venerdì 29 marzo 2019

COMMENTO AL CANTO XXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava io sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,
lo più che padre mi dicea: << Figliuole,
vienne oramai, che 'l tempo che n'è imposto
più utilmente compartir si vuole >>.
Dante sta ancora osservando il grande albero che cresce nella sesta cornice, come il cacciatore che perde il suo tempo a scovare gli uccelli, quando Virgilio lo esorta a muoversi e lo riporta con la mente alla sua missione, dicendogli che bisogna impiegare in modo migliore il tempo loro concesso. Subito il poeta ascolta il suo maestro e riprende il cammino dietro Stazio e Virgilio (i savi), i quali con i loro discorsi riescono a non fargli sentire la fatica ("Io volsi 'l viso, e 'l passo non men tosto, / appresso i savi, che parlavan sìe, / che l'andar mi facean di nullo costo"). D'un tratto sente piangere e cantare "Labia mea, Domine" in un modo che unisce la beatitudine e la pena. Le parole del canto appartengono al Miserere, il Salmo 51, in cui David a un certo punto prega il Signore affinché si riaprano le sue labbra e nasca di nuovo il canto di lode; Dante attribuisce ai golosi questa parte del salmo e dichiara che nel loro canto si sente contemporaneamente gioia e dolore, lasciandoci intendere che le anime, nel chiedere che le loro labbra si riaprano, manifestano sia la speranza della beatitudine che la sofferenza della fame patita. Subito il poeta chiede alla guida spiegazioni su ciò che sta udendo e Virgilio gli spiega che sono le anime che si purificano dai peccati in quella cornice. Le anime dei golosi intanto fanno come i pellegrini assorti nel loro viaggio, danno una semplice occhiata carica di stupore ai nuovi arrivati e proseguono nel loro cammino, restando in silenzio e in atteggiamento meditativo ("Sì come i peregrin pensosi fanno, / giugnendo per cammin gente non nota, / che sì volgono ad essa e non restanno, / così di retro a noi, più tosto mota, / venendo e trapassando ci ammirava / d'anime turba tacita e devota"). Le anime hanno gli occhi incavati e spenti, sono pallide e tanto magre da far aderire la pelle alle ossa. L'autore, per rendere l'idea dell'incredibile magrezza che ha davanti agli occhi, prima ci dice che nemmeno Erisittone, che fu punito dalla dea Cerere con una fame mai sazia, fu mai così magro, poi dichiara di aver pensato che quelli potessero essere gli abitanti di Gerusalemme periti nell'assedio portato dai Romani ai tempi di Tito (la città sotto assedio patì la fame, si narra addirittura di una donna, Maria di Eleazaro, la quale uccise e mangiò il figlioletto). Gli occhi sembrano anelli senza la gemma incastonata, inoltre nel loro viso si può leggere la scritta "omo" con la m particolarmente accentuata (le due o sono le orbite, la m invece è formata dal naso e i due archi delle sopracciglia; secondo alcuni autori ascetici medievali, Dio scrive la parola omo sul volto degli uomini). Osservandoli, Dante si chiede come si possa credere che il desiderio di un pomo o di un po' d'acqua possa ridurre l'uomo a un tale stato. 
Dante guarda le anime nella loro terribile magrezza, ancora ignorandone la causa, quando una di loro volge verso di lui la testa e si chiede ad alta voce quale grazia gli sia stata riconosciuta ("ed ecco del profondo de la testa / volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso; / poi gridò forte: << Qual grazia m'è questa? >>"). Dall'aspetto il poeta non lo riconosce, ma il suono della voce gli indica subito che si tratta del suo amico Forese. Forese Donati, figlio di Corso, fu parente lontano della moglie di Dante, Gemma Donati; furono molto amici in vita, nonostante un acceso scambio di sonetti di scherno in cui il Donati accusò l'Alighieri di non vendicare le offese e d'essere figlio di un usuraio, mentre quest'ultimo rispose indicando l'accusatore come ghiottone, ladro, indebitato e bastardo. Forese esorta l'amico a non badare al suo aspetto simile a quello dei malati di scabbia, con la pelle secca e scuamosa, né alla sua magrezza, poi gli chiede chi siano le due