il tema non sia semplice e per essere compreso necessiti di un buon approfondimento della cultura e della politica di tempi lontani, la scrittura è scorrevole e si legge senza alcuna fatica, rendendo il viaggio nel Sacro Romano Impero tanto piacevole quanto istruttivo.

La trattazione del professor Barbero inizia con un rapido sguardo all'evoluzione del popolo franco, un semplice agglomerato di tribù accomunate dal dialetto e dalla religione, in un vero e proprio regno. Queste tribù si unirono poi sotto la reggenza di Clodoveo, principale esponente della dinastia Merovingia. Allora i sovrani svolgevano però un ruolo puramente rappresentativo, col passare del tempo la gestione effettiva del regno fu competenza dei maestri di palazzo. Furono questi esecutori del potere a rendere sempre più grande e potente il regno franco, poi con la vittoria a Poitiers di Carlo Martello ("il piccolo Marte") contro i Saraceni del 732, i Franchi iniziarono a essere considerati veri e propri difensori della cristianità, acquistando così i favori del papa e un peso importante nella politica internazionale. Questa crescita sul piano internazionale dei Franchi portò all'acclamazione del figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, quale re e alla fine della dinastia Merovingia, sostituita da quella Carolingia.
Figlio di Pipino il Breve, Carlo Magno salì al trono nel 769. Dovette spartirsi il regno col fratello Carlomanno, con cui ebbe aspri contrasti, finché nel 771 quest'ultimo morì e lo lasciò unico sovrano. Il regno di Carlo Magno fu poi segnato da una lunga serie di guerre di conquista, cui il sovrano dette anche un significato religioso, rafforzando così i suoi legami col papa e il suo ruolo di difensore della cristianità. La connotazione religiosa delle guerre di Carlo Magno non fu poi una grande forzatura, infatti contro i Longobardi in Italia il re andò in guerra per difendere il papa, poi si scontrò sempre con pagani (Sassoni, Avari, Arabi in Spagna) cui impose a ogni conquista la conversione al Cristianesimo.
Carlo Magno fu poi incoronato imperatore a Roma il 25 dicembre 800. Tale incoronazione fu semplicemente l'ufficializzazione del suo ruolo di protettore della Chiesa, funzione che egli svolse con grande energia e che a volte lo portò a comportarsi come il capo della stessa. La cosa a noi lettori di oggi fa rizzare i capelli in testa, l'idea di un re che detta le regole della liturgia e convoca i concili per discutere temi religiosi cozza con il nostro concetto di laicità delle istituzioni, ma Barbero è bravissimo a farci comprendere una realtà in cui la distinzione tra potere temporale e potere spirituale non era poi così netta. Basti pensare che Carlo Magno convocò numerosi concili, che i vescovi e gli abati nel territorio dell'impero li nominava lui, che ai vescovi e agli abati affidava proprietà su cui essi svolgevano quelle funzioni che normalmente spettavano a conti e ad altre istituzioni regie. Favorito anche dalla debolezza di Leone III, il papa dell'epoca, Carlo Magno si comportò da effettivo capo della chiesa, dettando anche le regole della liturgia nell'impero. 
Alla semplice ma dettagliata biografia, l'autore affianca poi un'immagine del Carlo Magno uomo, del suo rapporto con le donne e con i figli. Non si tratta però delle solite banali riflessioni sull'umanità di una grande figura, leggere attentamente questo paragrafo vuol dire capire meglio come funzionava all'epoca l'istituzione del matrimonio e come proprio lui la adeguò ai dettami del Cristianesimo.

Il professor Barbero, con la sua scrittura godibile e semplice, ci porta poi a conoscere e comprendere la struttura dell'impero, la sua economia e il piano con cui Carlo Magno cercò di farlo rinascere culturalmente (la famosa "Rinascita carolingia"). 
Egli lottò contro l'ignoranza all'interno delle istituzioni ecclesiastiche, non tollerando che le guide spirituali potessero coi loro errori compromettere le anime altrui, riuscendo di riflesso ad alzare il livello culturale dell'intero regno. Lui stesso si circondò di uomini di cultura e imparò a leggere il latino. Fu il primo sovrano a creare un culto unificato e cercò con svariati mezzi di arrestare la corruzione del clero. 
Descrivendoci nei dettagli il funzionamento economico dell'impero, Barbero smonta alcuni luoghi comuni sorti nei secoli successivi. Il Sacro Romano Impero non fu economicamente stagnante e arretrato, vi fu invece il fiorire di mercati e di porti commerciali.

