sabato 29 dicembre 2018

VI PRESENTO LA MIA POESIA "NON MI FERMO"

Non mi fermo è la mia poesia pubblicata su Spillwords.com qualche mese fa, precisamente il 7 agosto 2018.
Si tratta di un componimento breve, semplice e dal significato molto immediato, parla infatti della volontà di continuare a inseguire i propri sogni e a vivere la propria vita nonostante si sia schiacciati dalle difficoltà e dalle restrizioni del mondo. "...perché ho un domani da rincorrere / e un futuro da raggiungere" recitano i versi finali, che già da soli rendono chiaro il concetto.

Se vi va, potete leggere Non mi fermo al link http://spillwords.com/non-mi-fermo/

Colgo l'occasione per invitarvi a passare su Spillwords.com il 31 dicembre, data di uscita della mia nuova poesia.

Ne approfitto inoltre per farvi gli auguri di un felice 2019 da trascorrere tra letture piacevoli e giornate memorabili.

Francesco Abate

domenica 16 dicembre 2018

COMMENTO AL CANTO XIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

<< Chi è costui che 'l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia? >>
<< Non so chi sia, ma so ch'e' non è solo;
domandal tu che più li t'avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco'lo. >>
Il canto si apre col dialogo tra due anime le quali, meravigliate dal prodigio di un vivo che tra loro cammina aprendo e chiudendo gli occhi a suo piacimento (non dimentichiamo che loro sono ciechi), si chiedono chi sia costui. Le due anime appartengono a Guido del Duca e Rinieri da Calboli e già da questo primo dialogo possiamo dedurne la differenza del carattere: il primo rivolge parole sdegnose, quasi indignate; il secondo invece, altrettanto curioso, invita il primo a indagare e gli raccomanda proprio di essere dolce, di smorzare la propria rudezza. Uno dei due si rivolge poi al poeta e gli chiede di dirgli, per carità, chi sia e da dove provenga. Dante per spiegare il suo luogo di provenienza fa riferimento al fiume che nasce sul monte Falterona e compie un percorso di oltre cento miglia prima di sfociare nel mare, omette poi di dire il proprio nome giustificandosi col fatto di non essere ancora famoso, quindi conoscere il suo nome non sarebbe loro di aiuto ("E io: << Per mezza Toscana si spazia / un fiumicel che nasce in Falterona, / e cento miglia di corso nol sazia. / Di sovr'esso rech'io questa persona: / dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, / ché 'l nome mio ancor molto non suona >>").
L'anima che ha interrogato Dante gli risponde che, se ha capito bene, lui parla dell'Arno; il compagno chiede perché il poeta abbia omesso il nome del fiume come si fa con qualcosa di cui ci si vergogna. L'altro, cioè Guido del Duca, dice di non saperlo, però afferma che è giusto che sparisca il nome di quel fiume, perché le genti che abitano i luoghi che vanno dal suo principio e per tutto il suo corso fuggono dalla virtù come le bisce, come se questa fosse loro nemica, e lo fanno o per una corruzione insita nel luogo o per la bassezza della loro morale. Il fiume nasce dove sono gli abitanti del Casentino, che Guido chiama "brutti porci", riferendosi al castello di Porciano e agganciandosi al riferimento fatto poco prima alla maga Circe ("ond' hanno sì mutata lor natura / li abitator de la misera valle, / che par che Circe li avesse in pastura"); trova poi gli Aretini, i quali minacciano più di quanto possano permettersi; scendendo arriva al cospetto di Firenze, dove gli abitanti sono ancora più avidi e sanguinari; nella parte inferiore, dove il fiume scorre tortuoso, trova i pisani la cui astuzia e malizia sono paragonabili a quelle delle volpi a caccia. Terminata questa invettiva contro le varie popolazioni della Toscana, Guido del Duca dice che Dante farebbe bene ad ascoltare ciò che vede nel futuro e che dirà nonostante Rinieri lo stia ascoltando. Il nipote dello stesso Rinieri, Fulcieri da Calboli, si dedicherà alla vendetta dei Guelfi Neri sui Bianchi e ne ucciderà tanti, privando sé stesso dell'onore e venendo ricompensato per le sue uccisioni. In effetti Fulcieri divenne podestà di Firenze nel 1303 e si dedicò con crudeltà e cinismo alla cattura e all'uccisione dei nemici politici; d'apprima fu ricompensato dai suoi alleati, poi fu condannato dal giudice Donato di Alberto Ristori e fu prima torturato, poi decapitato. Il giudizio di Dante, espresso per bocca di Guido del Duca, sull'operato di Fulcieri è durissimo: i danni fatti da lui renderanno impossibile una pacificazione per mille anni. Udendo questa profezia riguardante suo nipote, Rinieri si rattrista.