anime che lo accompagnano nel cammino. Dante dichiara che vedere l'amico così malconcio gli genera una tristezza identica a quella che provò quando lo pianse morto nella bara, perciò gli chiede di spiegargli prima la sua pena e non farlo parlare adesso, perché parla malvolentieri chi è pieno di un altro desiderio ("<< La faccia tua, ch'io lagrimai già morta, / mi dà di pianger mo non minor doglia >>, / rispuos'io lui, << veggendola sì torta; / però mi di', per Dio, che sì vi sfoglia; / non mi far dir mentr'io mi maraviglio, / ché mal può dir chi è pien d'altra voglia >>"). Forese soddisfa la richiesta: gli spiega che per volontà divina nei pomi dell'albero e nell'acqua che lo bagna c'è una virtù che fa dimagrire sempre di più le anime; tutta quella gente si purifica del peccato della gola patendo la fame e la sete ("Tutta esta gente, che piangendo canta, / per seguitar la gola oltra misura, / in fame e 'n sete qui si rifà santa"); il profumo dei pomi e dell'acqua accende nelle anime la fame e mai queste trovano nella cornice la fine della loro pena, la quale è però una gioia perché li porta volontariamente alla purificazione tramite la sofferenza, così come Gesù volontariamente scelse di sacrificarsi per l'umanità. Forese, per citare il sacrificio di Gesù, ne ricorda l'invocazione "Elì", richiamando il momento in cui sulla croce chiese al Padre perché l'avesse abbandonato ("E non pur una volta, questo spazzo / girando, si rinfresca nostra pena: / io dico pena, e dovria dir sollazzo, / ché quella voglia a li alberi ci mena / che menò Cristo lieto a dire "Elì", / quando ne liberò con la sua vena"). 
Sentita la spiegazione di Forese circa la purificazione dei golosi, Dante manifesta un nuovo dubbio: l'amico si pentì solo in punto di morte dei suoi peccati, si sarebbe aspettato perciò di trovarlo nell'Antipurgatorio, dove tempo per tempo si ristora, cioè dove si trascorre del tempo per aver tardato troppo a pentirsi. Forese spiega di essere lì grazie alle preghiere della moglie Nella, che chiama << vedovella >> in modo affettuoso, e ne loda la virtù che tanto cara la rende a Dio. Partendo dalla figura di Nella, l'amico di Dante si lascia andare a una critica sul malcostume delle donne fiorentine: la zona montuosa della Sardegna, dove gli abitanti sono barbari, è meno barbara di quella che lasciò lui (Firenze) e, in un futuro non molto lontano, l'autorità vescovile sarà costretta a richiamare le donne contro la moda dell'epoca di mostrare troppo il petto; si chiede come sia possibile che alle donne serva una predica per non farle andar in giro nude; infine dichiara che già urlerebbero se sapessero a quali sciagure si stanno destinando, perché, prima che i loro pargoli inizino ad avere un accenno di barba, su di loro si abbatteranno delle sciagure (non si sa bene a quale evento storico Dante si riferisca). 
Terminato il suo discorso, Forese esorta Dante a rispondere alle domande che gli ha fatto prima, facendogli notare che ormai tutti guardano con stupore l'ombra che proietta al suolo ("Deh, frate, or fa che più non mi ti celi! / Vedi che non pur io, ma questa gente / tutta rimira là dove 'l sol veli"). A questo punto, Dante spiega che Virgilio e Stazio sono le due anime che lo guidano; il primo è colui che l'ha tirato via dal peccato pochi giorni prima e l'ha condotto per l'Inferno e per il Purgatorio, finché non lo lascerà alla cura di Beatrice; il secondo è colui per la cui redenzione ha tremato la montagna poco prima ("Di quella vita mi volse costui / che mi va 'nnanzi, l'altr'ier, quando tonda / vi si mostrò la suora di colui / ... Costui per la profonda / notte menato m'ha d'i veri morti / con questa vera carne che 'l seconda. / Indi m'han tratto sù li suoi conforti, / salendo e rigirando la montagna / che drizza voi che 'l mondo fece torti. / Tanto dice di farmi sua compagna / che io sarò là dove fia Beatrice; / quivi convien che sanza lui rimagna. / Virgilio è questi che così mi dice / ... e quest'altro è quell'ombra / per cui iscosse dianzi ogni pendice / lo vostro regno, che da sé lo sgombra"). 