Il romanzo si conclude con uno sguardo agli ultimi anni di vita dell'imperatore. 
Viene sfatato il mito del Carlo Magno ormai debole e incapace di far fronte ai pericoli che incombono sull'impero. Barbero ci spiega come l'imperatore riuscì a limitare i danni fatti dalle scorrerie dei pirati Danesi e Saraceni, inoltre ci racconta che fu sul punto di combattere di nuovo, poi la guerra civile che rovesciò il re danese Godefrido evitò che fosse necessario.
Energico nonostante l'età avanzata, Carlo Magno morì per le complicazioni di una polmonite presa andando a caccia. Si spense il 28 gennaio 814.

Leggendo il libro del professor Barbero, si hanno gli strumenti per chiedersi se sia giusto considerare Carlo Magno un padre dell'Europa. La domanda non è banale. Il Sacro Romano Impero fu la prima unione territoriale europea il cui centro non era il Mediterraneo, infatti la capitale e il centro del governo si spostarono dentro al continente. Carlo Magno inoltre diede a questo agglomerato di province diverse (si va dal nord della Spagna alla Sassonia, dalla Francia all'Italia e a parte dell'ex Jugoslavia) una moneta unica, una religione unica, leggi simili e istituzioni uguali. Le regioni conquistate non furono semplici colonie, Carlo Magno le fece diventare parte integrante del Sacro Romano Impero. Questa unità istituzionale, economica e monetaria non è da sottovalutare. All'epoca la percentuale di popolazione che superava i vent'anni di età era bassa, Carlo invece regnò per più di quaranta, quindi si creò in tutto l'Impero, e per questo in buona parte dell'Europa, un nucleo umano nato e cresciuto sotto le stesse leggi, si creò un abbozzo di unità culturale che potremmo considerare il nucleo della cultura europea.

