giovedì 31 dicembre 2020

IL 2020 SE NE VA

 

Nella copertina del Time il 2020 è indicato come "Il peggiore anno di sempre". Come dargli torto.
Eppure il 2020, se per un attimo guardiamo oltre la pandemia, qualcosa di buono pure ce lo lascia. 
Abbiamo avuto modo di riflettere su cosa sia davvero la socialità, sul bisogno spesso eccessivo che tante persone hanno di trovarsi in mezzo al rumore e alla folla. Abbiamo potuto riscoprire il valore della solitudine, quella costruttiva, che permette di guardarsi dentro e capire quale cammino seguire per trovare la felicità. Abbiamo riscoperto l'importanza della casa e della famiglia, quanto sia importante costruire all'interno delle mura domestiche relazioni sane. Ci sono poi storie personali in cui quest'anno, pur limitando fortemente libertà e vita sociale, ha portato grandissime svolte positive.
Questo mio post non intende ovviamente cancellare o sminuire il dramma vissuto da chi ha perso la vita, un affetto, o da chi ha visto compromesse le proprie situazioni lavorative ed economiche. Il 2020 resta un anno terribile che ci ha tolto tanto, ma voglio suggerire che forse qualcosa di buono lo lascia e noi dobbiamo essere bravi a vederlo.
Adesso tutti noi aspettiamo con ansia che il 2020 ceda il passo al 2021, ma non dobbiamo dimenticare che il cambio di calendario non porta automaticamente a una svolta. Se volete che la vostra vita migliori, datevi da fare e miglioratela, perché non basta sperare che domani sia sereno per scacciare via le nuvole. 

Ciò detto, vi lascio i miei auguri di buon anno. Vi auguro di trovare la vostra strada per la felicità, di godervi il viaggio lungo di essa e giungere finalmente alla meta. Vi auguro inoltre di passare l'anno venturo tra piacevoli letture e, se vi farà piacere, tra queste potrete includere I Protettori di Libri, Il prezzo della vita ed Ekatomere.

Francesco Abate

venerdì 25 dicembre 2020

BUON NATALE A TUTTI

 

Natale è arrivato.
Non sono il tipo da "a Natale siamo tutti più buoni" o "a Natale puoi", ma quest'anno la festa assume senza dubbio un valore particolare.
In un anno in cui non ci è stato possibile muoverci liberamente, in cui abbiamo dovuto centellinare gli incontri, e in alcuni casi improvvisarci giuristi per capire se fosse possibile andare a casa di Tizio oppure no, questa deve essere un'occasione per incontrarsi (laddove possibile) e per dimenticare tutte le tribolazioni: oggi dobbiamo festeggiare la vita e i legami, lasciando fuori ogni preoccupazione.
Ovviamente dimenticare le tribolazioni non vuol dire far finta che non stia succedendo niente, siate prudenti o questo giorno potrebbe diventare la causa di tanti lutti. Essere spensierati è diverso dall'essere imprudenti.
Vi auguro di passare il Natale in ottima compagnia, con tanto buon cibo e tante ore di gioia, e in compagnia di un bel libro con cui chiudere la serata. Vi lascio una canzone suonata dalla superband finlandese Raskasta Joulua. 

Siate felici.

Francesco Abate

martedì 22 dicembre 2020

"LA MORTE DI IVAN IL'IC" DI LEV TOLSTOJ

 

La morte di Ivan Il'ic è un racconto dello scrittore russo Lev Tolstoj pubblicato per la prima volta nel 1886.
L'opera fu fortemente influenzata dalla crisi spirituale che l'autore stava attraversando in quel periodo, e che lo portò in seguito a convertirsi al Cristianesimo.

Ivan Il'ic è un borghese che riesce a costruirsi una vita agiata e tranquilla; è ben visto da tutti, fa carriera nell'ufficio pubblico che arriva a ricoprire, contrae un matrimonio rispettabile. La sua esistenza non ha però niente di spontaneo, ogni cosa che fa è in funzione della morale borghese e per questo conduce una vita assolutamente piatta.
Tutto viene sconvolto da un banale incidente domestico, la caduta sul fianco, che però dà inizio a una lenta e dolorosa agonia. Nella malattia, Ivan Il'ic si ritrova abbandonato; moglie e figli gli portano un'assistenza dalla facciata amorevole, ma di fatto lo trascurano e non riescono a celare quanto sia per loro un peso averlo in casa moribondo. Solo il servo Gerasim, persona umile, gli dà quel po' di calore umano e premura capaci di alleviare un poco le sue pene.
Il racconto si conclude con la morte di Ivan Il'ic.

La morte di Ivan Il'ic è un racconto in cui Tolstoj esprime un concetto molto importante: una vita passata ad assecondare il sentire comune, in funzione dei valori altrui e in dispregio dei propri, è uno spreco. Il protagonista giunge a questa conclusione attraverso le riflessioni finali; capisce di non aver vissuto la propria esistenza, mai infatti ha compiuto un'azione spinto da una propria pulsione, ha agito solo per compiacere le persone altolocate e garantirsi una vita agiata, e questo spreco della sua esistenza è stato la vera causa della sua morte: gli viene sottratta la vita che lui sta buttando via. In pratica il non vivere la propria vita equivale a morire.
Attraverso gli occhi del protagonista, Tolstoj mostra anche tutta la falsità nascosta nei valori fondanti della classe borghese (russa e non solo). Finché è un uomo in carriera e in salute, la sua vita scorre tranquilla e tutti sembrano apprezzarlo, quando invece si ritrova malato e bisognoso di aiuto, nemmeno la moglie e i figli hanno davvero pietà di lui, nonostante si preoccupino di circondarlo con una parvenza di premura.
Solo nella semplicità del servo Gerasim, Ivan Il'ic trova un po' di compassione; solo chi è al di fuori del sistema di valori fittizi su cui il protagonista ha costruito la propria vita riesce a sentire un briciolo d'amore per un uomo debole e indifeso.
C'è anche chi all'opera ha dato una lettura più religiosa, leggendovi una critica alle vite condotte in assenza di Dio e consacrate al solo raggiungimento della felicità materiale. Io credo che tale lettura sia influenzata dal fatto che Tolstoj qualche anno dopo si convertì al Cristianesimo, ma nell'opera personalmente ho letto solo una critica alla vita vissuta in funzione degli altri e non ho visto una conversione del protagonista in funzione religiosa.

Questo racconto, seppur breve, è l'ennesima testimonianza della grandezza di Lev Tolstoj e dell'importanza che la sua opera ha ancora ai giorni nostri.
In poche pagine lo scrittore russo si scaglia contro le persone che vivono in funzione degli altri, avendo come unico scopo della vita quello di essere accettate, così da potersi permettere un'esistenza piatta e sicura.
La vita è passione, è lotta, è vittorie e sconfitte, è affermazione di sé nel mondo: se a questo rinunciamo, non viviamo. 
Ivan Il'ic era nel 1886 l'immagine del borghese russo, ma è oggi la fotografia dell'uomo medio. In tanti oggi vivono uniformandosi ai dettami della massa, rinunciando completamente alla propria unicità, perché convinti che diventando una copia degli altri saranno accettati. Eppure, ci dice Tolstoj, così facendo rinunciamo a noi stessi, e moriamo.   

Francesco Abate

giovedì 10 dicembre 2020

RECENSIONE DE "IL CIMITERO DI PRAGA" DI UMBERTO ECO

 

Il cimitero di Praga è un romanzo dello scrittore italiano Umberto Eco pubblicato nel 2010.
L'autore trascrive in forma romanzata un identikit dell'antisemitismo e delle leggende create per giustificarlo, mettendoci così in condizione di capire meglio come certi sentimenti disumani possano aver trovato terreno fertile durante gli anni dell'Olocausto.