Francesco Abate 

domenica 24 marzo 2019

COMMENTO AL CANTO XXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Già era l'angel dietro a noi rimaso,
l'angel che n'avea vòlti al sesto giro,
avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c'hanno a giustizia lor disiro
detti n'avea beati, e le sue voci
con << sitiunt >>, sanz'altro, ciò forniro.
Dante, Virgilio e Stazio stanno salendo verso la sesta cornice. Si sono lasciati alle spalle l'angelo, il quale con un colpo d'ala ha cancellato la P dalla fronte del poeta fiorentino e ha cantato la beatitudine di coloro che hanno sete di giustizia. L'autore ci specifica che la creatura divina, nel citare la beatitudine, omette la fame di giustizia. Il testo evangelico cita: "Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur" ("Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati"); Dante ci dice espressamente che l'angelo cita solo "sitiunt", cioè la sete, omettendo quindi la fame, la quale sarà protagonista della cornice superiore, che è la cornice dei golosi. 
Dante si sente più leggero rispetto alle risalite precedenti, tanto da non aver difficoltà a stare dietro a Virgilio e Stazio. D'un tratto il poeta mantovano si rivolge a Stazio, il quale nel canto precedente gli ha manifestato grandissima ammirazione e devozione: gli dice innanzitutto che l'amore nato dalla virtù tende sempre a manifestarsi, perché desideroso di comunicare il proprio bene; spiega poi di aver da sempre ammirato Stazio, conosciuto di fama grazie alla discesa nel Limbo di Giovenale, il quale fu un grande ammiratore della Tebaide; infine gli chiede, rivolgendosi come un amico e non come un conoscente, come possa l'avarizia aver attecchito nel cuore di un uomo tanto saggio e assennato ("... << Amore, / acceso di virtù, sempre altro accese, / pur che la fiamma sua paresse fore; / onde da l'ora che tra noi discese / nel limbo de lo 'nferno Giovenale, / che la tua affezion mi fé palese, / mia benevoglienza inverso te fu quale / più strinse mai di non vista persona, / sì ch'or mi parran corte queste scale. / Ma dimmi, e come amico mi perdona / se troppa sicurtà m'allarga il freno, / e come amico ormai meco ragiona: / come poté trovar dentro al tuo seno / loco avarizia, tra cotanto senno / di quanto per tua cura fosti pieno? >>").
Sentite le parole di Virgilio, Stazio prima si lascia andare a un sorriso, che subito spegne, poi risponde: manifesta innanzitutto la gioia di sentirsi ammirato dal suo idolo; poi ne giustifica l'errore, dicendo che spesso si può sbagliare quando le vere cause degli eventi non sono manifeste; infine spiega di non essere stato un avaro, in realtà nella quinta cornice ha scontato il peccato opposto, cioè la prodigalità. Stazio dice poi che si ravvide del suo peccato proprio grazie alla lettura dell'Eneide, vi è infatti un passo, dove Virgilio narra dell'uccisione di Polidoro per mano di Polinestore, in cui l'autore si scaglia disgustato contro la fame d'oro e i delitti a cui spinge. Dante legge e riporta in modo differente l'esclamazione virgiliana, trasformandola da semplice esclamazione d'orrore e monito contro avari e prodighi ("Perché non reggi tu, o sacra fame / de l'oro, l'appetito de' mortali?"). Scopriamo qui che Virgilio non fu per Stazio solo una stella polare della poesia, fu soprattutto un maestro di vita grazie al quale poté salvarsi dal peccato in cui si stava consumando. Spiega infine che i peccati opposti si purgano nella medesima cornice e mediante la stessa pena, per questo giaceva tra gli avari pur essendo colpevole di prodigalità; esclama inoltre che tanti prodighi non si pentono e restano ignari del proprio peccato, dannandosi per l'eternità (e il giorno del Giudizio risorgeranno coi crini scemi).
Sentita la spiegazione di Stazio, in Virgilio nasce un altro dubbio, che subito manifesta. Nella Tebaide, dove il poeta narra della guerra tra i due figli di Giocasta, la quale ebbe doppia trestizia perché li vide morire entrambi, il poeta mantovano non vede alcun segno di adesione alla fede cristiana, senza la quale non è sufficiente operare bene, perciò gli chiede quale evento divino o quale mutamento della sua volontà lo abbiano portato poi alla conversione. Stazio risponde che fu lo stesso Virgilio a guidarlo: come la persona che cammina nella notte col lume dietro e fa luce a chi lo segue, il poeta mantovano prima lo ha condotto alla poesia e poi, con la predizione della nascita di un fanciullo che avrebbe aperto la strada a un ritorno della giustizia, alla fede in Cristo. I versi a cui fa riferimento Stazio nell'Eneide probabilmente preannunciano la nascita di Salonino, figlio di Asinio Pollione, ma già Lattanzio e l'imperatore Costantino ne diedero un'interpretazione cristiana. Lo stesso sant'Agostino ammise come possibile un'ispirazione divina dietro alla composizione di questi versi. Attraverso le parole di Stazio perciò, Dante accoglie un'interpretazione in senso cristiano dei versi pagani di Virgilio. Dopo aver accennato al ruolo del maestro nella sua conversione, Stazio decide di arricchire la sua storia coi particolari ("ma perché veggi mei ciò ch'io disegno, / a colorare stenderò la mano"): già si stava diffondendo nel mondo il Cristianesimo e lui notò il nesso tra i versi sopra citati dell'Eneide e il Vangelo, così prese l'uso di unirsi ai cristiani e ascoltarne la predicazione; tanto gli parvero puri nei costumi i cristiani, che pianse quando Domiziano li perseguitò, e finì per convertirsi alla loro dottrina e farsi battezzare prima di terminare la Tebaide; per molti anni nascose la sua fede e si comportò da pagano, per questo ha scontato per più di quattrocento anni la sua pena nella cornice degli accidiosi. Terminata la spiegazione, Stazio chiede a Virgilio dove siano altri grandi poeti come Terenzio, Cecilio, Plauto e Varro. Il poeta mantovano spiega che questi, insieme a Omero ("quel greco che le Muse lattar più ch'altri mai"), sono nel Limbo e spesso ragionano della poesia ("del monte che sempre ha le nutrice nostre seco"). Virgilio poi si lascia andare a un breve elenco di poeti greci presenti nel Limbo (Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone) e di personaggi della mitologia greca (Antigone, Teti, ecc.).
I poeti giungono alla cornice e si guardano intorno in silenzio, già sono passate le prime quattro ore del giorno. Virgilio dice che conviene procedere verso destra così come hanno sempre fatto; così, dichiara l'autore, stavolta è l'abitudine la loro guida. Procedono i due poeti latini davanti, Dante li segue e in silenzio ascolta i loro discorsi, ricavandone utili insegnamenti ("Elli givan dinanzi, e io soletto / di retro, e ascoltava i lor sermoni, / ch'a poetar mi davano intelletto"). Il bel momento è interrotto dalla vista di un albero posto in mezzo alla strada, carico di pomi dall'aspetto invitante; come l'abete ha i rami sempre più radi man mano che si sale, così quest'albero li ha sempre più radi man mano che ci si avvicina alla base, probabilmente per evitare che qualcuno possa salirvi. Dal lato della parete rocciosa scorre una chiara fonte che ne bagna le foglie. Stazio e Virgilio si avvicinano alla pianta, da cui d'improvviso si alza una voce che urla: << Di questo cibo avrete caro >>. Siamo nella cornice dove sono puniti i golosi, i quali patiscono la fame e la sete con davanti agli occhi la vista di questi magnifici frutti bagnati dalle limpide acque di un ruscello. La voce ammonitrice inizia poi a elencare esempi di virtù contraria alla gola: Maria alle nozze di Cana chiese a Gesù di mutare l'acqua in vino non per soddisfare una propria voglia, ma solo preoccupata che le nozze di svolgessero senza turbamenti e privazioni; le donne dell'antica Roma, come affermò Valerio Massimo, si accontentavano di dissetarsi con acqua; il profeta Daniele, il quale ottenne la Dio la capacità di interpretare i sogni per essersi rifiutato di sedere alla mensa di Nabucodonosor; durante l'età dell'oro, la prima età del genere umano, la fame e la sete rendevano gradito ogni cibo; Giovanni Battista nel deserto si nutrì di locuste e mele, perciò fu tanto grande da essere esaltato da Gesù in persona.