Francesco Abate

domenica 13 maggio 2018

COMMENTO AL CANTO XXVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Già era dritta in su la fiamma e queta,
per non di più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand'un'altra. che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n'uscia.
Ulisse ha smesso di parlare e il fuoco che l'avvolge adesso è ferma, con il permesso di Virgilio va via. Nemmeno fa in tempo ad allontanarsi l'eroe omerico, che un'altra fiamma si avvicina a Dante e al suo maestro, attirando l'attenzione di quest'ultimo a causa dello strano suono che emette. Per rendere l'idea del suono prodotto dal dannato appena giunto, Dante lo paragona a quello che uscì dal toro di rame che l'ateniese Perillo, secondo quanto scrissero Ovidio e altri autori latini, costruì per il tiranno Falaride di Agrigento. Per assecondare la crudeltà di Falaride, Perillo costruì un toro in rame da usare come strumento di tortura: vi si chiudeva all'interno il condannato e si accendeva un fuoco sotto il ventre del toro, così il metallo si riscaldava e il malcapitato finiva arso vivo. La leggenda vuole che il tiranno volle provare lo strumento sulla pelle dello stesso Perillo, il quale finì vittima della sua crudele invenzione, e le cui urla sembravano il muggito del toro. Dante, in uno dei versi in cui esprime il paragone, ci dice che per lui fu giusto che a cadere vittima della macchina infernale fu per primo colui che la costruì, un uomo che aveva piegato il suo ingegno per servire il male. Le parole del dannato sono soffocate dal fuoco e sembrano le urla alterate da quell'antico strumento di tortura, alla fine però si riesce a capire cosa sta cercando di dire ("Come 'l bue cicilian che mugghiò prima / col pianto di colui, e ciò fu dritto, / che l'avea temperato con sua lima, / migghiava con la voce de l'afflitto, / sì che, con tutto che fosse di rame, / pur el pareva dal dolor trafitto; / così, per non aver via né forame / dal principio nel foco, in suo linguaggio / si convertian le parole grame. / Ma poscia ch'ebber colto lor viaggio / su per la punta, dandole quel guizzo / che dato avea la lingua in lor passaggio"). Si rivolge a Virgilio, di cui ha colto l'origine lombarda quando gli ha sentito dire a Ulisse "Istra ten va, più non t'adizzo" ("ora puoi andare, non ti trattengo"), e gli chiede di restare a parlare un po' con lui nonostante sia arrivato tardi, visto che non dispiace a lui nonostante stia ardendo. Chiede poi al poeta, qualora davvero venga dall'Italia, terra che rievoca quasi con l'affetto che un figlio prova per la madre ("quella dolce terra latina"), se i romagnoli sono in pace o in guerra, cosa che gli interessa visto che visse sui monti che stanno tra Urbino e l'Appennino in cui è la sorgente del Tevere. Dante osserva e ascolta con attenzione, il suo maestro lo invita a rispondere al posto suo, visto che il nuovo interlocutore parla la sua stessa lingua. Il poeta già conosce la risposta e non indugia, spiega che la Romagna non è mai davvero in pace, quando non si combatte infatti i tiranni romagnoli covano già il proposito di scatenare un nuovo conflitto. Tuttavia nel 1300 la Romagna è in pace, quindi Dante spiega che non c'è al momento alcuna guerra "palese". Detto ciò, l'autore in cinque terzine rievoca i punti salienti della situazione politica della zona, usando ovviamente molte metafore basate principalmente sugli stemmi delle casate che dominano la zona. Ravenna ha superato il periodo delle lotte, sta tranquilla sotto il mite governo di Guido il Vecchio (l'aquila) ed estende i suoi possedimenti fino a Cervia. Forlì, che fé già la lunga prova, cioè si è già scontrata coi ghibellini l'1 maggio 1282, uccidendo ottomila francesi inviati da Martino IV a sostegno di Giovanni d'Appia, è governata dagli Ordelaffi. A Rimini, Malatesta da Verrucchio (detto "il Centenario") e il ramo della sua famiglia rimasto a Pennabilli continuano a dilaniare i sudditi, come fanno da sempre. Le città di Faenza e Imola sono governate da Maghinardo Pagani di Susinana ("il lioncel dal nido bianco", richiamo al leone in campo bianco dello stemma), il quale cambia continuamente le sue alleanze. Cesena, bagnata dal fiume Savio, ha un corso politico che imita quello del fiume: il corso d'acqua è messo tra pianura e monte, così la città si alterna tra libero governo e signoria. Finito