Il romanzo è formato dai diari del protagonista, un certo Simone Simonini, che si risveglia privo di memoria e inizia a scrivere per riportare alla mente i fatti della sua vita. Ben presto però il suo diario si trasforma in un'opera scritta a quattro mani, visto che ai suoi appunti si uniscono quelli del misterioso abate Dalla Piccola, il quale vive in un piccolo appartamento collegato a quello di Simonini attraverso un cunicolo.
Simonini ripercorre i fatti salienti della propria vita. Abilissimo nel falsificare i documenti, da semplice falsario si ritrova ad essere un agente segreto incaricato di costruire complotti credibili al fine di screditare il nemico politico di turno. I suoi ricordi spesso vengono corretti, o arricchiti, dagli appunti dell'abate Dalla Piccola, la cui vita evidentemente è legata a quella dell'ignoto interlocutore.
Il mistero si infittisce quando Simonini ricorda di aver ucciso l'abate Dalla Piccola, nonostante questo continui a scrivere sul suo diario.
I ricordi del protagonista intanto continuano. Da agente impegnato nella costruzione di finti complotti massonici o rivoluzionari, finisce per dedicarsi all'invenzione di un documento che attiri tutta l'attenzione sugli ebrei, nella speranza di spingere i governi di tutto il mondo a impegnarsi nello sterminio di quella razza che lui tanto odia.
Visto l'argomento delicato dell'opera, e la bravura dell'autore nel rendere realistico l'odio di Simonini verso gli ebrei, all'uscita del romanzo alcuni sostennero che avrebbe contribuito a diffondere l'antisemitismo più che a condannarlo. Dal mio punto di vista la polemica fu però stupida e superficiale, infatti nel romanzo è mostrato chiaramente che l'odio verso gli ebrei non ha alcun fondamento reale, inoltre si vede come i capisaldi dell'antisemitismo siano figli di invenzioni fatte in malafede.

Il cimitero di Praga è un romanzo storico che ci mostra la genesi di uno dei documenti falsi più celebri della storia, I Protocolli dei savi Anziani di Sion, che la polizia zarista usò per diffondere l'antisemitismo e giustificare agli occhi dell'opinione pubblica la persecuzione degli ebrei. Anni dopo Adolf Hitler, benché fosse stata ormai provata la falsità dei Protocolli, li citò nel Mein Kampf e ne usò i contenuti per giustificare la sua politica anti-ebraica.
I fatti narrati nel romanzo, precisa il narratore alla fine, sono reali, solo alcuni nomi (tra cui quello di Simonini) sono stati inventati per attribuire a uno solo i pensieri e le azioni che furono di molti, così da rendere più agevole la trasposizione dei fatti storici in un romanzo.
Con quest'opera perciò Eco ci mostra la falsità e i pregiudizi su cui si fonda il sentimento dell'antisemitismo, inoltre ci fa vedere come dalla fantasia si plasmino le false notizie con cui viene manipolata l'opinione pubblica.

I personaggi che compaiono ne Il cimitero di Praga sono tantissimi, ma quello principale intorno a cui ruota tutto è Simone Simonini.
Leggendo le pagine del suo diario, scopriamo un uomo pervaso da un odio profondo nei confronti sia dei gesuiti che degli ebrei. Se nel caso dei primi il suo odio trova però una giustificazione, fu infatti educato duramente da loro e da un gesuita subì anche molestie sessuali, nel caso degli ebrei è un odio viscerale totalmente immotivato, nutrito da quello che già suo nonno provava.
Simonini è un opportunista senza scrupoli, impara a falsificare i documenti e su questo costruisce la propria fortuna economica. Diventa una spia e fa fruttare la sua abilità, ma in cuor suo ha sempre un unico scopo che lo muove: costruire una storia che convinca la gente che gli ebrei sono un pericolo, così da favorire lo sterminio di quella razza che tanto odia. Costruisce le sue menzogne basandosi sui romanzi; sa che sono bugie, ma tanto li odia da convincersi che esse manifestino una verità nascosta. In pratica nutre un odio ingiustificato, fabbrica motivi fasulli per giustificarlo e se ne convince lui per primo.
Simonini è anche molto abile nel manipolare le persone e nel comprendere le situazioni in cui si trova invischiato, riesce perciò a tirarsi fuori dai guai ogni volta che rischia la vita. 
Non è un uomo violento, ma pur di salvarsi la vita non esita a uccidere delle persone. 

Le vicende de Il cimitero di Praga le scopriamo attraverso il diario di Simone Simonini, nonostante questo le voci narranti sono tre. Agli scritti del protagonista si aggiungono i racconti dell'abate Dalla Piccola, che integra e spesso corregge i ricordi confusi di Simonini, e gli interventi dell'autore, che in alcuni passaggi sintetizza il racconto e media tra le due versioni. 
Eco usa gli interventi dell'autore per evitare che il romanzo diventi troppo prolisso senza però tralasciare alcun passaggio della narrazione. Questo espediente si rivela necessario perché l'autore ci racconta una storia vera, quella della genesi dei tristemente celebri Protocolli dei savi Anziani di Sion, e per non privarla di accuratezza non può trascurare nessun evento, ma allo stesso tempo ha bisogno di snellire i passaggi che potrebbero rendere la lettura troppo noiosa, perché in fin dei conti l'opera resta comunque un romanzo.

Adoro Umberto Eco e posso dire senza dubbio alcuno che Il cimitero di Praga è dopo Il nome della rosa la sua opera migliore.
In un romanzo ricco di suspense e molto godibile, l'autore affronta un tema spinoso che troppo spesso viene trattato con leggerezza, quello dell'antisemitismo. Si parla molto dell'odio contro gli ebrei in occasione della shoah, così erroneamente molti finiscono per associare la persecuzione degli ebrei col nazismo, ignorando che invece la soluzione finale fu solo una conseguenza estrema. L'antisemitismo in Europa esiste da almeno un millennio; già nel romanzo Ivanhoe, che è ambientato nel Trecento, troviamo un ebreo da tutti discriminato e visto come un avido avvoltoio. Ricordiamo poi che questa piaga oggi non è estinta, visto il proliferare di gruppi neonazisti e le numerose profanazioni di cimiteri ebraici a cui abbiamo assistito di recente.
Leggendo questo libro vediamo a cosa è approdato l'antisemitismo antico, i Protocolli, e come questi siano stati usati per giustificare le sanguinose persecuzioni del ventesimo secolo. Ci viene mostrato come certi pseudo-documenti nascano per giustificare l'odio ma non ne siano i padri, bensì ne sono i figli, perché dall'odio essi sono generati; possiamo quindi capire che fenomeni come i Protocolli dei savi Anziani di Sion non siano la ragione dell'odio contro gli ebrei, ne sono una conseguenza. 
Oggi più che mai ritengo importante la lettura di questo romanzo. Prima di tutto ci permette di riflettere su una piaga che non è per niente rimarginata, quella dell'odio verso razze diverse e verso gli ebrei in particolare, inoltre mostra come certi pseudo-documenti siano fasulli, permettendoci di sfuggire alle loro periodiche riproposizioni (di recente il senatore Lannutti denunciò che le banche sono controllate dai savi di Sion). Non è perciò soltanto un bellissimo romanzo, ma anche ricco di contenuti importanti.

Francesco Abate

domenica 6 dicembre 2020

LA FAMIGLIA E "I PROTETTORI DI LIBRI"

 

In questo anno tragico che si avvia alla conclusione, l'approssimarsi delle feste natalizie ha sollevato il problema dei ricongiungimenti familiari, con polemiche aspre (e talvolta stupide) che arrivano da tutte le parti.
Non voglio addentrarmi nel merito della questione politica, non è questa la sede opportuna, ma voglio approfittarne per fare una riflessione su ciò che davvero è la famiglia, usando come esempi i personaggi del mio ultimo romanzo, I Protettori di Libri.
La famiglia è per tradizione un nucleo tenuto insieme da legami di sangue molto stretti e da amore reciproco. 
Nel romanzo non si menziona la situazione familiare di nessuno dei protagonisti, eccezion fatta per Francesco. Del misterioso ribelle veniamo a sapere che non ha più i genitori, ma ha ancora in vita un fratello, il quale però è schierato dalla parte opposta alla sua; mentre il maggiore, Francesco, si isola e si dedica a una causa importante per l'intera umanità, Federico sceglie di aggregarsi ai briganti di Peppe 'a ciucciuvettola e dedica la sua vita alla violenza sui più deboli. Tra i due ovviamente non c'è stima e finiscono per scontrarsi duramente.
Benché tra Francesco e Federico vi sia un legame di sangue, è impossibile poterli definire una famiglia. Tra di loro non solo non c'è amore, ma nemmeno stima, e combattono l'uno contro l'altro. 
Se una famiglia si crea nel romanzo, è la coppia Francesco e Giovanna. Vi anticipo che tra i due non nasce una storia d'amore in stile hollywoodiano (una cosa così banale non l'avrei scritta nemmeno sotto tortura), eppure si sviluppa un legame molto intenso, che porta ciascuno dei due a tenere all'altro quanto tiene a sé stesso: un legame del genere per me è famiglia.