Il canto XXII del Purgatorio si può giudicare come una celebrazione della poesia. A essere esaltato non è soltanto il valore estetico dei versi quali portatori di bellezza, ma anche la loro funzione di esaltazione dell'animo umano.
La figura di Dante si defila completamente, dominano i versi Stazio e Virgilio, l'autore è solo testimone del loro dialogo. Siamo al cospetto di due poeti pagani, non hanno avuto nulla a che fare col Cristianesimo (della conversione di Stazio leggiamo solo nella Divina Commedia, non sembra esserci un fondamento storico), hanno cantato leggende pagane riguardanti popoli pagani (Roma, Troia, l'antica Grecia). Le due figure servono come esaltazione della poesia al di là del suo valore estetico, infatti attraverso Stazio viene introdotta la chiave di lettura cristiana dei versi dell'Eneide di Virgilio. Inconsapevolmente, il poeta mantovano è stato mezzo dell'azione divina e ha salvato delle anime dalla dannazione; non lui, ma la poesia ch'era dentro di lui, è servita da tramite dell'azione divina: coi versi di Virgilio, Dio ha salvato l'anima di Stazio. Vediamo perciò una poesia che non serve solo a intrattenere, ma a dare delle direttive morali e a porre sulla retta via, diventa una guida verso la salvezza dell'anima. Quello che Dante fa con Stazio, cioè il recupero morale della poesia classica, divenne presupposto per molti letterati e filosofi medievali, fu quindi l'inizio di una rinascita della poesia classica e forse una delle ragioni per cui essa è sopravvissuta al mutamento dei costumi e delle credenze.
Per Pietro, figlio di Dante e commentatore della Commedia, Stazio rappresenta la filosofia morale, la quale si affianca alla ragione umana (Virgilio) per condurre il poeta fino a dove dovrà intervenire la teologia, Beatrice. Quindi la ragione umana può arrivare a comprendere l'universo fino a un certo punto, poi necessita dell'intervento della filosofia morale e infine, per la piena comprensione dei misteri divini, serve la teologia.

Francesco Abate  

giovedì 21 marzo 2019

IL LABIRINTO E LA SCRITTURA DEL DIO IN BORGES

Lo scrittore argentino Jorge Luis Borges è uno degli autori più importanti della letteratura mondiale. La sua grande capacità è quella di inserire dentro storie apparentemente semplici riflessioni filosofiche molto profonde. Lessi un paio d'anni fa una delle sue raccolte di racconti più famose, L'Aleph (https://culturaincircolo.blogspot.com/2016/07/letteratura-studio-dellaleph-di-borges.html), e a distanza di tanto tempo alcuni di quei brani ancora mi tornano in mente e mi chiedono di essere riletti per essere compresi a fondo.

Due sono i racconti che a distanza di tanto tempo hanno attirato su di sé la mia attenzione: Abenjacàn il Bojarì, ucciso nel suo labirinto e La scrittura del Dio.
I due racconti, sebbene inseriti consecutivamente nella raccolta, e sebbene trattino in un certo qual modo dell'universo intero partendo da una prigionia, sono tra loro molto differenti e per questo chiedono di essere analizzati singolarmente.

Abenjacàn il Bojarì è una storia ambientata in Inghilterra e narrata con le voci dei due protagonisti, Dunraven e Unwin, i quali non sono altro che due ragazzi impegnati in una passeggiata di piacere. Durante questa scampagnata, Dunraven racconta all'amico la storia di Abenjacàn, il quale uccise il suo visir e rubò un tesoro nel Sudan, poi fuggì in Inghilterra dove si nascose in un immenso labirinto color cremisi per fuggire l'ira del fantasma della sua vittima. Unwin, ascoltata l'intera storia, ci riflette e la ribalta completamente.
Questo racconto, il quale termina con la visione ribaltata della storia che abbiamo conosciuto da Dunraven, è in un certo senso l'immagine del ribaltamento di ogni cosa. Tale concetto è ribadito dall'introduzione della figura del Minotauro, il quale ci viene descritto dalla mitologia greca come mostro dal corpo umano e testa taurina, ma che probabilmente Dante Alighieri sapeva all'inverso, cioè con testa umana e corpo taurino (equivoco giustificato da alcune fonti che si limitavano a descrivere il mostro come "metà umano e metà taurino"). Tutto ruota intorno al labirinto, luogo simbolo dello smarrimento, dove è possibile sparire per sempre. Unwin nella sua visione diversa della realtà, nota come il labirinto costruito da Abenjacàn sia troppo vistoso, si vede fin dalla costa, e constata come non ci sia miglior labirinto della città e del mondo intero. Il nascondiglio per antonomasia diventa perciò luogo di palesamento, una freccia che indica il punto esatto dove trovare chi invece sostiene di volersi nascondere. Pur nella sua versione ribaltata, il labirinto resta però un luogo di mistero, dove tutto ciò che accade è impossibile da conoscere e per questo la realtà può uscirne alterata. Attraverso l'uso di questa costruzione, il protagonista può ribaltare completamente la realtà, trasformarsi da vittima a carnefice, da preda a predatore. Tutto però avviene laddove la realtà non è fissa e non è constatabile, quindi ogni sentenza resta una supposizione: tutto ciò che accade nel labirinto è oscuro, non perfettamente conoscibile, quindi delle realtà che ospita non ci sarà mai certezza. Alla fine, come detto prima, Unwin ribalta completamente la storia narrata da Dunraven e lui non obietta nulla, ma di fatto non possiamo sapere con certezza chi dei due abbia ragione. Possiamo ritenere più logica la riflessione di Unwin, ma non potremo mai dimostrare in modo incontrovertibile che egli abbia ragione. 
Il labirinto creato da Borges in questo racconto è perciò un luogo che si mostra e attira a sé, non nasconde la propria esistenza e il proprio contenuto, però dentro di sé ospita la mancanza di conoscenza e l'incertezza. La realtà può essere percepita in modo differente a seconda della logica che si vuole seguire per interpretarla, così come in un labirinto si sceglie una strada diversa e si giunge in una sala differente, e non abbiamo i mezzi per poter stabilire quale sia la via giusta e quale sia quella sbagliata: ognuno segue la propria in base alle proprie inclinazioni, arrivando al proprio traguardo che nessuno potrà dire sbagliato. Detto in questi termini, è chiaro che il labirinto di Borges è una metafora dell'intero universo, il quale è palese e visibile intorno a noi, eppure non ci permette di conoscerlo appieno, così ognuno di noi nel tentativo di comprenderlo sceglie la propria strada e giunge alle proprie conclusioni, le quali però non sapremo mai se davvero esatte.  

L'altro racconto che mi ha colpito è La scrittura del dio, il quale narra di Tzinacàn, sacerdote di Qaholom, tenuto chiuso in una prigione oscura. In questo stato di cattività e limitazione estrema, egli si abbandona alle riflessioni sul divino e sul messaggio che Qaholom ha lasciato scritto sul mantello del giaguaro. Non può evadere fisicamente dalla prigionia, lo fa quindi spiritualmente.
Il racconto è una lunga riflessione filosofico-teologica dove il protagonista giunge alla visione della totalità dell'universo e riesce a interpretare il messaggio del dio. In possesso di quelle parole, egli può diventare onnipotente, evadere dal carcere, uccidere il carceriere e regnare sulle terre di Montezuma. Nel momento in cui ha acquisito questa onnipotenza però, Tzinacàn non è più l'individuo Tzinacàn, bensì è un'impersonale parte dell'infinito, quindi non gli interessa niente né del carcere, né della vendetta, né del potere. 
Il messaggio che Borges lancia attraverso questo racconto è molto forte: la ricerca dell'Assoluto è sempre fine a sé stessa, è da stupidi dedicarvisi per ottenere un vantaggio. Nel momento in cui si viene a conoscenza delle verità profonde dell'universo, si cessa di essere l'individuo che si era, si dimenticano tutti i bisogni materiali che normalmente tormentano la nostra anima, e si diventa perfetti in quanto parte dell'Assoluto.

In questo post mi sono limitato ad analizzare i due racconti de L'Aleph che più di tutti mi avevano colpito. Rileggendoli, ho potuto apprezzare nuovamente la grandezza di Borges, infatti temi tanto complessi vengono trattati con grande semplicità, le storie inoltre sono scritte in un linguaggio raffinato che si fa leggere con piacere. 
Vi consiglio di dedicare qualche ora di lettura a questo scrittore, e a questo libro in particolare, vi sentirete come al cospetto di un saggio filosofo che, con semplicità e calma, attraverso storie e metafore, vi svelerà il linguaggio dell'universo.

Francesco Abate

domenica 10 marzo 2019

COMMENTO AL CANTO XXI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

La sete natural che mai non sazia
se non con l'acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia,
mi travagliava, e pungeami la fretta
per la 'mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta.
Il ventunesimo canto del Purgatorio si apre così come si è concluso il ventesimo, con Dante desideroso di saperne di più circa il terremoto che ha scosso la montagna ma impossibilitato dalla fretta e dalla strada accidentata a fare domande; la sua curiosità non è quella che si può saziare con la ragione umana, ma solo con l'intervento della grazia divina, quindi con l'acqua della vita che Gesù offrì alla donna samaritana in un celebre passo del Vangelo di Giovanni. Improvvisamente, così come nel Vangelo di Luca si narra che Gesù risorto apparì ai discepoli sulla via di Emmaus, un'anima che sta alle loro spalle e di cui loro non si sono accorti, troppo impegnati a guardarsi i piedi per non calpestare le anime, gli rivolge la parola ("Ed ecco, sì come ne scrive Luca / che Cristo apparve a' due ch'erano in via, / già surto fuor de la sepulcral buca, / ci apparve un'ombra, e dietro a noi venia, /dal piè guardando la turba che giace; / né ci addemmo di lei, sì parlò pria"). Per introdurre la nuova anima, Dante ne paragona l'apparizione a quella del Cristo risorto, continuando così lungo il filo conduttore del bisogno della grazia per la liberazione dai dubbi che lo attanagliano. L'anima saluta i due pellegrini che solo ora si accorgono di lei. Virgilio risponde al saluto augurandogli che Dio gli conceda la salita al Paradiso, poi si lascia andare a una triste considerazione e ricorda come a lui sia negata per l'eternità questa speranza ("... << Nel beato concilio / ti ponga in pace la verace corte, / che me rilega ne l'etterno essilio >>"). Sentendo le parole di Virgilio, l'anima si stupisce e si chiede come possano due non ammessi a godere della beatitudine eterna essere giunti fin lassù. Subito il poeta mantovano chiarisce l'equivoco indicando le P sulla fronte di Dante, le quali denotano che è degno di stare nel Purgatorio; spiega poi che il suo protetto è ancora vivo, non vede nel mondo dell'oltretomba tanto bene da poter procedere da solo e per questo lui è stato tratto dall'Inferno per accompagnarlo fin dove gli sarà concesso ("e mosterolli oltre quanto 'l potrà menar mia scola "). Per dire che il poeta fiorentino è ancora vivo, Virgilio si richiama al mito latino delle Parche: Lachesi sta ancora filando la quantità di lana che Cloto pone e avvolge sulla rocca ("Ma perché lei che dì e notte fila / non li avea tratta ancora la conocchia / che Cloto impone a ciascuno e compila"). Spiegato come stanno le cose all'anima, la guida le chiede la ragione del terremoto e dell'urlo che prima hanno spaventato Dante. Virgilio può leggere nella mente del suo protetto, quindi è consapevole della sua curiosità e approfitta del nuovo incontro per soddisfarla.
L'anima spiega che la montagna non è soggetta a nessun evento disordinato o non prestabilito da Dio, non ci sono eventi atmosferici o altre alterazioni tipiche delle montagne presenti nel mondo dei vivi; essa trema quando un'anima ha completato la propria purificazione e ascende all'Eden, e quando questo accade le anime lanciano un urlo. In pratica viene spiegato che, così come il paesaggio dell'Inferno serve ad accrescere la pena di chi in esso viene relegato, la montagna del Purgatorio partecipa alla gioia della redenzione di un'anima e viene assecondata da tutte le altre anime che ospita. L'anima spiega poi che l'unica prova che si ha quando si è liberi dal peccato è la propria volontà, la quale si rafforza lentamente durante l'espiazione grazie all'azione divina. Dichiara infine di essere rimasto in questa cornice cinquecento anni e di essere ora pronto per una miglior soglia, cioè il Paradiso, per questo c'è stato il terremoto e le anime hanno ringraziato il Signore. Il discorso del neo redento termina con un augurio, egli infatti auspica che Dio invii presto anche le altre anime del Purgatorio in Paradiso. 
Le parole appena udite soddisfano Dante come chi si beve dopo aver patito a lungo la sete. Virgilio, sentendo che il suo protetto è soddisfatto, chiede all'anima chi fu in vita e perché tanto tempo è stata a purificarsi nella quinta cornice. L'anima risponde che visse al tempo in cui l'imperatore Tito distrusse, con l'aiuto di Dio, la città di Gerusalemme e vendicò la crocifissione di Gesù; tanto furono apprezzati i suoi versi da essere portato da Tolosa a Roma, dove ricevette l'incoronazione poetica; si chiamò Stazio e scrisse di Tebe e di Achille (Tebaide e Achilleide), ma la seconda opera non riuscì a completarla a causa della morte. Una volta presentatosi, Stazio dichiara di essere stato ispirato dall'Eneide, che altri mille ha ispirato e fu per lui madre e nutrice, e senza quel poema non sarebbe riuscito a comporre niente ("Al mio ardor fuor seme le faville, / che mi scaldar, de la divina fiamma / onde sono allumati più di mille; / de l'Eneida dico, la qual mamma / fummi, e fummi nutrice, poetando: / senz'essa non fermai perso di dramma"). Tanta è l'ammirazione di Stazio che, dichiara, avrebbe accettato di passare un anno in più nel Purgatorio solo per aver potuto vivere quando visse Virgilio. Dante, resosi conto che Stazio non ha riconosciuto nella sua guida il suo idolo, si volge verso Virgilio il quale, solo con lo sguardo, gli impone di tacere. La situazione suscita però un sorriso ammiccante nel poeta fiorentino; Stazio se ne accorge e gli chiede conto di quest'atteggiamento. A questo punto il poeta è diviso tra la voglia di spiegare tutto, per evitare che l'anima si offenda, e quella di non disobbedire al maestro. Il poeta mantovano risolve la situazione esortandolo a spiegare tutto, così Dante spiega che gli veniva da ridere perché la sua guida è il Virgilio che tanto ha elogiato con le sue parole ("Questi che guida in alto li occhi mei, / è quel Virgilio dal qual tu togliesti / forza a cantar de li uomini e d'i dei"). Stazio, sentendo di essere di fronte al proprio idolo, s'inchina per abbracciargli i piedi, ma Virgilio stesso gli dice di non farlo, ricordandogli che sono entrambe delle ombre, quindi nessuno dei due deve inchinarsi all'altro. Il poeta latino gli dice che può adesso comprendere quanto lo ammiri, visto che al suo cospetto ha dimenticato la natura puramente spirituale di entrambi e si è comportato come fossero ancora vivi.

Per quanto riguarda il discorso riguardo la volontà delle anime, per comprenderlo pienamente bisogna ritornare un attimo a san Tommaso d'Aquino e alla sua Summa Theologiae. Per san Tommaso l'uomo ha una volontà assoluta e una relativa. Stazio quando parla della redenzione delle anime fa riferimento alla volontà relativa: questa, che in vita l'uomo rivolge al peccato, nel Purgatorio è rivolta da Dio all'espiazione e contrasta con la volontà assoluta, che invece vuole salire subito al cielo. Stando a quanto dice Stazio, l'anima capisce di poter ascendere all'Eden quando la sua volontà smette di farle volere l'espiazione, prevale perciò quella assoluta di salire al Cielo.

Francesco Abate  

sabato 2 marzo 2019

COMMENTO AL CANTO XX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Contra miglior voler voler mal pugna;
onda contra 'l piacer mio, per piacerli,
trassi de l'acqua non sazia la spugna.
Mossimi; e 'l duca mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a' merli;
ché la gente che fonde goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa,
da l'altra parte in fuor troppo s'approccia.
Il canto inizia con Dante che, pur non essendo ancora appagato dalle parole di Adriano V, rinuncia a chiedere oltre per non scontrarsi con la volontà di quest'ultimo che, come ricordiamo, gli ha chiaramente detto di non voler più parlare con lui. La volontà del poeta mal pugna contro quella del pontefice, cioè a essa deve cedere. Inizia di nuovo a camminare insieme a Virgilio e i due devono avvicinarsi molto alla costa del monte perché il fondo della cornice è completamente occupato dalle anime che piangono per i peccati commessi in vita, che sono gli stessi che si commettono in tutto il mondo ("ché la gente che fonde a goccia a goccia / per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa, / da l'altra parte in fuor troppo s'approccia").
Dopo aver descritto il cammino addossato alla parete dei due pellegrini, causato dalla marea di anime in penitenza, l'autore si lascia andare a un'invettiva contro l'antica lupa. Il tono dell'invettiva è violenta, l'autore se la prende contro la bestia che miete più vittime di tutte le altre (la lonza e il leone, ritrovati con la lupa nella selva oscura all'inizio del poema), la cui fame non ha mai fine. Se andiamo con la mente indietro al canto I dell'Inferno, ricordiamo che anche Virgilio ha detto della lupa che "dopo 'l pasto ha più fame che pria". Una delle caratteristiche principali dell'avidità è l'inarrestabilità, più si ottiene ciò che si brama e più si vuole dell'altro, è un circolo vizioso da cui non c'è modo di uscire solo con la ragione umana. L'invettiva diventa poi un'invocazione ai moti celesti, che all'epoca di Dante erano ritenuti causa delle vicende umane; il poeta chiede agli astri quando verrà colui che porrà fine all'esistenza della lupa, riferendosi sicuramente al famoso veltro che sempre nel canto I dell'Inferno abbiamo trovato ("O ciel, nel cui girar par che si creda / le condizion di qua giù trasmutarsi, / quando verrà per cui questa disceda?"). 
I poeti procedono lentamente e con cautela a causa della ristrettezza del passaggio. Sentono le anime lamentarsi e di colpo Dante ne sente una invocare la Vergine Maria e ricordarne la povertà che le impose di rifugiarsi con Giuseppe e il neonato Gesù in una grotta. Subito dopo invoca il nome del console Caio Fabrizio Luscinio ("O buon Fabrizio"), il quale rifiutò cospicue offerte di denaro fattegli sia per tradire Roma che per avvelenare Pirro, gran nemico dell'urbe. Piacevolmente colpito dalle parole udite, Dante si allontana un po' per vedere meglio colui che le pronuncia. L'anima parla stavolta di san Nicola, ricordando come salvò l'onore di tre fanciulle prossime al matrimonio donando loro di nascosto tre monete d'oro facenti parte di una grossa eredità ricevuta. I tre episodi citati sono tre esempi di comportamenti opposti all'avarizia: nel primo Maria accetta e vive con amore la povertà, nel secondo il console Luscinio salva la propria virtù non lasciandosi corrompere dal denaro, nel terzo san Nicola rinuncia alle proprie ricchezze per salvare la virtù del prossimo.
Colpito dalle parole udite, Dante chiede all'anima di dirgli chi fu in vita e perché solo lei cita gli episodi di virtù contrarie all'avarizia, poi la invoglia a rispondere promettendogli che lo ricorderà una volta tornato nel mondo dei vivi, offrendogli in pratica una ricompensa. L'anima dice che gli risponde non per ottenere preghiere tra i vivi, ma perché nel pellegrino che lo interroga ha scorto una grazia divina non comune in un uomo ancora vivo. Non è da escludere, a parer mio, che tale grazia si manifesti proprio attraverso la presenza di un vivente nell'oltretomba, è evidente per l'anima in questione di essere al cospetto di qualcuno che da Dio ha avuto un gran dono. Detto ciò, l'anima si presenta dicendo che fu il capostipite di una dinastia che infesta ora tutto il mondo cristiano, rendendo così raro che vi nascano buoni nobili e buoni politici ("Io fui radice de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia, / sì che buon frutto rado se ne schianta"). Cita poi le località in cui il suo discendente Filippo il Bello è stato sconfitto dai fiamminghi, auspicando che Dio lo vendichi. Si presenta come Ugo Capeto (Ugo Ciappetta), il capostipite della dinastia dei Capetingi, la quale regnò in Francia fino al 1328 col ramo principale, coi discendenti fino al 1848 (arrivata a quell'anno con il ramo dei Borboni). A questo punto il sovrano racconta la storia sua e dei suoi discendenti, costruita dall'autore attingendo alle varie leggende che circolavano: fu figlio di un mercante di buoi (beccaio); quando furono morti tutti i re di Francia, tranne l'ultimo dei Carolingi che lui stesso aveva fatto chiudere in monastero ("fuor ch'un renduto in panni bigi"), grazie al nuovo potere e alle nuove ricchezze acquisite fece consacrare a Reims sé stesso e suo figlio Roberto, avviando così la tradizioni delle consacrazioni in cattedrale dei sovrani Capetingi ("cominciar di costoro le sacrate ossa"); la sua discendenza non valeva molto, ma non faceva nemmeno così male, finché ottenuta in dote la Provenza iniziò a non provare più vergogna delle proprie azioni, iniziando con inganni e guerre le annessioni di altri feudi (cita il Ponthieu, la Guascogna e la Normandia). Ugo racconta poi che il suo discendente Carlo d'Angiò scese a Napoli, fece decapitare Corradino di Svevia e fece uccidere san Tommaso d'Aquino. Secondo il capostipite dei Capetingi, le azioni di Carlo furono compiute per ammenda, cioè per espiare i peccati compiuti, eppure possiamo vedere come ognuna non faccia altro che accrescere la vergogna del casato. A questo punto Ugo Capeto comincia a parlare del futuro: vede un tempo non molto lontano in cui un altro Carlo (Carlo di Valois) scenderà in Italia per ricordare la vergogna del proprio casato; non verrà armato, userà il tradimento ("la lancia con la qual giostrò Giuda") e riuscirà a colpire Firenze. L'episodio a cui Ugo fa riferimento è la nomina di Carlo di Valois come paciere di Firenze ad opera di Bonifacio VIII, a seguito del quale il sovrano francese otterrà pieni poteri sulla città e darà via libera al governo dei guelfi Neri, dando così inizio alla persecuzione dei Bianchi. Ugo Capeto continua a narrare delle colpe future della sua cittadinanza: Carlo di Valois non otterrà terra né ricchezze dal suo tradimento, solo maggior vergogna; suo figlio Carlo II sarà sconfitto nella battaglia navale di Napoli e fatto prigioniero, poi, una volta libero, venderà sua figlia in matrimonio per soldi così come fanno i corsari con le schiave. Citato l'episodio della vendita della figlia di Carlo II, l'antico sovrano constata come l'avarizia abbia schiavizzato a tal punto la sua stirpe da averne cancellato anche l'amore per i figli ("O avarizia, che puoi tu più farne, / poscia c'ha' 'l mio sangue a te sì tratto, / che non si cura della propria carne?"). Fatta questa breve digressione, torna a elencare i futuri misfatti della sua progenie, arrivando a predire la tentata cattura di papa Bonifacio VIII ordinata da Filippo il Bello per impedirgli di scomunicarlo; in questa vicenda egli paragona il pontefice maltrattato a Gesù Cristo e il sovrano a Ponzio Pilato. Il suo lungo discorso Ugo Capeto lo conclude chiedendo al Signore quando potrà vedere l'ira divina punire le colpe della sua gente ("O Segnor mio, quando sarò io lieto / a veder la vendetta che, nascosa, / fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?"). Questo desiderio del sovrano non va confuso con la legge del taglione dell'Antico Testamento, quello che Ugo Capeto vuole non è la vendetta divina, ma solo il concretizzarsi della giustizia con la punizione dei malvagi e il trionfo del bene sul male.
Terminato il lungo discorso sui peccati della sua stirpe, Ugo Capeto risponde alla seconda domanda di Dante, cioè gli dice perché stesse elencando quegli episodi che abbiamo visto sopra. Spiega che tutte le anime ripetono i buoni esempi dopo le preghiere durante l'intero giorno, poi di notte passano a elencare quelli di avarizia punita. Cita alcuni esempi: Pigmalione, il quale uccise lo zio e cognato Sicheo per impossessarsi del suo oro, tradendo la sorella Didone, che fu costretta a rifugiarsi in Africa; re Mida, il quale ebbe in dono da Bacco il potere di mutare in oro qualsiasi cosa toccasse, finendo però per morire di fame a causa dell'impossibilità di portare cibo alla bocca senza mutarlo in oro; Acàn, che disobbedì a Giosuè e tenne per sé alcune delle ricchezze che invece dovevano essere bruciate, venendo perciò punito con la lapidazione; Saffira e il marito, i quali vendettero i loro beni e tennero per sé il ricavato, fingendo però di averlo donato agli apostoli, e per punizione morirono; Eliodoro, ministro del re di Siria Seleuco IV, che tentò di rubare le ricchezze del Tempio di Gerusalemme e per questo fu calpestato da un cavallo venuto dal cielo e fustigato da due angeli; Polinestore che uccise Polidoro per rubarne il tesoro; il triumviro Crasso, al quale il re dei Parti, dopo averlo ucciso, fece colare in bocca dell'oro fuso per ricordarne la fame di ricchezze. A volte, spiega Ugo Capeto, alcune anime parlano più forte e altre più piano, secondo lo slancio del momento, ma gli esempi di virtù uditi prima da Dante non li stava citando solo lui, tutte le anime lo imitavano tenendo la voce più bassa, perciò si era udita solo la sua. 
I poeti tornano a mettersi in cammino, procedendo sempre con la lentezza imposta dal tragitto stretto, quando d'un tratto un terremoto scuote il monte e spaventa a morte il povero Dante ("quand'io senti', come cosa che cada, / tremar lo monte; onde mi prese un gelo / qual prender suol colui ch'a morte vada"). Il poeta immagina che non tremasse tanto l'isola di Delo sulle onde del mar Egeo prima che Latona la scegliesse per partorirvi Apollo e Diana (il dio del Sole e la dea della Luna, quindi "li due occhi del cielo"). Mentre il monte trema, le anime gridano << Gloria in excelsis Deo >>, che in italiano vuol dire "Gloria a Dio nell'alto dei cieli" ed è la prima parte del coro che gli angeli intonarono sulla grotta di Betlemme. Virgilio si avvicina a Dante e gli dice di seguirlo e di non aver paura. I due restano meravigliati e fermi come i pastori quando videro gli angeli finché il canto e il terremoto non cessano. A questo punto riprendono il cammino, osservando le anime tornate a piangere sui loro peccati distese al suolo. 
Il canto si conclude con l'autore che osserva come quello forse fu il momento della sua esistenza in cui ebbe maggior desiderio di capire e contemporaneamente maggior timore di chiedere; non riesce con la sola ragione a comprendere il fenomeno appena osservato, la fretta del cammino gli impedisce però di fermarsi a chiedere spiegazioni su quanto è successo. L'ultimo verso rende perfettamente lo stato d'animo del poeta: "così m'andava timido e pensoso".

Francesco Abate