il racconto, Dante prega il dannato di dirgli chi sia e di vincere la repulsione a parlare del proprio peccato. Il fuoco per qualche istante muggisce, come se il dannato al suo interno stia riflettendo se accontentarlo o meno, poi la punta della fiamma inizia a muoversi e si iniziano a sentire le sue parole. Guido da Montefeltro, questo è il nome del dannato, dichiara di acconsentire alla richiesta solo perché certo che mai Dante tornerà tra i vivi, egli infatti sa che nessuno è mai tornato indietro dall'Inferno. Spiega che fu un uomo d'armi, poi prese i voti presso l'ordine francescano con l'intenzione di fare ammenda dei propri peccati, ma così non fu per colpa del "gran prete", riferimento al papa Bonifacio VIII, a cui destina anche un'imprecazione che dimostra quanto ancora sia accesa la sua ira: "a cui mal prenda!". Guido ritiene infatti che Bonifacio VIII lo spinse a macchiarsi nuovamente l'anima, vanificando il potere salvifico degli anni trascorsi in convento. Consapevole che la sua accusa possa apparire inverosimile, il dannato racconta nel dettaglio la sua storia ("S'i credesse che mia risposta fosse / a persona che mai tornasse al mondo, / questa fiamma staria senza più scosse; / ma però che già mai di questo fondo / non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero, / sanza tema d'infamia ti rispondo. Io fui uom d'arme, e poi fui cordigliero, / credendomi, sì cinto, fare ammenda; / e certo il creder mio venìa intero, / se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, / che mi rimise ne le prime colpe; / e come e quare, voglio che m'intenda."). Guido racconta che finché fu vivo, fu un grande stratega militare di fama riconosciuta ("Li accorgimenti e le coperte vie / io seppi tutte, e sì menai lor arte, / ch'al fine de la terra il suono uscie"). Arrivato alla vecchiaia ("in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte"), iniziò a sentirsi in colpa per quello che era stato e si convertì prendendo i voti. Il ricordo della conversione scatena il rimpianto nella mente di Guido, sente di aver fatto tutto nel modo giusto e soffre perché non è servito, manifestando ciò con un'amara esclamazione: "ahi miser lasso! e giovato sarebbe". Bonifacio VIII, che Guido non nomina mai direttamente, in questo caso lo definisce "Lo principe d'i novi Farisei", rimarcando una volta di più il rancore mai sopito nei suoi confronti, stava combattendo una guerra contro i suoi nemici politici, che erano cristiani e non Saraceni o Giudei. Il papa chiese consiglio a Guido per prendere Palestrina, così come l'imperatore Costantino chiese a papa Silvestro di essere battezzato per guarire dalla lebbra. Guido inizialmente non accontentò il papa, giudicando folle la sua richiesta, ma Bonifacio VIII lo rassicurò promettendogli l'assoluzione e ricordandogli che aveva il potere di aprire sia le porte del Paradiso che quelle dell'Inferno ("E' poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti; / finor t'assolvo, e tu m'insegna fare / sì come Penestrino in terra getti. / Lo ciel poss'io serrare e diserrare, / come tu sai; però son due le chiavi / che 'l mio antecessor non ebbe care"). Guido, temendo che disobbedire fosse più grave che parlare, accontentò il pontefice e gli consigliò di rafforzare la propria posizione promettendo tanto per poi non mantenere nulla. Non appena morì, san Francesco venne a prendere la sua anima, ma un demone intervenne e disse che la sua anima era destinata all'Inferno a causa di quel consiglio fraudolento, non poteva infatti essere assolto perché non era pentito, giacché è impossibile pentirsi e contemporaneamente peccare. Guido allora si risvegliò dall'illusione quando il demone lo prese e, per vantarsi e mostrarsi superiore a chi in vita fu campione di logica, gli disse: "Forse non pensavi che anch'io fossi logico!". Il demone lo portò da Minosse, il quale arrotolò otto volte la coda e lo destinò così al fuoco dell'ottava bolgia. Finito di parlare, la fiamma riprende il suo cammino, torcendo e dibattendo la sua punta, forse a voler indicare lo stato d'animo di Guido, che vive l'eterna pena col rammarico di esser stato ingannato e consumato dalla rabbia nei confronti di Bonifacio VIII.
I poeti si incamminano e passano sull'arco che cinge la nona bolgia, dove sono puniti coloro che in vita disseminarono discordie e crearono divisioni.