Sentite le parole e la profezia dell'anima che ha di fronte, Dante è preso dalla curiosità di scoprire chi siano quei due e li prega di dirglielo. La risposta arriva sempre da Guido, che prima gli fa notare che chiede di fare ciò che lui non ha fatto, poi però gli risponde, visto che Dio emana attraverso di lui tanta grazia da rendergli possibile un viaggio nell'aldilà da vivo. Nella risposta si vede ancora la fierezza del personaggio, che sottolinea un comportamento scorretto dell'interlocutore e non si rifiuta di rispondergli solo per amore della grazia divina. Si presenta come Guido del Duca, dice che tanta invidia aveva in corpo da provare astio per chiunque fosse lieto. Dichiara di raccogliere ciò che ha seminato, infine si chiede perché gli uomini si perdano dietro i beni che non possono essere divisi, cioè quelli materiali ("Fu il sangue mio d'invidia sì riarso, / che se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m'avresti di livore sparso. / Di mia semente cotal paglia mieto; / o gente umana, perché poni 'l core / là 'v' è mestier di consorte divieto?"). Presenta poi il suo compagno come Rinieri, pregio e onore della casa da Calboli, di cui nessuno degli eredi ha preso il valore.
Non è solo il sangue dei da Calboli a essere privo delle virtù che servono per la cavalleria e l'arte ("al vero e al trastullo"), ma entro i confini della Romagna tanto sono le serpi velenose che sarebbe impossibile estirparle tutte. Guido del Duca approfitta della presentazione del compagno per lanciarsi in un'invettiva contro la Romagna. Si chiede dove siano finite alcune personalità di alto profilo della politica romagnola: Lizio, signore di Valbona, ricordato da Boccaccio come uomo di buoni costumi, nonché alleato di Rinieri per la conquista di Forlì; Arrigo Mainardi, amico dello stesso Guido del Duca; Pier Traversaro, signore di Ravenna; Guido di Carpegna, podestà di Ravenna, il quale lottò contro Federico II. Inveisce poi contro i romagnoli, diventati bastardi, e riprende con l'elenco di altre personalità che ricorda con nostalgia: Fabbro dei Lambertazzi, capo dei ghibellini della Romagna e podestà di alcuni comuni tra cui Pisa e Modena; Bernardino di Fosco, il quale nacque di umili origini ("di picciola gramigna") e per virtù divenne podestà di prima di Pisa e poi di Siena. Dice poi a Dante di non meravigliarsi se lui rimpiange gente come Guido da Prata, Ugolino d'Azzo e Federico Tignoso, famiglie come Traversara e Anastagi (purtroppo senza eredi), e i costumi del tempo passato che ora sono scomparsi, perché la gente è diventata malvagia. Guido chiede poi alla città di Bretinoro perché non sparisca, facendo come le famiglie che sono andate via per non farsi corrompere dai costumi degenerati ("O Bretinoro, ché non fuggi via, / poi che gita se n'è la tua famiglia / e molta gente per non esser ria?"). Bene fa Bagnacavallo che non figlia (si riferisce in questo caso alla famiglia Malvicini; associa i comuni alle famiglie che li reggono), male fanno invece Castrocaro e Conio, che si ostinano a generare conti tanto corrotti. Bene fanno i Pagani, signori di Faenza, a non produrre altri eredi, anche se non potranno mai cancellare alcune macchie sull'onore. Ha fatto bene Ugolino dei Fantolini, che ha lasciato solo discendenti femmine e quindi non può più vedere disonorato il proprio nome. Guido interrompe di colpo l'invettiva e invita Dante ad andare via, infatti tutti quei ricordi gli hanno fatto venire voglia di piangere.
I poeti si incamminano, confidando che il silenzio delle anime sottintende la correttezza del loro cammino, infatti in caso di errore quelle anime caritatevoli di sicuro sarebbero intervenute. Rimasti soli, sentono riecheggiare nell'aria un grido: << Chiunque mi troverà, mi ucciderà >>. Le parole pronunciate dal grido fanno riferimento alla maledizione che cadde su Caino dopo che ebbe ucciso Abele, siamo quindi al cospetto di un esempio di invidia punita e, come gli esempi di virtù all'inizio, sono le voci che li palesano a Dante. Appena svanita la prima voce, ne arriva una seconda che dice: << Io sono Aglauro che divenni sasso >>. La seconda voce richiama l'episodio mitologico di Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, la quale ostacolò l'amore di sua sorella Erse per il dio Mercurio e da quest'ultimo fu mutata in sasso. Spaventato, il poeta si sposta a destra e si addossa a Virgilio, il quale gli spiega che queste voci sono il richiamo che dovrebbe tenere l'uomo entro i suoi limiti, ma gli umani cadono nelle trappole di Lucifero e si lasciano tirare verso di lui; l'universo mostra all'uomo le sue meraviglie e le rende conoscibili tramite l'intelletto, ma gli uomini si interessano solo delle cose temporali e per questo vengono puniti dall'onnisciente, da Dio ("ed el mi disse: << Quel fu 'l duro camo / che dovria l'uom tener dentro a sua meta. / Ma voi prendete l'esca, sì che l'amo / de l'antico avversaro a sé vi tira; / e però poco val freno o richiamo. / Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze etterne, / e l'occhio vostro pur a terra mira; / onde vi batte chi tutto discerne >>").

Della biografia dei due personaggi centrali del canto, Guido del Duca e Rinieri da Calboli, ho detto poco perché scarse sono le notizie biografiche certe sul loro conto. L'importanza storica dei personaggi tra l'altro non rende necessario un grande approfondimento in tal senso, semplicemente è importante sapere che furono due nobili romagnoli. Rinieri fu a più riprese impegnato nella conquista di Forlì, su Guido si sa davvero pochissimo e i critici spesso si sono smentiti tra loro. Come detto sopra, ci basti sapere che fu un nobile romagnolo e che Dante lo pone come rappresentante dell'amor di patria, infatti rimpiange i bei costumi della Romagna di un tempo e maledice la corruzione contemporanea.

Francesco Abate

venerdì 7 dicembre 2018

COMMENTO AL CANTO XIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Noi eravamo al sommo de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che, salendo, altrui dismala:
ivi così una cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che l'arco suo più tosto piega.
Dante e Virgilio sono arrivati alla sommità della scala, dove la montagna si restringe per la seconda volta e forma una cornice come quella da cui provengono, solo che questa è più corta. A differenza della prima cornice, non ci sono bassorilievi o immagini, la via e la parete hanno solo il colore della roccia. Virgilio si rende conto che, se volessero fermarsi ad attendere qualcuno a cui chiedere la strada da seguire per continuare la salita, perderebbero troppo tempo. La guida fissa il sole, poi si volge a destra e all'astro rivolge una preghiera, dicendo che in lui ripone la sua fiducia e chiedendogli di guidarlo. Il poeta mantovano indirettamente si rivolge a Dio, infatti il sole è l'astro che per volontà divina illumina il mondo, adesso gli chiede di illuminarlo circa la via da seguire. Quando già i due pellegrini hanno percorso un miglio, coperto in poco tempo per la voglia di proseguire che li anima, sentono volare verso di loro degli spiriti, che però non vedono, le cui voci li invitano a partecipare alla mensa della carità ("e verso noi volar furon sentiti, / non però visti, spiriti parlando / a la mensa d'amor cortesi inviti"). La prima voce dice "Vinum non habent", riferendosi al miracolo delle nozze di Cana, il primo compiuto da Gesù: la frase fu pronunciata da Maria (in latino significa "Non hanno vino") e servì a chiedere e ottenere il prodigio della trasformazione dell'acqua in vino. Ancora non è svanita questa prima voce che ne arriva una seconda, la quale urla "I' sono Oreste", riferendosi all'episodio di Pilade che si presentò come Oreste (figlio di Agamennone) per morire al posto dell'amico. Dante chiede a Virgilio cosa siano queste voci, intanto ne ode una terza che esprime il comandamento supremo di Gesù, amare anche i propri nemici. Virgilio spiega al suo discepolo che in questa cornice sono puniti i peccati di invidia, i peccatori sono sferzati con voci che rammentano esempi di umiltà (la Vergine che affida a suo figlio la risoluzione di un problema, l'amico che si sacrifica e il comandamento dell'amore), e suppone che prima di abbandonare quel posto si udiranno voci che narrano il contrario, cioè esempi di invidia punita. Avviene in questa cornice ciò che è avvenuto nella prima, all'ingresso sono evidenziati esempi della virtù contraria al peccato punito e all'uscita invece i mali causati dal peccato stesso, solo che qui sono le voci a raccontarli e non le immagini a mostrarli. 
Virgilio esorta Dante ad aguzzare la vista, così da vedere le anime sedute lungo la parete. Il poeta ubbidisce e scorge le anime vestite di mantelli dello stesso colore della pietra. Essi gridano a Maria e ai santi di pregare per loro. Vedendoli meglio, l'autore dice di non credere che esista sulla Terra un uomo tanto insensibile da riuscire a non commuoversi davanti a quello spettacolo ("Non credo che per terra vada ancoi / omo sì duro, che non fosse punto / per compassion di quel ch'i' vidi poi"). Avvicinatosi alle anime, non appena riesce a vederne meglio la condizione, non può trattenere le lacrime. Sono vestiti di cilicio, un panno fatto di setole che è freddo e punge il corpo di chi lo indossa, ciascuno regge l'altro con la spalla e tutti sono poggiati alla roccia della montagna. Stanno come i ciechi che chiedono l'elemosina davanti alle chiese, che cercano di sollevare il capo al di sopra degli altri così da suscitare la carità di chi li guarda ("Così li ciechi, a cui la roba falla, / stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, / e l'uno il capo sovra l'altro avvalla, / perché 'n altrui pietà tosto si pogna, / non pur per lo sonar de le parole, / ma per la vista che non meno agogna"). Come ai ciechi non dà alcun beneficio la luce del sole, così alle anime è negata la luce della grazia divina; a tutti sono cucite le palpebre con del fil di ferro per tenergli gli occhi chiusi, così come si faceva con gli sparvieri per addomesticarli. A Dante sembra di oltraggiare quelle anime perché può vederle senza essere visto, si volta verso Virgilio per chiedergli consiglio ma questi, senza neanche attendere la domanda, lo esorta a parlare e ad essere breve e chiaro (l'autore usa arguto, parola che deriva dal latino arguere, << mettere in chiaro >>). 
Virgilio sta accanto a Dante, sul lato dove la cornice non ha bordo, dall'altro lato stanno le anime degli invidiosi. Il poeta si rivolge a loro, che sono sicuri di arrivare a vedere la grazia divina, gli augura di avere presto la remissione dei loro peccati così che ogni macchia della loro esistenza sia cancellata, infine gli chiede se tra loro vi sia qualche cittadino italiano, dicendo che forse a questo tornerà vantaggioso essere riconosciuto al fine di ottenere un suffragio che ne abbrevi la pena ("... << O gente sicura >>, / incominciai, << di veder l'alto lume, / che 'l disio vostro solo ha in sua cura, / se tosto grazia resolva le schiume / di vostra coscienza, sì che chiaro / per essa scenda de la mente il fiume, / ditemi, ché mi fia grazioso e caro, / s'anima è qui tra voi che sia latina; / e forse lei sarà buon s'io l'apparo >>"). Una voce proveniente da poco lontano gli fa notare che lì sono tutti cittadini della vera città, la città celeste, e lo corregge dicendogli che lui vuole sapere se c'è qualcuno che abbia vissuto in Italia. Il poeta avanza e scorge un'anima con il mento levato all'insù come un cieco in cerca di spiegazioni. Si rivolge a questa e gli chiede, qualora sia lei l'autrice della risposta, di dirgli chi sia e da dove provenga. L'anima racconta che fu senese e si chiamava Sapìa, fu ben più lieta delle disgrazie dei suoi parenti che delle proprie fortune ("Savia non fui, avvegna che Sapìa / fossi chiamata, e fui de li altrui danni / più lieta assai che di ventura mia"). Perché Dante non creda che lei menta, racconta di aver pregato Dio per la disfatta di suo nipote e dei suoi parenti presso Colle di Valdelsa il giorno stesso della battaglia (19 giugno 1269), di aver assistito con letizia alla loro fuga e alla loro uccisione finché, colma di gioia e appagata dalla grazia ottenuta, aveva alzato il volto al cielo gridando di non temere Iddio, dato che la gioia di quel momento le aveva tolto addirittura la paura della morte. In punto di morte si era pentita, ma sarebbe ancora nell'Antipurgatorio se non fossero giunte al cielo le preghiere di Pier Pettinaio. Tanto astio di Sapìa per il nipote fu dovuto all'opposizione di questi all'elezione di suo marito a podestà di Colle di Valdelsa. Il marito di Sapìa era guelfo e il nipote, ghibellino, fece ottenere la carica a suo fratello.
Finito il suo racconto, Sapìa chiede chi sia quell'uomo che chiede di loro, che al contrario di loro ha gli occhi spalancati ed è vivo. Dante risponde che gli occhi gli saranno un giorno chiusi in quel cerchio, ma per poco tempo, dato che ritiene di essersi macchiato poco del peccato di invidia, mentre ritiene che sarà punito ben più severamente nel cerchio inferiore per il peccato di superbia. Sapìa gli chiede allora chi l'abbia condotto lì se è certo di tornare nel cerchio dei superbi. Il poeta spiega che l'ha condotto lì Virgilio e conferma di essere ancora in vita, le chiede poi dove ella vuole che lui si rechi, una volta tornato tra i vivi, per richiedere preghiere in suo suffragio. L'anima constata quanto sia insolito ciò che sta accadendo e vede nel prodigio il segno di un grande amore di Dio per il poeta, poi lo esorta a spronare la gente a pregare per lei e, qualora dovesse passare per la Toscana, di far sapere ai suoi parenti che adesso è in un luogo di salvezza. Gli dice che li troverà tra la gente vana, cioè a Siena, dove sperano nel porto di Talamone come si spera di trovare acqua nel sottosuolo, ma finiranno solo per perdere tante vite. Il riferimento finale è all'ambizione senese di diventare una potenza marittima come Genova e Amalfi; Siena aveva acquistato dai monaci un borgo dove avevano iniziato a costruire il porto, e tutti ambivano a diventare ammiragli della futura flotta, ma la zona era paludosa e numerosi furono i morti di malaria.

Francesco Abate  

domenica 2 dicembre 2018

RECENSIONE DE "IL PENDOLO DI FOUCAULT" DI UMBERTO ECO

Il pendolo di Foucault è un romanzo di Umberto Eco pubblicato nel 1988, il più importante dopo Il nome della rosa
Ambientato nel Piemonte di fine anni Ottanta, narra una vicenda che si sviluppa dalle Crociate e passa attraverso i secoli e gli eventi più significativi della storia dell'umanità. Nel libro c'è di tutto, dalla filosofia al misticismo, dalla storia ai complotti per il dominio del mondo, dalla Cabala ebraica agli Assassini musulmani.

Il romanzo parla del giovane Casaubon, il quale incontra casualmente in una delle tante manifestazioni degli anni Settanta Jacopo Belbo, dipendente di una piccola casa editrice. L'incontro fortuito ha seguito perché Casaubon è impegnato in una tesi di laurea sui Cavalieri Templari, mentre Belbo ha appuntamento con un certo Ardenti, il quale vuole sottoporre alla sua attenzione un manoscritto che proprio dell'ordine templare parla. L'incontro non produce niente di interessante, quella di Ardenti è infatti una storia farneticante inerente un misterioso tesoro dei Templari, qualcosa di moda allora come oggi, ma da quel momento inizia un rapporto di amicizia tra Casaubon e Belbo che porta il primo a lavorare per la Garamond. Quando la casa editrice decide di aprire una sezione dedicata all'occultismo, Belbo, Casaubon e Diotallevi iniziano a maneggiare numerosi scritti inerenti l'esoterismo e misteri verosimili. I tre decidono di inventarsi un Piano tutto loro, cioè un complotto che ha attraversato i secoli e ha influenzato il più possibile la storia umana, con una rete di società segrete interessata a conoscere un segreto capace di consegnare la Terra nelle proprie mani. Il Piano che elaborano è sgangherato, ma finisce dapprima per coinvolgerli troppo, infine li mette in guai seri.

Il pendolo di Foucault è un romanzo che nasce per analizzare e criticare l'esoterismo e in generale un misticismo da due soldi che divenne di moda negli anni Ottanta e ogni tanto torna a riemergere, ci basti pensare, volendo valutare la situazione ai giorni nostri, ai tanti che credono nella Cabala o in fantomatici misteri delle logge massoniche. Questi segreti, capisce alla fine Casaubon, servono semplicemente a creare all'uomo degli alibi, a giustificarne i fallimenti. Chi fallisce, immaginandosi di aver fallito per via di un complotto cosmico, si sente meno in colpa con sé stesso. Questo bisogno di un segreto porta alla creazione di analogie forzate, spesso senza senso, e a una visione sballata dei fatti, così tutto appare verosimile e si finisce per crearsi una verità su misura. 
Il protagonista alla fine realizza che il vero Segreto è l'assenza di un Segreto, l'universo è ciò che vediamo e che percepiamo, va bene sforzarsi di comprenderlo e non fermarsi alle apparenze, ma non ha senso capovolgere tutto nel tentativo di cercare quello che non c'è. 
Questo contrasto tra "quel che è" e "quel che crediamo sia" diventa evidente associando il titolo del romanzo al suo contenuto. Il titolo richiama al celebre esperimento dello scienziato francese Jean Bernard Léon Foucault, il quale appese un gigantesco pendolo alla cupola del Pantheon e dimostrò la rotazione terrestre, ma parla poi di esoterismo. Il Pendolo stesso, emblema della scienza, diventa il centro del complotto anti-scientifico, di un rito magico finalizzato alla conquista delle forze segrete della Terra. Questo accostamento dimostra come perfino la scienza, la quale dimostra delle verità inconfutabili, possa essere stravolta per far passare messaggi privi di ogni fondamento. I giochi di analogie inventate trasformano le scoperte scientifiche in verità esoteriche, così fanno anche i protagonisti nel loro Piano inventato per gioco.

Nel corso dello svolgimento del romanzo si incontrano e analizzano, con processi mentali più o meno fantasiosi, diversi gruppi massonici e diverse credenze esoteriche. Un ruolo di primo piano è dato da Eco alla Cabala, cioè la dottrina mistica ed esoterica ebraica circa Dio e l'universo, di cui è sin dall'inizio credente uno dei protagonisti, Diotallevi. Ispirata alla Cabala è anche la struttura del romanzo, esso è infatti diviso in dieci parti, ognuna delle quali porta il titolo di una Sefirot, cioè di una delle emanazioni di Dio attraverso cui è avvenuta la creazione secondo la Cabala; i titoli sono inoltre sistemati secondo l'ordine seguito dall'Albero delle Sefirot, diagramma che è alla base di ogni riflessione cabalistica e che pone all'apice Keter e alla base Malkuth. Per la Cabala le Sefirot sono fondamentali perché non rappresentano solo le emanazioni divine, ma anche gli stati d'animo dell'uomo, le particolari vicende della sua vita e in un certo senso tutto l'universo in cui vive, mentre l'Albero ci fa capire come si possa giungere alla piena unità con Dio.

I protagonisti principali della vicenda sono tre: Casaubon, Jacopo Belbo e Diotallevi. 
Casaubon, l'io narrante della storia, affronta inizialmente le teorie occultistiche con scetticismo e con un approccio scientifico. Man mano che si avventura nel mondo dell'esoterico, eccitato da alcune coincidenze, inizia però ad avere dei dubbi e a credere che qualcosa di vero possa esserci, finendo per non essere più capace di distinguere il reale dall'immaginario. Solo alla fine, di fronte all'evidenza della confusione del gruppo massonico che gli dà la caccia, ha un'illuminazione e capisce la verità.
Jacopo Belbo è anch'egli scettico verso le teorie con cui è chiamato a confrontarsi per via del suo lavoro. Per lui però il Piano è un'occasione di riscatto, non ci crede ma ha bisogno di farlo, ridarebbe infatti un senso alla sua esistenza e ne cancellerebbe la mediocrità che pesa su di lui come un macigno. Nonostante non nutra nel Piano una fede cieca, finisce per viverlo e usarlo come mezzo di riscatto, venendo però travolto dagli eventi.
Diotallevi è di per sé un personaggio più mistico, profondo conoscitore della Torah (il Pentateuco, l'insieme dei primi cinque libri della Bibbia) e della Cabala. Vive il Piano in modo più religioso, per lui è un gioco ma, quando per coincidenza un dramma si abbatte su di lui, subito si convince che saranno tutti e tre puniti per aver giocato con qualcosa di sacro.

Il pendolo di Foucault è un romanzo molto ricco di contenuti. Scritto nel linguaggio piuttosto aulico di Eco, ricco di richiami non sempre facilmente comprensibili alla storia, alla filosofia e alla religione, non è certo un libro di facile lettura. Soprattutto nella prima parte, quando lo scrittore si dilunga nei primi incontri dei protagonisti coi Templari e i Rosa-Croce, con lunghe narrazioni delle teorie fantastiche circolate nei secoli su questi gruppi, spesso si è scoraggiati al proseguimento della lettura perché nasce la sensazione che in fondo nelle pagine a seguire non accadrà nulla. Fortunatamente, andando avanti con un po' di pazienza, la storia inizia a prendere un andamento più appassionante e a quel punto diventa difficile abbandonare la lettura. Questo è il brutto e il bello di Eco, dice tante cose ma non lo fa in modo semplice.
Molto interessante è la scelta di mostrarci per esteso i meccanismi attraverso cui i protagonisti elaborano il Piano. Eco ci dimostra come è facile trovare analogie tra fatti completamente estranei tra loro, magari anche distanti di secoli, quando si è deciso di volerne trovare una; ci fa vedere come è facile stravolgere la lettura della storia e delle teorie scientifiche. L'autore ci dimostra come nascono tutti questi gruppi e questi portatori di pseudo-verità che ogni anno vengono a dirci che il mercurio si può trasformare in oro o scempiaggini simili. Per questo, trattando di teorie che spesso rifioriscono, che in questi stessi anni stanno ritrovando vigore, il romanzo dev'essere assolutamente letto e compreso. 

Parlando di teorie esoteriche e Templari, non si può non pensare a Dan Brown. Negli anni più volte è stato fatto un accostamento tra Il codice Da Vinci dello scrittore americano e Il pendolo di Foucault di Eco. Su questo paragone io non posso esprimermi, non avendo letto il romanzo di Dan Brown (ho visto solo il film che ho trovato carino), ma su sollecitazione della critica rispose lo stesso Eco, intervistato da Deborah Solomon per La Repubblica in un articolo del 25 novembre 2007, e disse: "Sono stato costretto a leggerlo, perché tutti mi facevano domande in proposito. Le rispondo che Dan Brown è uno dei personaggi del mio romanzo Il pendolo di Foucault, in cui si parla di gente che inizia a credere nel ciarpame occultista". Lo scrittore poi, rispondendo ancora alla Solomon, ribadì: "... nel pendolo di Foucault ho rappresentato quel tipo di persone (quelle che si interessano di cabala, occultismo e simili - nda) in maniera grottesca. Ecco perché Dan Brown è una delle mie creature". Credo siano parole che non necessitino di alcun commento.

Il pendolo di Foucault non è un romanzo di semplice lettura, non è uno di quei libri che puoi leggere mentre ascolti la musica e qualcuno ti chiama continuamente e ti interrompe. Eco ci propone un testo che è come i distillati ben invecchiati, che non vanno tracannati e che, assaggiati da un ragazzino in cerca solo della sbornia, non hanno successo. Se avrete la pazienza di assaporare questo libro anche nelle sue parti più dure, di affrontare argomenti vari e non sempre di facile comprensione, di veder stravolgere tutto il sapere umano per gioco e con una logica discutibile, vi ritroverete con la mente più ricca e l'appagante sensazione di aver speso bene il vostro tempo. Come il distillato ben invecchiato, non sempre ha un buon impatto sulla lingua, ma lascia la bocca buona e il cuore felice.

Francesco Abate