***

Cosa porta allo scontro tra Francesco e il suo fratello brigante? Che ruolo ha Federico nella banda di Peppe 'a ciucciuvettola? Che tipo di amore si sviluppa tra Francesco e Giovanna?
A queste domande potete avere risposta acquistando I Protettori di Libri su uno dei link che trovate andando in questa pagina. Il romanzo è disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.
Dopo averlo letto, non dimenticate di lasciare un commento sul blog, su Facebook o su Twitter. Potete seguirmi anche sul canale Istagram f.abate_scrittoresa.
Se vi fa piacere, fatemi sapere cosa è per voi la famiglia.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

martedì 1 dicembre 2020

DUE CHIACCHIERE SU EKATOMERE E IL MIO RACCONTO "LA FUGA"

 

Ciò che ha contraddistinto il 2020 è stato di certo questo maledetto Covid-19, che ha spezzato tante vite e ci ha rinchiusi in casa.
Come sempre accade ai giorni nostri, anche un evento tanto epocale quanto tragico è stato coperto con la caciara, che serve solo a fare rumore, mentre i giorni segnanti che abbiamo trascorso meriterebbero di essere meditati, metabolizzati e compresi.
Mentre tanti peggioravano una situazione già caotica facendo quella che a Napoli chiamano ammuina, un gruppo di scrittori ha tradotto sulla carta le impressioni generate dal momento della chiusura totale (che da bravi odiatori della lingua italiana chiamiamo lockdown) e i frutti delle proprie meditazioni. Dal lavoro di questi trentaquattro scrittori nasce Ekatomere. Racconti tra Decameron e pandemia, edito dalla casa editrice indipendente Terra Somnia Editore e curato da Paola Bisconti.
Lo scopo dell'opera è semplice nella sua complessità: fotografare un momento storico tragico attraverso le sensazioni e le riflessioni più disparate, scrivere un'opera di narrativa capace di raccontare un periodo e una cultura. Inevitabile è stato il richiamo al Decameron di Boccaccio, che fu scritto in un contesto simile a suo modo è l'immagine di un periodo storico.
In questo libro si trovano i racconti più vari e leggerlo sarà come confrontarsi con trentaquattro persone diverse, capirne le idee e gli stati d'animo, arrivando così a comprendere la realtà contemporanea in modo meno superficiale di quanto si possa fare rincorrendo le informazioni contrapposte che i media vomitano senza freno.

Tra i trentaquattro autori sopracitati ci sono anche io. Il mio racconto prende l'ispirazione da un fatto realmente accaduto, rielaborato per riflettere su quanto ci facesse soffrire l'impossibilità di avere rapporti sociali, ma anche sulla ragione per cui ci riesce così pesante restare da soli e immersi nel silenzio.
La chiusura in primavera ha costretto tutti a rinunciare alla movida e alla socialità spinta a cui siamo assuefatti, è stata perciò una buona occasione per chiedersi perché preferiamo le finte amicizie e le chiacchiere senza senso alla solitudine e alla riflessione.

Vi invito ad acquistare e leggere il libro, perché anche dal periodo più nero può arrivare la crescita se si è capaci di capirlo e capirsi.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate 

lunedì 23 novembre 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "GLI SDRAIATI" DI MICHELE SERRA

 

Gli sdraiati è un romanzo dello scrittore e giornalista italiano Michele Serra.
Pubblicato nel 2013, l'opera affronta il tema del contrasto generazionale nella nostra epoca iper-tecnologica.

Il romanzo è un lungo monologo interiore del protagonista, che osserva il figlio e constata l'impossibilità di comunicare con lui, un ragazzo che non parla mai di sé, a cui interessa solo passare il tempo tra smartphone e uscite con gli amici, che non manifesta passione per niente.
Nel tentativo di "raddrizzarlo", il protagonista convince il figlio a risalire a piedi il Colle della Nasca, cosa che fece lui in gioventù e rappresentò un momento molto significativo della sua crescita.

I protagonisti del romanzo sono due: l'io narrante e suo figlio Stefano.
L'io narrante è un cinquantenne borghese di sinistra che, memore dei valori con cui è cresciuto, non riesce ad accettare i comportamenti del figlio, il quale gli sembra apatico (uno "sdraiato") e privo di qualsiasi interesse, intrappolato nella tecnologia e al di fuori anche delle più elementari norme di convivenza civile.
Stefano lo vediamo sempre attraverso gli occhi del narratore ed altro non è che una proiezione della gioventù attuale. Vive una vita con orari sballati, completamente distaccato dal mondo che lo circonda e dalla sua stessa famiglia, privo di qualsiasi interesse che non sia legato alle apparecchiature tecnologiche o alla cura della propria immagine. Un ragazzo in apparenza vuoto e narcisista.

Gli sdraiati tratta un po' tutti i temi legati alle differenze generazionali tra i giovani d'oggi e i loro padri. 
Viviamo in una società iper-tecnologica e i giovani vivono sempre più immersi nel mondo della socializzazione virtuale, molto attenti a seguire le mode e a curare il proprio corpo, ma almeno in apparenza completamente privi di qualsiasi interesse più profondo.
L'autore con questa storia ci mostra quanto sia difficile per un padre interagire oggi con un figlio, non riuscendo in alcun modo a coglierne gli interessi, ma allo stesso tempo mette in guardia da parecchi luoghi comuni. Il viaggio finale che il protagonista fa col figlio gli insegna infatti che quest'ultimo è meno impreparato di quanto pensasse alla scalata, che simboleggia la vita, e gli fa vedere come Stefano non sia completamente insensibile al mondo, semplicemente lo guarda in modo diverso. Da questo punto di vista, ci dice l'autore, la distanza tra i padri e i figli oggi non è tanto differente da quella di un tempo: c'è un mondo nuovo, quello dei giovani, che i padri non riescono a capire, ma non è necessariamente peggiore del vecchio.
Benché il messaggio finale del romanzo sia positivo, l'autore non perde l'occasione per analizzare dei problemi che sono endemici nel nostro tempo. C'è il "relativismo etico", la perdita cioè di valori positivi assoluti, che mette gli educatori in una posizione estremamente fragile, perché cosa puoi insegnare se non c'è una verità assoluta? C'è poi la riflessione sulla società consumistica che incentiva l'eccessiva cura del corpo e il disinteresse verso il mondo esterno, questo al fine di creare consumatori perfetti il cui unico scopo nella vita è acquistare oggetti alla moda: un'immagine perfetta del nostro tempo, fatto di influencer e aspiranti tali.

Confesso di aver acquistato questo libro per caso: me lo sono trovato davanti nei pressi della cassa in libreria e mi ha incuriosito il titolo. Mi sono approcciato alla sua lettura con il timore di aver buttato via i soldi, invece è stata una lettura piacevole e per niente banale.
All'inizio il romanzo fa storcere un po' il naso, sembrando ricco di luoghi comuni, però alla fine è lo stesso protagonista a capire di aver sbagliato nel dare certi giudizi che è ingiusto estendere a un'intera generazione.
Si tratta di un romanzo breve e di semplice lettura, che ci proietta nelle difficoltà di un padre nel comprendere una generazione diversa dalla propria non solo negli ideali e nei valori, ma anche nelle modalità di comunicazione. Ci troviamo quindi di fronte alla difficoltà di essere educatori oggi. Il testo ha inoltre un gran valore perché evidenzia le storture della società odierna, ma ci lascia anche con la speranza che non tutti i giovani d'oggi siano degli sdraiati, degli apatici, e che in loro vi siano ancora dei valori e un positivo attaccamento alla vita.
Va dato merito all'autore di aver affrontato temi così spinosi in modo leggero e a tratti anche simpatico, con un libro che si legge in un pomeriggio e non diventa mai pesante.

Francesco Abate

giovedì 12 novembre 2020

LA VIOLENZA NEL ROMANZO "I PROTETTORI DI LIBRI"

 

I Protettori di Libri è un romanzo che parla di guerra, dittatura e rivoluzione, quindi al suo interno non poteva mancare una buona dose di violenza.