La figura di Guido di Montefeltro è molto differente da quella di Ulisse, che abbiamo trovato nel canto precedente, ma nella medesima bolgia. Nelle parole di Ulisse non c'è autocommiserazione, mai l'eroe itacense esprime rabbia o sofferenza, cosa che invece Guido fa di continuo. Questo diverso atteggiamento è dovuto al carattere dei due personaggi. Ulisse non nega la propria colpa, nemmeno ne parla (la conosciamo per bocca di Virgilio), narra la sua vicenda e si mostra per quello che fu: un uomo accecato dalla sete di conoscenza che trascinò il suo equipaggio in un'impresa folle. Guido invece scarica tutte le colpe su Bonifacio VIII, egli infatti ritiene che si sarebbe salvato grazie all'ingresso nell'ordine francescano, ma il consiglio che il papa gli estorse con l'inganno e la minaccia lo ha destinato all'Inferno. Ulisse accetta la sua pena e la vive con la dignità propria di un eroe, Guido invece parla nel tentativo di discolparsi e farsi commiserare. 
Un'altra differenza tra la vicenda di Ulisse e quella di Guido di Montefeltro è l'origine della storia che Dante riporta. Ulisse è un personaggio mitologico, la storia della sua morte è però un'invenzione di Dante, nell'Odissea riesce a tornare a casa e a liberarsi dei Proci. Guido di Montefeltro è invece un personaggio reale, anche il colloquio tra lui e Bonifacio VIII per il consiglio fraudolento non è un'invenzione dantesca, anche se gli storici nutrono molti dubbi circa la sua realtà. Nella descrizione dell'incontro Dante usa un paragone con la leggenda di Costantino e papa Silvestro. Ai tempi di Dante si credeva che i possedimenti papali a Roma fossero frutto della famosa "Donazione di Costantino" e che questa fosse dovuta alla guarigione dell'imperatore dalla lebbra dopo che papa Silvestro l'ebbe battezzato. Oggi sappiamo che la "Donazione di Costantino" è un falso storico e ancor minore valore storico può avere la storia della guarigione miracolosa. Dante comunque usa la vicenda per gettare una luce ancor peggiore su Bonifacio VIII (per cui sappiamo non nutriva grande simpatia), infatti nella leggenda si narra dell'imperatore che chiede aiuto al papa per guarire da una malattia fisica, invece nella storia di Guido è il papa a chiedere il consiglio di un guerriero peccatore per risolvere un suo problema. L'accostamento delle due storie accende un paragone impietoso tra papa Silvestro (che libera un uomo dal male fisico) e papa Bonifacio VIII (che spinge un uomo nel peccato mortale). 

Francesco Abate

mercoledì 9 maggio 2018

COMMENTO AL CANTO XXVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Il canto XVI si apre con un'invettiva di Dante contro la sua città, Firenze. Lo scorso canto si è chiuso con la scoperta da parte del poeta dell'identità dei ladri alla cui trasformazione aveva assistito, questo comincia con la rabbia dovuta alla consapevolezza che i cinque dannati fossero suoi concittadini. L'ira del poeta si rivolge contro la città perché i ladri che ha conosciuto non furono in vita persone prive di mezzi, costrette a rubare per sopravvivere, bensì appartennero a famiglie note e onorate nella città. Il canto inizia con una marcata nota sarcastica, Dante infatti invita Firenze a godere del fatto che la sua fama, oltre a estendersi per tutto il mondo, riempie anche tutto l'Inferno. L'invettiva continua con l'autore che predice la volontà della vicina Prato di scrollarsi di dosso il dominio fiorentino, attribuendola al bisogno di staccarsi da una realtà tanto corrotta. Per il poeta quando la ribellione avverrà, sarà già troppo tardi. La seconda parte dell'invettiva inizia col verso "Ma se presso al mattin del ver si sogna", il quale riprende l'idea antica che i sogni fatti di primo mattino fossero premonitori, Dante quindi attribuisce la sua conoscenza dell'imminente ribellione di Prato a un sogno premonitore.
Il poeta e la sua guida riprendono il cammino, risalgono lungo la parete della bolgia e si recano in quella successiva, l'ottava. Prima di descriverci quello che vede nell'ottava bolgia, l'autore si abbandona a una breve riflessione. Quando vide lo spettacolo dei dannati che sta per descriverci, provò dolore, così come ne prova adesso che lo riporta in versi. Il poeta deve però tenere a freno l'intelligenza e riconoscere i limiti dell'umano innanzi alla giustizia divina, così da non abusare del dono divino della grazia e non rischiare che questo gli venga tolto. Dante vive il contrasto tra i suoi sentimenti umani e la giustizia superiore, infatti la perfezione di quest'ultima non si può discutere e dev'essere solo apprezzata, eppure in lui quello spettacolo provocò dolore. Egli deve quindi porre un freno al suo intelletto, più di quanto sia solito fare, e accettare la bontà di quel che vide.
Fatta questa riflessione, il poeta ci descrive quel che vide: tante fiamme risplendevano sul fondo dell'ottava bolgia, somigliando alle lucciole che il contadino osserva nelle sere d'estate. Ogni fiamma avvolge un peccatore e si muove lungo il fondo della bolgia, richiamando alla mente di Dante l'immagine di Eliseo, il quale vide Elia portato in cielo su un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco, i cui occhi poterono però vedere la scena solo come l'accentuarsi e l'attenuarsi della luce emessa dai fuochi. Concentrato a guardare lo spettacolo, Dante dimentica di trovarsi in alto e rischia di cadere nel fondo della bolgia. Virgilio spiega al discepolo che dentro i fuochi vi sono i dannati. Lui spiega di averlo già capito, poi chiede a chi appartenga la fiamma che si divide in due parti, come il fuoco della pira funebre di Eteocle e Polinice. I due personaggi citati a esempio da Dante furono, secondo la mitologia, figli di Edipo e si uccisero per contendersi il possesso della città di Tebe. Posti sulla medesima pira, le fiamme si divisero, quasi ad attestare l'odio profondo provato l'uno per l'altro. Virgilio gli spiega che in quella fiamma sono uniti nella loro pena Ulisse e Diomede, i due celebri eroi omerici, che sono puniti tra i consiglieri fraudolenti per l'inganno del cavallo di Troia e per aver portato Achille in guerra, causando il lutto di Deidamia, figlia di Licomede e amante del Pelide. A questo punto Dante prega la sua guida affinché lo lasci parlare con loro. A differenza delle altre volte, la preghiera del poeta è insistente e priva di freno, a testimoniare la sua grande voglia di confrontarsi con due grandi eroi del mondo classico. Virgilio acconsente, ma mitiga il desiderio del discepolo dicendogli di non parlare, sarà lui stesso a chiedere ciò che Dante vuole sapere, teme infatti che i greci potrebbero essere restii a parlare con qualcuno che si esprime in una lingua tanto diversa. L'immagine di Virgilio come mediatore tra Dante e i due dannati si presta a diverse e interessanti interpretazioni. L'eccessivo entusiasmo del suo discepolo può indurci a vedere in Virgilio la ragione che tiene a freno l'intemperanza e trae il giusto insegnamento dai miti classici. Un'altra interpretazione, molto meno filosofica, ci presenta invece l'immagine del poeta mantovano come ponte tra i miti omerici e la letteratura moderna. Secondo Torquato Tasso invece la guida di Dante non fa altro che ingannare i due dannati per invogliarli a parlare, facendo credere loro di essere Omero. Virgilio si rivolge alla fiamma e chiede che uno dei due dannati racconti come morì, per invitarli a rispondere fa leva sul suo valore come poeta ("<< O voi che siete due dentro ad un foco, / s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, / s'io meritai di voi assai o poco / quando nel mondo li alti versi scrissi, / non vi movete; ma l'un di voi dica / dove, per lui, perduto a morir gissi >>"). A rispondere è Ulisse, le cui parole riporto integralmente perché fanno parte dei versi più celebri dell'intera opera. Man mano che l'eroe di Itaca parla, la fiamma più alta si muove quasi come fosse la sua lingua.
... << Quando
mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Marrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov'Ercole segnò li suoi riguardi
acciò che l'uom più oltre non si metta;
de la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
"O frati", dissi, "che per cento milia
parigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza".
Li miei compagni fec'io sì aguti,
con questa orazion picciola, al camino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e, volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quando veduta non avea alcuna.
Noi ci allagrammo, e tosto torn in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso >>.
La storia narrata da Ulisse, che si discosta completamente dalla narrazione omerica contenuta ne L'Odissea ed è opera solo della mente di Dante, narra di un uomo dotato di grande ingegno che prova a superare i confini del mondo conosciuto per diventare conoscitore di ogni cosa, anche del bene e del male, ma deve soccombere davanti all'immensità e all'imperscrutabilità del mistero divino. Ritorna in termini diversi il discorso dell'intelletto umano che deve fermarsi di fronte al metafisico, lasciandosi guidare dalla fede e dalla grazia divina. Ulisse racconta che quando scappò dall'isola di Circe, l'amore per la famiglia lontana non riuscì a mitigare in lui la voglia di conoscere il mondo, di diventare profondo conoscitore del bene e del male. Con una sola nave e i pochi uomini rimasti, si spinse in mare aperto e, ormai diventato vecchio, arrivò alle colonne d'Ercole (lo Stretto di Gibilterra). Superate Siviglia e Ceuta (Sibilla e Setta), tenne il suo celebre discorso all'equipaggio, invitandolo a spingersi con lui al di là del mondo conosciuto, spronandoli dicendo che non nacquero per essere come bruti, ma per inseguire virtù e conoscenza. Il discorso ottenne l'effetto sperato, l'equipaggio affrontò con entusiasmo l'avventura e con la forza dei remi superarono le colonne d'Ercole. Arrivarono nell'altro emisfero, in cielo si vedevano nuove stelle e quelle vecchie non si alzavano al di sopra del mare. Trascorsero cinque mesi nel mare del nuovo emisfero, quando finalmente videro una montagna tanto alta da non poter essere paragonata a nessun altra sulla Terra (si tratta della montagna del Purgatorio). Ulisse e i compagni si rallegrarono, convinti di aver scoperto un nuovo continente, ma la gioia si mutò subito in disperazione quando dalla montagna si levò un turbine che percosse la prua della nave, fece girare l'imbarcazione con tutte le acque per tre volte, poi la fece inabissare con la prua in basso e la poppa in altro. Così Ulisse annegò insieme al proprio equipaggio.