Oggi siamo immersi in una cultura dove la violenza è spesso spogliata della sua gravità, per tante ragioni essa viene giustificata o addirittura presentata come buona, finendo per farci perdere l'idea esatta del suo valore negativo. Il cinema, la tv, anche molti libri e videogiochi per ragazzi, disegnano un protagonista che diventa eroe risolvendo un problema, o rimediando a un'ingiustizia, usando la violenza. 
A tutti è capitato di vedere un poliziesco dove il protagonista, certo della colpevolezza dell'interrogato, non esita a usare "maniere forti" per estorcergli una confessione: in quel contesto il crimine e l'uso della violenza diventano agli occhi dello spettatore un'arma lecita perché usata contro un cattivo. Non dobbiamo meravigliarci se un poliziotto esaltato, convinto per ragioni discutibili di essere in presenza di un delinquente, si sente in diritto di abusare del proprio potere e usare la violenza. I tanti casi di polizia violenta sono figli di questa cultura, perché nascono dalla convinzione che quell'abuso di potere in quel contesto sia qualcosa di accettabile.
Faccio un altro esempio, forse un po' più spinoso. Lessi tempo fa per caso di un'intervista in cui un popolare calciatore raccontava le scenate di gelosia di un'ex fidanzata, sostenendo di essere stato più volte inseguito e addirittura schiaffeggiato in pubblico. L'episodio veniva riportato con leggerezza, perché spesso sentendo di un uomo infedele che prende uno schiaffo dalla compagna ci limitiamo a sorridere e a commentare che l'ha meritato. Eppure immaginiamo fosse capitato l'inverso, con la ragazza picchiata dal ragazzo per la stessa ragione. Molti giustamente si sarebbero indignati e avrebbero colto la gravità della cosa, ma molti altri avrebbero riso comunque convinti che lei l'avesse meritato. Nel primo caso c'è un'evidente sottovalutazione della gravità dell'atto violento, causata dall'assenza di gravi conseguenze, ma tale sottovalutazione può ripetersi (e si ripete spesso, purtroppo) anche in situazioni più drammatiche come quelle in cui sfociano casi simili al secondo. 
Se non ci abituiamo a censurare sempre gli atti violenti, a prescindere dalle caratteristiche del colpevole e della vittima, se quindi non ci facciamo entrare in testa che la violenza è sempre riprovevole e mai giustificabile, non smetteremo di essere circondati da persone che giustificano e commettono atti violenti. Non importa chi picchia chi, chi ammazza chi, o la ragione per cui l'ha fatto: importa soltanto che l'atto violento è stato commesso, e sempre chi lo commette è colpevole e chi lo subisce è vittima. Non devono essere ammesse eccezioni, perché l'eccezione è il forellino che si allargherà fino a formare la voragine. Perché tali eccezioni smettano di essere ammesse, è necessario che la cultura cambi, quindi è compito dell'arte spogliare la violenza del suo fascino e presentarla in tutta la sua bruttezza.

Non ho esposto questa idea per caso. Con l'idea che ho della violenza e del ruolo della cultura come suo veicolo, nello scrivere I Protettori di Libri mi sono ritrovato in un campo minato. Dovevo descrivere la violenza, perché era necessaria ai fini del messaggio e della trama, ma dovevo allo stesso tempo evitare di darle un ruolo positivo, o anche solo un fascino.
Nel mio romanzo i personaggi positivi non sono violenti, ricorrono alla violenza solo per salvare la propria vita o l'esito della propria missione. I Protettori di Libri sono dei rivoluzionari, ma non sparano e non lanciano bombe, si limitano a conservare la medicina che può debellare il virus della dittatura: i libri. Anche i due protagonisti del romanzo, Giovanna e Francesco, usano la violenza solo per difendere le proprie vite. Ci sono invece i personaggi negativi che usano la violenza o per piacere personale, come il sadico Taipan, o per sentirsi grandi, come Peppe 'a ciucciuvettola: si tratta di personaggi che nel loro essere e nei loro comportamenti manifestano ciò di cui sono fermamente convinto, cioè che il violento è indegno di essere giudicato un essere umano.

***

Riusciranno i Protettori di Libri a portare a termine la loro rivoluzione non violenta? Quali pericoli costringeranno Giovanna e Francesco a usare le maniere forti? Riusciranno Taipan e Peppe 'a ciucciuvettola a far trionfare la propria mostruosità?
Potete scoprirlo acquistando il romanzo I Protettori di Libri su uno dei link che trovate andando in questa pagina. Il romanzo è disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.
Dopo averlo letto, non dimenticate di lasciare un commento sul blog, su Facebook o su Twitter.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

domenica 8 novembre 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "L'AMMAZZATOIO" DI EMILE ZOLA

 

L'ammazzatoio di Emile Zola è un romanzo che iniziò a essere pubblicato a puntate sul giornale Le bien publique nel 1876, salvo poi essere bloccato per le proteste dei lettori. Dopo la pubblicazione su un secondo giornale, La Republique des letres, ebbe un enorme successo. Fu definitivamente pubblicato come libro nel 1877.
L'opera si colloca nel ciclo I Rougon-Macquart (di cui fa parte anche Nanà).

Protagonista della storia è Gervasia, una donna che vive in condizioni misere col compagno Lantier e i suoi due figli. Si trova a vivere nei bassifondi di Parigi perché, ancora ragazzina, fuggì con l'attuale compagno. A dispetto delle speranze e della romantica fuga d'amore, Gervasia vive una vita d'inferno: subisce i continui tradimenti del marito e spesso viene anche picchiata.
Gervasia ama Lantier nonostante tutto, eppure lui di punto in bianco fugge con un'altra ragazza, lasciandola sola e in miseria con due figli da mantenere.
Sebbene decida di dedicarsi solo al lavoro e alla crescita dei figli, si innamora di Coupeau, un brav'uomo che non beve (a differenza di Lantier) e che è davvero innamorato di lei. Si sposano e vanno a vivere insieme, nonostante la gelosia della sorella e del cognato di Coupeau. 
La nuova vita con Coupeau procede alla grande, tanto che Gervasia riesce a mettere dei soldi da parte e aprire una bottega, ma un incidente sul lavoro fa precipitare l'uomo nell'alcolismo, dando inizio a una nuova discesa inesorabile nella miseria economica e morale.

L'ammazzatoio è un romanzo che presenta diversi temi, ma quello principale è senza dubbio l'alcolismo. Gli uomini di Gervasia, Coupeau soprattutto, abusano di alcol e finiscono per imbruttirsi moralmente e rovinarsi economicamente. Coupeau è un uomo buono e laborioso, eppure l'alcol lo trasforma in un nullafacente che scialacqua il denaro guadagnato dalla moglie, lo fa diventare violento e prepotente con lei.
L'alcol non rovina soltanto chi in esso annega, ma causa dolori forse più intensi anche a chi gli sta intorno. Lo vediamo con la vicenda di Gervasia, ma in modo ancora più drammatico Zola ce lo mostra con la famiglia Bijard, i vicini di casa. Il signor Bijard è un'alcolista che, ubriaco, non risparmia mai alla moglie una pesante razione di botte; a seguito di uno dei soliti pestaggi, la povera donna muore. Morta la sig.ra Bijard, il marito inizia a sfogare la sua furia sulla figlia Laila di otto anni, finendo per far morire anche lei di percosse e di stenti.
La vicenda dei Bijard, insieme a quella di Gervasia stessa, introduce anche un altro tema fondamentale nel romanzo: la violenza domestica, principalmente quella sulle donne. Gervasia viene picchiata da Lantier e da Coupeau, i quali esercitano con durezza il ruolo di padroni nonostante sia lei a guadagnare i soldi che loro sperperano; a sua volta picchia quando deve difendersi, ma principalmente è costretta a subire.
Il destino da martire delle donne è rappresentato non solo dalle botte subite, ma anche dall'atteggiamento delle vittime nei confronti delle violenze domestiche: le subiscono con amarezza, rabbia e rassegnazione, senza mai tentare davvero la fuga da uno stato di cose tanto crudele e ingiusto. Per le donne l'unica vera liberazione dalla vita miserevole a cui sono destinate è la morte: solo morendo Gervasia si sottrae alla miseria e al degrado in cui l'alcolismo del marito l'aveva trascinata, e il becchino che la chiude nella bara si presenta come "il consolatore delle donne".
Altro tema dell'opera è il contrasto tra il benessere e la miseria. A poca distanza e all'interno della stessa città, cioè Parigi, ci sono una parte sfarzosa e bella e più nascosti i quartieri dei miserabili, dove vive la gente povera abbandonata a sé stessa e alla mercé dei vizi.
Pur non essendo uno dei temi principali dell'opera, L'ammazzatoio pone anche la questione della svalutazione del lavoro operaio a causa della tecnologia. Goujet, un amico di Gervasia, le fa vedere le macchine che ci sono nell'azienda in cui lavora e manifesta il timore che queste facciano perdere valore al lavoro dell'operaio umano; la previsione di Goujet si rivela, infatti gli operai subiscono un abbassamento dei salari.

La protagonista assoluta del romanzo è Gervasia, una giovane e bella donna che vive nei sobborghi di Parigi. Si tratta di una ragazza semplice, che vuole una vita tranquilla in cui crescere i figli con la certezza di dagli da mangiare e vestirli decentemente. Il suo progetto semplice viene però rovinato dagli uomini: prima dall'approfittatore Lantier, poi dall'alcolista Coupeau. Lei è parsimoniosa e lavoratrice, capace di mettere da parte i soldi guadagnati duramente, ma lentamente cade in rovina dietro agli uomini della sua vita e, sempre a causa loro, subisce una tremenda trasformazione morale. La donna laboriosa e parsimoniosa, avvilita dai danni subiti dagli uomini, degenera in una scialacquatrice esibizionista, un'alcolista, e finisce addirittura per prostituirsi a causa della fame. Anche il suo fisico si trasforma e segue l'anima di pari passo: all'inizio è giovane, con una lieve zoppia che non ne sminuisce per niente la bellezza, poi lentamente ingrassa in maniera abnorme e la sua andatura diventa palesemente claudicante, trasformandola in una figura grottesca. Muore in un sottoscala dove fino a poco prima aveva dormito un mendicante, sola e dimenticata da tutti.
Coupeau è il marito di Gervasia. All'inizio è un brav'uomo, l'ama davvero e la sposa nonostante lei abbia già due figli. Si rivela un compagno amorevole e laborioso, ma dopo l'incidente cambia drasticamente, diventa pigro e scivola nell'alcol. L'alcolismo lentamente lo trasforma, facendolo diventare scialacquatore e cattivo nei confronti della moglie. Anche fisicamente subisce i danni dell'alcol, infatti comincia ad avere problemi mentali e muore in manicomio, preda di spaventose allucinazioni.
Lantier è il primo compagno di Gervasia, un'opportunista che seduce le donne per succhiarne gli averi, poi le abbandona dopo averle ridotte in miseria. Lascia Gervasia sola con i suoi due figli, salvo poi ricomparire quando lei ha la bottega che fa buoni affari. Contribuisce alla rovina economica di Gervasia non senza prima averla sedotta, poi passa alla preda successiva.
Goujet è forse l'unico personaggio maschile positivo del romanzo. E' un uomo buono e laborioso, ama Gervasia e la corteggia perfino quando questa è diventata un'alcolista e fisicamente si è imbruttita. Può essere identificato come simbolo di una classe operaia virtuosa e lontana dai vizi della miseria, che viene però nascosta e perfino derisa da quella numericamentoe predominante, che invece è sciatta e preda dei peggiori impulsi.
Una citazione la meritano anche i signori Lorilleaux, il cognato e la sorella di Coupeau. Essi disapprovano le nozze dell'uomo con Gervasia perché perderanno il suo contributo economico, visto che lui alloggia presso casa loro, e per questo prendono lei in odio. Quando la donna risale la china e si sistema bene, diventano gelosi e non perdono occasione per diffondere pettegolezzi contro di lei. Quando alla fine lei va in rovina, godono nel vederla nel fango e ne sparlano in tutto il quartiere.

Il romanzo si chiama L'ammazzatoio perché pone come centro del peggiore dei mali, l'alcolismo, una bettola che si chiama "L'ammazzatoio di papà Coulombe". Un ruolo importantissimo svolge secondo me l'alambicco usato in questo locale; è tanto importante da farmelo considerare alla stregua di un personaggio.
Zola presenta l'alambicco come un diavolo tentatore, una sirena che col suo suono allo stesso tempo ripugna e seduce, respinge e attira, finendo per confondere la vittima col succo del suo lavoro e precipitarla nella rovina. Emblematica è la scena in cui Gervasia, seduta al tavolo con Coupeau, guarda l'alambicco con sentimenti contrastanti, temendolo e desiderandolo, odiandolo e amandolo; la scena precede l'inizio della definitiva caduta della donna nell'inferno degli alcolizzati.

L'ammazzatoio è un romanzo che presenta l'umanità nella sua immagine peggiore, deturpata dall'alcol e infangata dalla miseria. Così come in Nanà, Zola ci racconta una storia di rivalsa sociale che finisce male, in cui la protagonista riesce a rialzarsi dal fango solo per un attimo e poi ci affonda del tutto.
Si tratta di un'opera che affronta temi molto delicati ma anche molto attuali. Le epoche sono cambiate, ma alcol e droga mietono ancora tante vittime dopo averle private della dignità e deturpate nello spirito, così come le mura domestiche sono ancora troppo spesso sede di crudeltà e ingiustizie contro donne e bambini, e anche il tema della svalutazione del lavoro non è per niente superato.
A differenza di quello che la cultura di massa oggi ci fa credere, Zola ci insegna che volere non sempre è potere. Ci sono categorie sociali che non hanno alcuna possibilità di farcela: sono tartarughine indifese in viaggio verso il mare, ignare dei gabbiani che in picchiata calano inesorabili verso di loro. Anche oggi ci sono tante Gervasia, non solo donne, che vengono devastate da approfittatori, prepotenti, invidiosi, e private della speranza cadono nella trappola dei vizi, finendo per rovinarsi definitivamente. Zola prima ci ricorda che esistono, poi ci indica che sono a pochi passi da noi; se aguzziamo la vista riusciamo di certo a vederle.
Consiglio la lettura di questo romanzo per assimilare la lezione di Zola e per imparare che non dobbiamo condannare chi scivola nel fango, perché spesso è solo una vittima. Canta Branduardi in Domenica e lunedì: "Non è da tutti catturare la vita / non disprezzate chi non ce la fa".

Francesco Abate

lunedì 26 ottobre 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "DESTINO DI DONNA" DI MARGIT KAFFKA

 

Pubblicato nel 1913, Destino di donna è un romanzo della scrittrice ungherese Margit Kaffka.
La Kaffka fu un'attivista per i diritti delle donne e la sua cultura femminista emerge nelle pagine di quest'opera, trasmettendo con grande efficacia il problema della condizione femminile nei primi anni del ventesimo secolo.

Protagonista del romanzo è Maria, una ragazza intelligente, emancipata e sveglia, che soffre per l'impossibilità di vivere una vita sentimentale indipendente. Soffocata dalle convenzioni sociali, si rifugia nelle proprie fantasie e diventa incapace di vivere un reale rapporto sentimentale con gli uomini, nonostante non le manchino i corteggiatori.
Esasperata dalla sua condizione, decide di abbandonarsi a una trasgressione, ma l'uomo con cui dovrebbe incontrarsi non si fa trovare all'appuntamento, lasciandola sola, confusa e in balìa dei mostri che la tormentano.

Destino di donna è un romanzo che, attraverso la vita e le riflessioni di Maria, mostra la condizione femminile nei primi anni del Novecento.
La donna dell'Europa di quegli anni aveva poco da scegliere: o si sposava, accettando di essere per sempre subalterna di un uomo, o restava nubile, esponendosi a continui e fastidiosi atteggiamenti di compatimento. C'era in realtà anche una terza scelta, cioè quella di vivere liberamente le proprie pulsioni e trasgredire, ma il prezzo di tale libertà era altissimo: la condanna da parte della società.
La vicenda di Maria, quindi l'esplorazione di questa gabbia in cui la donna era intrappolata, si svolge mentre in Europa cominciano a sorgere i primi movimenti per l'emancipazione femminile.

Protagonista del romanzo è Maria, una donna molto riflessiva, colta e intelligente. Non riesce ad arrendersi all'amore convenzionale perché non vuole rinunciare alla propria indipendenza ed essere per sempre subalterna a qualcuno. Questa sua rinuncia all'amore convenzionale la porta a essere nubile, quindi vive sulla propria pelle la fastidiosa posizione di persona da compatire. Alla fine pensa di concedersi una trasgressione, di vivere per una volta liberamente la propria sessualità in barba alle convenzioni sociali, ma la cosa non va in porto perché il corteggiatore viene meno. Pur non andata in porto, la tentata trasgressione le mostra chiaramente quella che sarà la sua esistenza: dovrà arrendersi alle convenzioni e rinunciare alla propria libertà oppure vivere di trasgressioni, scacciata dalla società. Alla fine sceglie di sottrarsi a questo destino tanto crudele e si uccide.
Molto importante per veicolare il messaggio del romanzo è poi il personaggio di Anatol, amico e poi fidanzato di Maria. Dopo essere stato respinto da lei, che inventa una relazione mai avuta per farsi considerare impura, si concede una scappatella con una cameriera che poi rivede tempo dopo in rovina. La vista della cameriera gli fa capire un'importante verità: è dispotico giudicare le qualità di una donna e segnarla solo in funzione della purezza del proprio corpo, l'uomo non ha il diritto di giudicare una donna solo in virtù di un incidente o una scelta sbagliata. Anatol è quindi un uomo che prende coscienza della condizione di disagio che vive la donna nella società, anche perché si rende conto di come un errore commesso insieme da un uomo e una donna (lui e la cameriera) distrugga lei senza neanche scalfire la rispettabilità di lui.
Pal Seregely è uno scrittore e per lungo tempo diventa amico di penna di Maria. La corrispondenza tra i due, che porta poi la donna a fare un lungo viaggio ripercorrendo tutte le tappe in cui era passato prima lui, mostra il distaccamento dalla realtà di Maria, che arriva addirittura a dire di aver compiuto il viaggio in compagnia dello scrittore. 
Due personaggi minori che hanno però un ruolo importante nella storia sono Vera e Adrienne. Vera è la sorella di Maria e spesso le racconta del suo rapporto col marito, rivelandole di essere consapevole dei suoi tradimenti, ma di accettarli in nome della conservazione di un buon matrimonio; è l'antitesi della sorella, perché rinuncia alla propria indipendenza e accetta delle scorrettezze per mantenere un buono status sociale. Adrienne invece è una donna che Maria vede a una festa (e non compare più), vive la propria vita senza cedere al conformismo e per questo da tutti viene additata come una poco di buono, quindi ha il ruolo di mostrare alla protagonista il destino che attende colei che osa uscire dai binari della morale.

In Italia Margit Kaffka non è molto conosciuta, eppure è un'autrice che andrebbe letta. Il tema delle discriminazioni di genere è oggi ancora molto attuale e, sebbene sia mutata la natura delle diseguaglianze, fa sempre bene ascoltare una voce forte e intelligente che segnala quello che non va.
La Kaffka ha scritto un buon libro con uno stile molto elegante, ha creato una protagonista molto riflessiva che vive pienamente su di sé la discriminazione e la comprende a fondo, permettendo al lettore di capirla pur non avendola mai vissuta. Questa lettura permette soprattutto di capire che la gabbia costruita intorno alle donne è di cristallo, si vede poco se non si guarda attentamente, perché non è fatta di azioni eclatanti, bensì di tante negazioni e di tanti squilibri di giudizio apparentemente irrilevanti. Leggendo questo libro vediamo inoltre come le donne stesse sappiano spesso essere le peggiori nemiche di sé stesse, non solo sottomettendosi alle iniquità ma anche diventandone le principali promotrici.
Consiglio di leggere questo romanzo; consiglio ancor più vivamente di usarlo come punto di partenza per un approfondimento sulle discriminazioni di genere che arrivi fino ai giorni nostri.

Francesco Abate 
 

giovedì 22 ottobre 2020

DALL'1 NOVEMBRE DISPONIBILE "EKATOMERE. RACCONTI TRA DECAMERON E PANDEMIA"

Sono felice di annunciarvi che dall'1 novembre sarà disponibile la raccolta di racconti Ekatomére. Racconti tra Decameron e pandemia, edito da Terra Somnia Editore. 
Il progetto, curato da Paola Bisconti, intende mostrare da più punti di vista il periodo tragico e complesso che stiamo attraversando. Per farlo si compone di racconti scritti da 34 autori diversi e tra questi ho l'onore di esserci anche io.

In mezzo al bombardamento mediatico e alla confusione che regna in questo momento, una lettura del genere può aiutare a rimettere in ordine i pensieri e guardare alla realtà che ci circonda con uno sguardo più profondo e consapevole.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

lunedì 19 ottobre 2020

PUBBLICATA "L'UOMO E' ARRIVATO"

 

Sono felice di informarvi che sul sito Spillwords.com è stata pubblicata la mia ultima poesia, L'uomo è arrivato.

Si tratta di una poesia in cui denuncio come l'arrivo dell'uomo sconvolga la natura, la deturpi e la privi tanto della salubrità quanto della bellezza. Nei versi del componimento metto in contrasto diretto il duro e sporco mondo della civiltà umana con le delicate e vitali manifestazioni della natura, cercando così di mostrare come la concezione utilitaristica che abbiamo del pianeta lo stia imbruttendo; di pari passo alla bruttezza procede poi la morte, perché noi distruggiamo oltre che rovinare, quindi la vita cede il passo alla morte man mano che la natura è costretta a cederlo al progresso.
Si tratta di un tema che mi sta molto a cuore e spero che possa contribuire a far sorgere un sentimento ambientalista in chi legge.

Vi ricordo che nella pagina Le mie poesie troverete tutte le poesie che ho pubblicato fino ad ora.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate



sabato 17 ottobre 2020

"I PROTETTORI DI LIBRI" RECENSITO SUL BLOG "LA CHIAVE DI LETTURA"

 
Sono felice di annunciare che il romanzo I Protettori di Libri è stato recensito dal blog "La chiave di lettura - Libri e aforismi" della bravissima Morgana Lefay.
Vi invito a leggere la recensione, che è fatta davvero molto bene, e a dare un'occhiata all'intero blog, che offre ottimi spunti su libri molto interessanti.

Per altre informazioni sul romanzo potete visitare la pagina dedicata.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

mercoledì 14 ottobre 2020

RECENSIONE DEL RACCONTO "EFRAIM BEN RUBEN" DI SIGURD CHRISTIANSEN

 

Efraim Ben Ruben è un racconto pubblicato dallo scrittore norvegese Sigurd Christiansen.
Nelle poche pagine del racconto, Christiansen mostra con lucidità gli effetti della discriminazione sugli Ebrei nei primi anni del Novecento. 

Il racconto ci parla di Efraim Ben Ruben, la cui famiglia parte dalla Spagna per trasferirsi in Svezia e poi, dopo pochi anni, si stabilisce in Danimarca.
Efraim si sente ben integrato nel suo paese e non soffre particolarmente per i pregiudizi che gravano sulla sua gente, si sente danese e desidera servire nell'esercito del suo paese. La sua domanda di ammissione all'esercito viene scartata perché lui è ebreo; la distruzione del suo sogno è il primo vero atto discriminatorio che in lui lascia un segno.
Sentendosi rifiutato dalla sua gente, Efraim si rifugia nelle tradizioni e nella religione, diventa molto colto ma allo stesso tempo molto chiuso e un po' estremista. Si isola così dai suoi concittadini e vive sognando di andare a vivere in Israele.

Il racconto ruota tutto intorno alla vita del protagonista, Efraim Ben Ruben.
Egli è molto ben integrato con i danesi, si sente parte di loro e per niente diverso, tanto da voler servire l'esercito e dedicare la vita alla difesa di quel paese che l'ha accolto e integrato. Quando si vede scartato a causa delle sue origini, sente di non essere parte di quel popolo, di essere stato respinto e messo da parte, quindi decide di tornare alle sue origini. Studia le tradizioni e la religione ebraica, in esse si chiude e allontana dalla sua esistenza tutto ciò che a loro è estraneo.
Nonostante si senta ebreo e non occidentale, a volte devia dalla strada della tradizione e si concede comportamenti "europei"; ne soffre e si ripromette di non farlo più, ma qui già vediamo come egli non sia diverso dai suoi concittadini danesi, anche se lo vorrebbe.
Il viaggio in Terra Santa che si pone come obiettivo, quello che lo consacrerà come ebreo e cancellerà definitivamente l'Europa dalla sua esistenza, gli mostra invece l'amara verità: lui è europeo, non israeliano, ed è molto più simile ai suoi concittadini danesi che non alla gente d'Israele. 
La sua intera esistenza è un Limbo: dentro è un danese, ma i danesi non lo accettano del tutto perché ebreo, mentre le sue radici sono in Israele, ma con gli israeliani ormai non ha più nulla in comune.

Benché sia un racconto breve, spesso non pubblicato neanche indipendentemente (io l'ho trovato in appendice al romanzo Due vivi e un morto), credo che Efraim Ben Ruben vada letto.
Christiansen riesce con la sua scrittura semplice e profonda al tempo stesso a mostrarci il dramma degli esclusi. Rifiutato da quelli con cui condivide l'esistenza, il protagonista si chiude in sé stesso e nelle sue radici, ma così finisce per trovarsi completamente alienato dal mondo.
Importante è anche leggere il processo di radicalizzazione ideologica del protagonista, ci porta infatti a ragionare su situazioni molto attuali, dato che discriminazione ed estremismo sono piaghe per nulla estinte.
Il racconto è importante da leggere anche in chiave storica. L'antisemitismo lo associamo sempre al nazismo, dimenticando spesso che già prima era molto diffuso e che la Shoah ne è stata l'estrema conseguenza. Nelle pagine del racconto viviamo il dramma di un ebreo escluso negli anni immediatamente precedenti alla Shoah, quindi vediamo il substrato su cui il dramma è germogliato.

Francesco Abate

mercoledì 7 ottobre 2020

KHALED AL-ASAAD: "I PROTETTORI DI LIBRI" DEDICATI A UN MARTIRE DEL SAPERE

 

I Protettori di Libri è un romanzo che parla della cultura, ce la presenta come arma indispensabile per la resistenza del singolo e della collettività: il singolo grazie a essa sviluppa coscienza di sé, diventa indipendente e trova la strada per la propria vera felicità; la collettività si giova dell'indipendenza dei singoli individui, diventa un organismo complesso e incontrollabile, inattaccabile da chi vuole ridurla in una semplice massa di fattori produttivi acefali.
Trattando di questo argomento, ho sentito l'obbligo di dedicare l'opera a Khaled al-Asaad, il custode dei resti antichi di Palmira, il quale preferì essere decapitato piuttosto che rivelare all'ISIS l'ubicazione dei preziosi reperti. Si tratta di una dedica impegnativa a cui tengo molto, perché un uomo che ha preferito la morte alla distruzione di un pezzo di cultura è la dimostrazione perfetta del valore che il sapere ha nella lotta contro le dittature. 
Le organizzazioni terroristiche (islamiche nel caso dell'ISIS, ma nel mondo ce ne sono di tanti tipi) hanno sempre tra i loro obiettivi la distruzione della memoria. Esse puntano ad azzerare la cultura del popolo che vogliono controllare, così da avere una tabula rasa su cui edificare una nuova identità totalmente acritica e sottomessa al loro volere.
In ogni periodo storico e in ogni parte del mondo, la lotta contro una dittatura è anche lotta per la cultura. Io cito Khaled al-Asaad, la cui uccisione avvenne poco prima che mi accingessi a scrivere il romanzo, ma dobbiamo ricordare anche Malala Yousafzai e tanti altri che nel mondo lottano per salvare la cultura o per garantirne l'accesso libero a tutti.
Quando abbiamo dubbi sull'importanza che per noi stessi o per la società in cui viviamo hanno il sapere e la scuola, ricordiamoci di questi eroi che sono arrivati a rischiare la vita, o a perderla, per salvaguardare questi valori. 
I Protettori di Libri è il mio modesto omaggio a tutti loro.

***

Potete acquistare I Protettori di Libri su uno dei link che trovate andando in questa pagina. Il romanzo è disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.
Dopo averlo letto, non dimenticate di lasciare un commento sul blog, su Facebook o su Twitter

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate 

domenica 4 ottobre 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "STORIA DI UNA CAPINERA" DI GIOVANNI VERGA

 

Storia di una capinera è un romanzo pubblicato dallo scrittore italiano Giovanni Verga nel 1871.
Si tratta di un romanzo epistolare in cui lo scrittore siciliano affronta lo scottante tema della clausura e dei suoi effetti sulla vita delle donne.

Protagonista del romanzo è Maria, giovane orfana di madre destinata alla clausura in convento. 
Si ritrova a casa col padre, la matrigna, la sorellastra Giuditta e il fratellastro Gigi a causa dell'epidemia di colera. Dal momento in cui torna a casa inizia un dialogo epistolare con la sua amica Marianna, educanda anch'essa nel convento, e attraverso le sue lettere l'autore ci fa conoscere la sua storia.
Durante la permanenza nella casa paterna, Maria riscopre la bellezza della natura e si innamora di Nino, che ricambia il suo amore. La sua relazione viene però stroncata sul nascere perché su Nino ha mire anche Giuditta, così la matrigna di Maria la costringe a non vedere più il ragazzo.
Passata l'epidemia di colera, Maria viene rispedita in convento dove prende i voti. Dopo aver conosciuto la vita e l'amore però, lei vive la clausura come una sepoltura e muore consumata dal suo amore per Nino, dai rimpianti, e dall'impossibilità di instaurare un naturale contatto umano con l'amato padre.

A differenza che in altre recensioni, di questo romanzo non vi ho nascosto il finale perché lo stesso Verga sin dall'inizio ci informa del destino che attende la protagonista.
L'opera si apre con l'autore che traccia un meraviglioso parallelo tra la vicenda della povera Maria e il destino di una capinera in gabbia: l'uccello soffre sentendo il canto dei suoi simili in libertà, desidera di volare con loro ma è bloccato nella gabbia, così muore nonostante si prendano cura di lui; lo stesso accade a Maria, che sogna di uscire fuori dal convento e vivere come tutti, finendo per consumarsi e morire nella sua prigione.
La stessa protagonista, che ha un cuore troppo passionale e vivo per resistere alla clausura e al distacco dal mondo, parlando della cerimonia con cui prende i voti si definisce una sepolta viva. Alle monache è vietato ogni contatto con l'esterno, compresi i parenti stretti, è negata la possibilità di vivere la natura e di assecondare le pulsioni del proprio cuore, vengono perciò sepolte e private della vita, che per loro diventa un'oscura e logorante esistenza.  

L'unica protagonista della vicenda è Maria, che ci narra la sua storia e ci mostra i suoi stati d'animo attraverso le lettere scritte a Marianna, di cui l'autore non ci fa conoscere le risposte. Questa scelta permette a Verga di concentrare tutta l'attenzione del lettore su di lei, inoltre accentua la sua sensazione di solitudine perché nelle lettere sembra parlare più a sé stessa che a un'altra persona, così come chi non ha interlocutori reali.
Ha un padre che ama molto, mentre la matrigna non prova un vero amore per lei e addirittura le impone l'isolamento in camera quando scopre che Nino la preferisce a sua figlia Giuditta. La sepoltura di Maria comincia perciò già in casa sua: le viene negato il contatto diretto con la natura che ha vissuto e scoperto nelle prime fasi della sua permanenza, preparandola al definitivo distacco dal mondo che avverrà con la cerimonia della presa dei voti.
Pur soffrendo per la sua condizione, Maria mostra una vera ribellione solo al monastero. Finché è in casa non disobbedisce mai agli ordini dei genitori e quando potrebbe vedere Nino di nascosto, perché lui bussa fuori alla sua finestra, non sfrutta l'occasione. Al monastero invece cede e comincia a salire di nascosto sul tetto per vedere da lontano l'amato Nino che vive con la sua sorellastra.

Storia di una capinera si può considerare un romanzo di denuncia. Verga ci mostra il destino che all'epoca era comune a molte donne orfane, cioè la clausura in monastero, e ci racconta di una scelta di vita che è una totale rinuncia a vivere: con l'intenzione di avvicinarsi a Dio, le monache si staccano dalla vita (quindi dalla natura e dall'amore), che forse del Creatore è la più potente manifestazione. Maria in una lettera scrive a proposito dei suoi voti: "No! Non è vero! Quello strano mistero che si è compiuto non mi ha avvicinato a Dio... mi ha lanciato nel buio, nel vuoto; mi ha annichilito".
Quello dei monasteri di clausura, del loro ruolo e delle storture che sorgevano al loro interno, era un tema molto sentito nella seconda metà dell'Ottocento, infatti meno di dieci anni prima Hugo ne I miserabili aveva dedicato parecchie pagine all'argomento.
Si tratta di un romanzo breve da leggere per il suo contenuto forte e per i toni drammatici. Come sempre Verga sa analizzare con grande precisione la miseria umana e i suoi effetti devastanti.

Francesco Abate

giovedì 24 settembre 2020

RECENSIONE DEL SAGGIO "DISOBBEDIENZA CIVILE" DI HENRY DAVID THOREAU

 

Disobbedienza civile è un saggio pubblicato dallo scrittore americano Henry David Thoreau nel 1849. L'autore lo pubblicò col titolo Resistenza al governo civile, il titolo attuale fu messo dopo la sua morte.
Ho scelto per presentare questo saggio la foto di Gandhi perché l'opera fu ispiratrice dei grandi movimenti non-violenti, influenzando molto personalità come Martin Luther King e Gandhi. Thoreau infatti vede come unica soluzione alle politiche ingiuste dei governi, che perseguono solo i fini di una ristretta cerchia di potenti invece di occuparsi della collettività, la disobbedienza civile intesa come lotta non violenta. La soluzione per lui non sono le rivolte violente, che ammette solo in casi estremi, ma il mancato pagamento delle tasse.
Della disobbedienza civile da lui propugnata Thoreau non fu solo un teorico: rifiutò di pagare la poll tax per protestare contro la politica aggressiva del governo statunitense, finendo in galera.

In Disobbedienza civile Thoreau insiste sul principio che tutti dovremmo essere prima uomini e poi cittadini. 
Il cieco rispetto della legge produce uomini già morti; l'autore paragona i servitori dello Stato, quelli che mettono le leggi e l'autorità prima di sé stessi e della propria coscienza, a burattini di legno capaci di servire contemporaneamente sia Dio che il diavolo. Pochissimi sono quelli che servono lo Stato anche con la coscienza; questi finiscono sempre per opporsi a chi detiene il potere, e sono eroi comunemente trattati come nemici.
Thoreau fa un esempio relativo al periodo in cui scrive. Il governo americano è schiavista e guerrafondaio, la popolazione negli USA è composta per 1/6 da schiavi, inoltre l'esercito ha invaso il Messico e lì applica la legge marziale. Per un uomo essere associato a un governo del genere è un disonore.
In presenza di un Governo così lontano dal giusto, l'uomo che ha coscienza non può fare altro che ribellarsi. L'autore critica quegli uomini buoni che non condividono le politiche del Governo ma non fanno nulla per cambiarle; al massimo si limitano a dare il voto a qualcuno scaricandogli il compito di aggiustare la situazione. Questo è un comportamento passivo che non porta a niente, perché non fa altro che manifestare debolmente agli uomini il desiderio che il giusto prevalga, senza però fare niente affinché ciò accada. L'uomo saggio non aspetta la maggioranza, ma lotta.

Thoreau, facendo riferimento alla situazione a lui contemporanea, critica quelli che protestano contro l'invasione del Messico ma non si rifiutano nemmeno di pagare la tassa con cui viene finanziato l'intervento armato.
L'uomo non ha il dovere di estirpare il male dalla società, ma ha l'obbligo di tenersene fuori e non supportarlo. Tutto si può fare, a patto che non sia fatto a danno di qualcun altro. Non si può nemmeno aspettare di cancellare l'ingiustizia seguendo gli iter legislativi, ci vuole troppo tempo e l'uomo viene al mondo per vivere, non per sprecare tempo a migliorare la società. Questo principio, che è alla base della disobbedienza civile, è molto interessante perché introduce un concetto fondamentale: la vita del singolo, che è unica e irripetibile, vale più di quella della società intesa come ente politico; viene perciò abbandonata la retorica della supremazia della collettività per rimettere l'uomo al centro della vita.
L'uomo ha l'obbligo di non appoggiare le iniziative ingiuste dello Stato e allo stesso tempo non può dedicare la sua esistenza a una inutile e infinita lotta politica, ha quindi una sola strada da percorrere: la disobbedienza civile. Gli Stati Uniti avevano invaso il Messico, quindi l'uomo di coscienza come minimo non avrebbe dovuto pagare la poll tax istituita per finanziare l'invasione. Lo Stato tutela solo la propria autorità, non il giusto, per questo quando istituisce una legge ingiusta questa deve essere violata.

Il miglior metodo di disobbedienza civile è il mancato pagamento delle tasse. L'unico momento in cui un cittadino medio incontra il Governo è quando arriva l'esattore delle tasse, per questo l'unico atto davvero efficace di disobbedienza civile è rifiutare di pagarle.
Ovviamente Thoreau propaganda il mancato pagamento delle sole tasse ingiuste, infatti lui dichiara di pagare volentieri quelle per le strade e l'istruzione.
Essendo il mancato pagamento delle tasse la forma migliore di lotta, l'autore spiega come la ricchezza sia un ostacolo alla disobbedienza civile. Quando un uomo ricco non paga le tasse, lo Stato gli prende tutto e perseguita anche i suoi figli. L'uomo che vive nella giustizia e nell'onestà perciò non deve accumulare ricchezze per non essere vulnerabile; deve possedere giusto quello che gli serve per vivere, così non avrà mai bisogno di sottomettersi allo Stato perché questi non potrà togliergli nulla. La ricchezza è quindi una forma di schiavitù.

Thoreau conclude il saggio analizzando la sua esperienza in carcere.
Racconta di aver perso fiducia nello Stato quando fu incarcerato per il mancato pagamento della poll tax. Vide che lo Stato lo trattava come carne e sangue, mortificandone il corpo invece di pensare a come avvalersi dei suoi servigi mentali. Lo Stato non fa valere così una superiorità intellettuale, ma come un bullo usa la propria superiorità fisica e si limita a premiare o punire il corpo dei suoi cittadini.
Nonostante fosse incarcerato, si sentiva più libero dei suoi concittadini: i veri prigionieri erano coloro che avevano pagato la tassa ingiusta e si erano sottomessi.
Capì in quel frangente di avere poco in comune coi suoi concittadini, i quali si dichiaravano interessati alla giustizia ma cercavano solo la sua parvenza.

Considero Disobbedienza civile un saggio da leggere assolutamente. Prima di tutto è necessario conoscerne i contenuti visto il grande impatto che ha avuto sulla storia del mondo, inoltre mostra un pensiero moderno che ancora oggi va preso in considerazione.
A differenza degli anarchici, Thoreau non vuole la fine di ogni governo, o almeno non una fine immediata, ma auspica l'avvento di classi dirigenti più vicine al cittadino, che non lo comandino per favorire gli interessi dell'una o dell'altra cerchia ma gli permettano di vivere la sua vita in serenità. 
Essendo però il sogno dello scrittore ben lontano dal realizzarsi, lui indica la strada della disobbedienza civile e della lotta non violenta.
Il pensiero di Thoreau a mio modo di vedere porta a un superamento del vecchio concetto di nazione. La nazione nei secoli scorsi era un'entità quasi sacra, il cui interesse era nettamente prevalente su quello del singolo; lo scrittore americano invece ritiene la vita dell'individuo molto più importante, così come la sua coscienza, e per questo un uomo giusto non può e non deve piegarsi all'ingiustizia, anche se questa è imposta da una legge.
Per valutare il pensiero dello scrittore bisogna però tenere presente di quello che a mio modo di vedere è il suo limite: egli ritiene che esista una giustizia assoluta. Per Thoreau l'uomo deve servire il giusto e non la legge, ma in mancanza del concetto di una giustizia assoluta questo concetto può diventare pericoloso, potrebbe infatti spingere chiunque a violare qualsiasi legge in nome di un proprio principio morale. Forse, onde evitare questo equivoco, sarebbe più giusto dire che deve essere violata qualsiasi legge che arrechi un danno ad altre persone, ma anche in questo caso entreremmo in un terreno pericoloso, perché incarcerare un assassino gli arreca un danno, e lui è pur sempre una persona, quindi si potrebbe opinare anche sul carcere per i delinquenti.
Il pensiero di Thoreau a mio modo di vedere va conosciuto ed apprezzato, preso come base per la formazione di un pensiero proprio circa il modo di rapportarsi a uno Stato tutt'altro che infallibile, ma necessariamente va rimodulato sulla base di presupposti più solidi della giustizia assoluta.

Francesco Abate