In questo canto possiamo leggere un ritorno alla drammaticità e al dolore per i dannati dopo una lunga serie di canti contraddistinti da rabbia o da toni addirittura grotteschi. Nei versi di Dante non leggiamo il disprezzo, visto ad esempio per i barattieri, non ci sono vicende quasi comiche come quelle riguardanti i Malebranche. Torna un tono tragico, torna la partecipazione dolorosa dell'autore. Ce ne accorgiamo già nei versi 19-24, quando il poeta introduce i consiglieri fraudolenti e la loro pena parlandoci del dolore che provò allora quando li vide e che prova adesso quando ci ripensa. Torna il dissidio interiore tra la ragione umana, che rende penosa la vista di tutta quella sofferenza, e la giustizia divina, che è giusta e incontestabile. I dannati presentati in questo canto sono due eroi, patiscono una pena dolorosa, ma non subiscono disgustose trasformazioni come i ladri. L'atteggiamento del poeta nei confronti dei consiglieri fraudolenti è di certo più morbido, eppure li colloca più in basso nell'Inferno, quindi considera il loro peccato più grave del furto e della baratteria. Probabilmente il diverso atteggiamento del poeta è ancora una volta influenzato dalle vicende personali (ricordiamo che di baratteria fu accusato lui stesso), o semplicemente si pone in modo diverso perché in questo canto non c'è nessun fiorentino tra i dannati, quindi non ha motivi personali di astio.

Francesco Abate 
  

domenica 6 maggio 2018

VI RACCONTO LA MIA POESIA "NUCLEO D'ACCIAIO"

Pubblicata su Spillwords.com nel mese di marzo, Nucleo d'acciaio è una poesia che parla della resistenza alle avversità.
Nella vita capita spesso di sentirsi impantanati in un brutto momento senza uscita, "nel gelo di una pagina bianca / paralizzato dalle minacce della notte". In questi terribili momenti si corre spesso il rischio di cadere nell'autodistruzione, come quando "la bottiglia mi chiama / mi offre dorata incoscienza". Ci si sente perciò smarriti e senza via d'uscita ("Non trovo la strada e mi manca il mezzo / li ho persi tutti in qualche partita"). Sono stati d'animo che chiunque nella vita si trova spesso ad affrontare, purtroppo nessuno ne è indenne.
Quando questi momenti mi assalgono, trovo però sempre la forza di reagire e spesso questa nasce dalla mia storia, infatti io so di aver affrontato tanti brutti momenti e di averli superati, questo mi dà la forza di stringere i denti ("Ma un calore inatteso corre in aiuto / e mi racconta la mia breve storia, / il sangue ai denti l'ho avuto spesso / ma il sorriso non l'ho perso mai "). Questa consapevolezza che mi protegge, questa forza che mi permette di reagire, è il nucleo d'acciaio di cui parlo nella poesia. Un nucleo d'acciaio "che protegge quello che sono".

Qualora lo vogliate, potete leggere la mia poesia cliccando sul link http://spillwords.com/nucleo-dacciaio/

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate