domenica 29 dicembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

<<O sodalizio eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
sì, che la vostra voglia è sempre piena,
se per grazia di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
prima che morte tempo li prescriba,
ponete mente a l'affezione immensa,
e roratelo alquanto; voi bevete
sempre del fonte onde vien quel ch'ei pensa.>>
Il canto XXIV si apre con le parole di Beatrice rivolte agli apostoli: si rivolge a loro come agli invitati da Gesù (benedetto Agnello) al banchetto di sapienza (la gran cena - può essere anche un riferimento all'ultima cena) che nutre in modo tale da lasciare sempre intatta la voglia di averne ancora; gli chiede di rendere Dante partecipe del loro sapere, visto che per grazia di Dio può gustare gli avanzi di quel banchetto prima di essere morto; chiude la sua invocazione motivando la richiesta col fatto che essi bevono dall'eterna fonte a cui il poeta ha indirizzato ogni brama, cioè godono della sapienza che lui stesso ricerca. Gli apostoli mostrano il loro consenso diventando sfere che ruotano intorno a un asse fisso (spere sopra fissi poli) e aumentando l'intensità della propria luce, come fanno le comete. Le anime (che il poeta chiama carole, danza eseguita da più persone tenendosi per mano e ballando in cerchio) ruotano ognuna a una velocità differente, in base al maggiore o minor merito in vita, e ricordano a Dante il congegno ben ordinato degli orologi (orioli), in cui le ruote dentate girano a differenti velocità, tanto da far sì che la prima sembri ferma mentre l'ultima giri velocissima; queste differenze di velocità e luminosità fanno capire al poeta i loro diversi gradi di beatitudine ("E come cerchi in tempra d'orioli / si giran sì, che 'l primo a chi pon mente / quieto pare, e l'ultimo che voli; / così queste carole, differente- / mente danzando, de la sua ricchezza / mi facieno stimar, veloci e lente"). Tra i cerchi luminosi che girano, esce quello che deve appartenere all'anima più beata, perché tra gli altri che restano nella danza non ce n'è nessuno altrettanto luminoso; tre volte gira intorno a Beatrice e canta una melodia così divina da non essere descrivibile con la fantasia di Dante. L'autore spiega che non lo descrive perché la fantasia umana, così come le parole, non può risaltare in modo sufficiente la bellezza di quel canto; per spiegarlo fa riferimento alla tecnica pittorica del chiaroscuro: i pittori usano la tecnica del chiaroscuro per dare delicatezza alla piega dei vestiti e valorizzarla, quindi dietro le pieghe usano un colore di un tono più scuro per valorizzare la superficie più viva, ma la fantasia umana è un colore troppo chiaro per risaltare l'immagine col dovuto chiaroscuro ("Però salta la penna e non lo scrivo; / ché l'imagine nostra a cotai pieghe, / non che 'l parlare, è troppo color vivo"). 
L'apostolo più beato di tutti, che è san Pietro, si rivolge a Beatrice chiamandola sorella santa (santa suora mia) e le dice che la sua preghiera, così carica di carità, lo ha spinto a lasciare la corona di anime danzanti. Lei gli risponde chiamandolo luce eterna del grande uomo che ricevette da Gesù le chiavi del Paradiso, che Cristo stesso portò giù dal cielo, e gli chiede di testare le conoscenze di Dante circa la fede, grazie alla quale camminò sulle acque del mare di Galilea (episodio tratto dal Vangelo secondo Matteo), interrogandolo su argomenti facili e difficili, come meglio crede. La donna sa, e lo dice, che san Pietro vede tutto guardando in Dio e sa che Dante è in possesso delle virtù teologali (fede, speranza e carità), ma siccome nel regno di Dio sono fatti cittadini coloro che posseggono vera fede, è giusto che il poeta ci arrivi parlandone e glorificandola. Le parole di Beatrice ci spiegano che l'interrogazione di san Pietro a Dante non è un semplice riassunto delle conoscenze, ma ha lo scopo di introdurre la parte finale del poema, quindi la visione della Trinità, con una ferma professione di fede dal valore di trionfale introduzione.
Dante, sentendo le parole di Beatrice, fa come il baccelliere (il baccello era il primo grado accademico delle scuole teologiche, inferiore a quello di maestro e a quello di dottore) che tace fino a che il maestro non gli propone una questione, perché la sostenga con le tesi a favore, non perché la porti a compimento; egli richiama alla memoria la dottrina teologica così da essere pronto alle richieste di san Pietro.
La prima domanda di san Pietro, molto concisa, è cosa sia la fede. Dante guarda prima la luce da cui è provenuta la voce, poi si volta verso Beatrice la quale, senza parlare, lo esorta a spandere l'acqua fuori dalla sua fonte interna, quindi a manifestare le sue conoscenze. Non è casuale che il poeta prima di rispondere volga lo sguardo a Beatrice, essa infatti è normalmente per lui fonte di conforto, ma non dobbiamo dimenticare che rappresenta anche la teologia, quindi è da lei che deve infondersi in lui la conoscenza della risposta. Dante invoca Dio (la Grazia) affinché gli permetta di esprimere bene i suoi concetti a san Pietro, che lui definisce primopilo (il centurione più alto in grado nella legione romana). Dopo l'invocazione, il poeta risponde: come scrisse san Paolo, che mise Roma sulla retta via, la fede è il fondamento di ciò che speriamo di conseguire nella vita eterna ("è sustanza di cose separate") ed è la prova delle cose che la mente non vede ("argomento de le non parventi"); questa a lui sembra la sua essenza (sua quiditate).
San Pietro dice a Dante che la definizione è giusta, ma deve chiarire perché san Paolo pose la fede tra i fondamenti e le prove. Il poeta risponde: i misteri di Dio, che lui vede lì nel Paradiso, non sono visibili a chi è in vita, perciò chi vive in esso può soltanto avere fede e su questo si fonda la speranza, perciò la fede ne è fondamento; dalla fede poi conviene ragionare e pervenire alla certezza come si fa coi sillogismi, senza avere altre prove, per questo essa è prova.
San Pietro a questo punto dice che sulla Terra non esisterebbero discussioni e ricerca di cavilli se la dottrina teologica fosse da tutti compresa come l'ha compresa lui, poi aggiunge che ha valutato bene il peso e la lega della moneta (la fede) e gli chiede se la possiede. Subito Dante risponde di sì, ce l'ha bella lucida e integra perché su di essa non ha mai avuto dubbi ("Ond' io: <<Sì, ho, sì lucida e sì tonda, / che nel suo conio nulla mi s'inforsa>>").
Il santo ancora gli domanda come venne a lui la fede, la preziosa gemma su cui si fonda ogni virtù. Dante risponde che la grazia dello Spirito Santo, diffusa sugli scritti del Vecchio e del Nuovo Testamento (in su le vecchie e in su le nuove cuoia), è tanto persuasiva da fargli sembrare insufficiente ogni altro argomento di dimostrazione.
A questo punto l'apostolo gli chiede come possa essere sicuro che le Scritture contengano davvero la parola di Dio. Dante gli risponde che l'avverarsi delle profezie e i miracoli, di cui si narra nella Bibbia, sono una prova sufficiente, perché a loro confronto la natura pare un semplice fabbro, cioè un lavoratore dotato di mezzi limitati. San Pietro gli chiede a questo punto come possa essere sicuro che i miracoli narrati nella Bibbia siano davvero accaduti, infatti a testimoniarlo ci sono solo i libri sacri, la cui ispirazione divina il poeta non ha ancora dimostrato. Il poeta risponde che la proliferazione del Cristianesimo nel mondo in assenza di miracoli è già di per sé un miracolo cento volte più grande di quelli narrati dalla Bibbia; lo è il fatto che lo stesso san Pietro, povero e digiuno, andò a seminare la pianta che divenne poi la vigna del Signore, e che oggi a causa della corruzione del papato è diventata sterile e spinosa (pruno). Terminata la risposta del poeta, le varie corone dei beati intonano un Te Deum nella melodia che si canta in Paradiso.
San Pietro, il maestro che ha condotto l'allievo di ramo in ramo, tanto che ora è vicino alle ultime fronde (si avvicina la fine dell'interrogazione), gli dice che la Grazia, la quale domina la sua mente, l'ha fatto rispondere bene e lui approva ciò che ha detto, infine gli chiede di manifestare quello in cui ha fede e dire da dove questa gli derivi. Dante gli si rivolge come santo padre, ricordando come lui credette senza esitazione alla Resurrezione di Gesù e per questo entrò nel sepolcro prima di san Giovanni, che invece esitò e ne rimase fuori, e gli risponde circa la sostanza della sua fede e il motivo della stessa ("tu vuo' ch'io manifesti la forma qui del pronto creder mio, e anche la cagion di lui chiedesti. E io rispondo"): lui crede in un Dio unico ed eterno, che non è mosso, ma muove tutto il cielo con l'amore e il desiderio; circa l'esistenza di Dio lui non ha solo prove fisiche e metafisiche (descritte da san Tommaso nelle famose "cinque vie"), ma anche quelle date dalle Scritture attraverso Mosè, le parole dei profeti e dei salmi, il Vangelo e gli atti di loro apostoli che furono spinti a scrivere dallo Spirito Santo; crede nelle tre Persone eterne, le quali sono contemporaneamente unica e triplice essenza di Dio, tanto che per parlare di loro è possibile usare il verbo sia al singolare che al plurale; questa verità circa la Trinità di Dio non è comprensibile con la ragione, ma lui ne è certo grazie alla dottrina evangelica; questo è il principio, la favilla da cui scaturisce la fiamma della fede che in lui scintilla come una stella in cielo (la fede in Dio e nella sua Trinità e alla base di tutta la dottrina ed è per lui una guida).
San Pietro, come il padrone che ascolta il servo dargli una buona notizia e lo abbraccia quando questi tace, benedice Dante cantando e lo abbraccia tre volte non appena ha finito di parlare. Il canto termina con una constatazione del poeta: san Pietro, il migliore tra gli apostoli, canta e lo abbraccia tanto è rimasto contento delle sue parole. Questa conclusione non va interpretata come una manifestazione di presunzione, coi primi versi del canto successivo capiremo come in questa professione di fede egli confidi per essere riammesso a Firenze e ricevere l'incoronazione poetica nel Battistero di san Giovanni.

P.S. - essendo questo l'ultimo post del 2019, colgo l'occasione per augurarvi un 2020 carico di felicità e ottime letture.

Francesco Abate     

giovedì 19 dicembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Come l'augello, intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disiati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
prevene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l'alba nasca
Il canto XXIII si apre con una metafora: Beatrice guarda al cielo verso il meridiano dove il sole sembra muoversi più lentamente (la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta), cioè dove sta a mezzogiorno, con un'ansia paragonabile a quella con cui un uccello posato sul ramo dove tiene il nido aspetta l'arrivo dell'alba, così da poter provvedere alla ricerca del cibo per i suoi piccoli (un lavoro gravoso che per la madre diventa un piacere). Vedendola attendere con ansia, Dante diventa simile a colui il quale, pur desiderando ardentemente qualcosa, attenua la voglia consolandosi con la speranza di essere presto soddisfatto ("sì che, veggendola io sospesa e vaga, / fecimi qual è quei che disiando / altro vorria, e sperando s'appaga"). Dopo la nascita del desiderio nel poeta, passano pochi attimi e il cielo comincia a rischiararsi. Beatrice a questo punto annuncia le anime degli uomini che hanno ben operato grazie agli influssi delle stelle fisse, diventando beati (tutto 'l frutto ricolto dal girar di queste spere), e i combattenti dell'esercito di Cristo (le schiere del triunfo di Cristo); secondo alcuni critici in realtà in questa visione ci sono tutti i beati che il poeta ha visto nel suo viaggio in Paradiso, ma si tratta di un'interpretazione che andrebbe a cozzare con la struttura del poema. 
Alla vista di quello spettacolo, il viso di Beatrice a Dante sembra ardere, e i suoi occhi si riempiono di tanta grazia da spingere l'autore a rinunciare alla ricerca di parole per descriverlo ("Pariemi che 'l suo viso ardesse tutto, / e li occhi avea di letizia sì pieni, / che passarmen conven senza costrutto"). Così come nelle notti di plenilunio la Luna (Trivia) splende tra le stelle, che illuminano il cielo intero, così vede sopra migliaia di beati (lucerne) una grande luce (sole) che le illumina come il sole fa con le stelle; in quella luce traspare la figura umana di Cristo (la lucente sostanza) in modo così splendente da non essere sostenibile per lo sguardo del poeta. Beatrice, che l'autore elogia e definisce "dolce guida e cara" (un elogio che, letto nella contemporaneità dei fatti narrati, suona come un grido d'aiuto, se invece lo leggiamo nella contemporaneità della scrittura, quindi dopo i fatti, suona come un ringraziamento), gli spiega che a vincere la sua vista è la virtù divina che è al di sopra di ogni cosa, colui che con la sapienza e la potenza aprì le strade tra il cielo e la terra (con l'Incarnazione e la Passione portò la pace e la grazia), cosa che si desiderava da tempo. Alla vista di questo prodigio, la mente di Dante esce da sé stessa così come il fulmine che, dilatato al punto da non poter più essere contenuto dalla nube, si scarica a terra; quello che accade poi, il poeta non lo ricorda. Circa il riferimento al fulmine, il poeta lo descrive come fuoco di nube che, non trovando spazio per dilatarsi nelle nubi di vapore acqueo, si scarica a terra: all'epoca così era scientificamente interpretato il fenomeno ("Come foco di nube si diserra / per dilatarsi sì che non vi cape, / e fuor di sua natura in giù s'atterra, / la mente mia così, tra quelle dape / fatta più grande, di se stessa uscio, / e che si fesse rimembrar non sape").
Beatrice invita Dante ad aprire gli occhi e guardarla, perché avendo visto la luce di Cristo, il poeta adesso può sostenere la vista del suo sorriso. Il poeta è come chi si sveglia da una visione dimenticata, che invano prova a ricordare, quando sente la donna fargli questa offerta degna di gratitudine che lui non cancellerà mai dal libro della memoria. Contempla così il sorriso di Beatrice, e ci dice che, se anche in suo aiuto giungessero tutti i poeti ispirati dalla musa Polinnia (musa della lirica) e dalle sue sorelle, non riuscirebbe a rendere neanche la millesima parte di quello splendore ("Se mo sonasser tutte quelle lingue / che Polimnìa con le suore fero / del latte lor dolcissimo più pingue, / per aiutarmi, al millesmo del vero / non si verria, cantando il santo riso / e quanto il santo aspetto facea mero"). 
L'autore a questo punto spiega che la descrizione del Paradiso impone che il poema salti alcune cose, come chi trova interrotto il proprio cammino, ma il lettore che si rendesse conto della grandezza del tema trattato e di quanto sia complesso per le potenzialità umane (lui usa la metafora del grande peso messo sulle spalle umane), di certo non biasimerebbe l'autore: il mare in cui sta navigando non è percorribile né da una piccola barca né da un timoniere che vuole risparmiare le forze. 
La narrazione torna di nuovo a Beatrice che parla e chiede a Dante perché, preso dall'estasi amorosa, per guardarle il viso non volge lo sguardo al giardino celeste che fiorisce sotto i raggi della luce di Cristo. Indica poi al poeta che lì c'è la Madonna e ci sono gli apostoli; in questa indicazione continua la metafora del giardino, infatti la Vergine è indicata come la rosa in cui si è incarnato il vero divino, mentre gli apostoli sono indicati come i gigli che col profumo indicarono la retta via (chiara metafora della loro predicazione). Dante, che è sempre pronto a seguire le indicazioni di Beatrice, torna di nuovo con lo sguardo alla battaglia contro quella luce che prima aveva faticato a sostenere. Così come in vita gli è capitato di vedere un prato fiorito illuminato da un raggio di sole filtrato dalle nubi, adesso vede le schiere di beati folgorati dalla luce di Cristo, senza però vedere l'origine di questa luce. Il poeta capisce di poter adesso vedere senza problemi i beati perché la luce di Cristo si è sollevata più in alto, per questo la esalta, visto che si è sollevata per permettere ai suoi occhi di vedere quello spettacolo ("O benigna vertù che sì li 'mprenti, / su t'esaltasti, per largirmi loco / a li occhi lì che non t'eran possenti"). 
Udito prima da Beatrice, il nome di Maria, che lui sempre invoca mattina e sera, lo spinge a guardare la luce più intensa; non appena alla sua vista si manifestano la quantità e la qualità della luce di Maria, che in Paradiso vince in luminosità i beati così come sulla Terra vinse tutti in virtù, dal cielo scende un lume ardente (facella) di forma circolare come una corona, che la cinge e gira intorno a lei. L'angelo, che incorona il più bel gioiello del cielo intero (il bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s'inzaffira), intona un canto al cui confronto tutte le più dolci melodie della Terra, anche quelle capaci di attirare l'anima, sembrano il rombo di un tuono. L'angelo, che altri non è che l'arcangelo Gabriele, si presenta come l'amore angelico che gira intorno al ventre da cui nacque il Messia, poi annuncia che girerà finché Maria non seguirà Gesù nell'Empireo, rendendolo ancor più bello. Mentre l'angelo intona questo canto, gli altri beati cantano il nome di Maria. A questo punto la Vergine incoronata dell'angelo (la coronata fiamma) sale verso l'alto insieme a Gesù Cristo e Dante non riesce a seguirla con lo sguardo perché il nono cielo, che avvolge tutti gli altri ed è più acceso dall'amore di Dio perché più vicino, è tanto lontano da non essere visibile. A questo punto ciascuno dei beati tende verso l'alto la propria luce, così come il poppante tende le braccia verso la madre dopo aver preso il latte; questo rende palese al poeta il grande amore che essi hanno per la Vergine. I beati restano al cospetto di Dante e intonano il Regina coeli (preghiera recitata nel periodo pasquale) con una dolcezza tale che a distanza di anni ricorda ancora. 
La vista dello spettacolo spinge l'autore a chiudere il canto con delle considerazioni. Prima di tutto loda la ricchezza delle anime dei beati, paragonati nel canto a forzieri (arche) carichi di beni, che in vita furono terreni in cui fu bene seminare; la parola bobolce per alcuni significa lavoratori della terra, per altri campi da semina: nel primo caso essi sarebbero descritti da Dante come seminatori della parola di Dio ma, visto che non tutti i beati furono predicatori, è più giusto intenderli come terreni da semina, riprendendo così la parabola evangelica del terreno fertile in cui il seme della parola dà buon frutto. Continuando il suo elogio, l'autore scrive che nel Paradiso si gode del tesoro accumulato dalle sofferenze patite sulla Terra (ne lo esilio di Babillòn); lì trionfa san Pietro, che tiene le chiavi della Chiesa, insieme al Figlio di Dio, a Maria, e alle anime del Vecchio e del Nuovo Testamento.

Francesco Abate

mercoledì 11 dicembre 2019

STORIA: IL FUMO DENSO DEL TERRORISMO

Il 12 dicembre è una delle date più tristi della storia dell'Italia repubblicana, ricorre infatti l'anniversario della strage di piazza Fontana. Si tratta di uno degli attentati che più scosse l'opinione pubblica, perché non colpì politici ma gente comune, ed è ancora oggi una macchia indelebile sulla storia del nostro paese, visto che a distanza di 50 anni resta una strage senza colpevoli.

Venerdì 12 dicembre 1969, alle ore 16:37, un ordigno contenente 7 kg di tritolo esplose nella sede della Banca Centrale dell'Agricoltura a Milano, in piazza Fontana. L'esplosione, avvenuta in orario di apertura al pubblico, uccise 17 persone e ne ferì più di 80. Raccontò alla televisione un impiegato: "...ho visto cadaveri da tutte le parti. Sulla destra c'era un signore senza le gambe che chiedeva aiuto" (Fonte: La notte della Repubblica - Sergio Zavoli).
Subito gli inquirenti iniziarono a seguire la pista anarchica, ricordiamo che era il periodo degli anni di piombo e fioccavano gruppi di estrema sinistra che usavano il terrorismo come strumento di lotta (ve n'erano anche di estrema destra, ma agli inquirenti sul momento non sembrò importante). Fu privilegiata la pista anarchica, ma nell'opinione pubblica si levò qualche voce di dissenso, tra cui quella del grande giornalista Indro Montanelli, il quale osservò come gli anarchici fossero soliti colpire obiettivi politici ben precisi, mentre la strage di piazza Fontana aveva colpito gente a caso. 
Nei quattro giorni successivi all'attentato vennero fermati solo a Milano 84 esponenti anarchici o di estrema sinistra.
Le accuse caddero subito su Giuseppe Pinelli, figura di spicco degli ambienti anarchici milanesi; gli interrogatori a Pinelli procedettero regolarmente per diverse ore, finché una notte l'interrogato volò giù dalla finestra della questura al quarto piano (e la moglie lo venne a sapere dai giornalisti). Nella stanza degli interrogatori con Pinelli erano presenti quattro poliziotti e un capitano dei carabinieri, nei confronti dei quali fu aperto un procedimento per omicidio volontario, mentre il commissario Luigi Calabresi fu accusato di omicidio colposo perché non presente al momento del fatto. I poliziotti e il carabiniere furono poi prosciolti perché "il fatto non sussiste"; la sorte peggiore toccò al commissario Calabresi che, ritenuto colpevole di omicidio volontario dai gruppi di sinistra extraparlamentare, fu ucciso tre anni dopo con cinque colpi di pistola. Ad oggi, la verità sulla morte di Pinelli non è nota. La tesi ufficiale dei presenti fu che si trattò di un suicidio, ma a distanza di anni Pietro Valpreda, amico di Pinelli e suo compagno "di lotta", nonché un altro accusato per la strage, in un'intervista rilasciata alla trasmissione La notte della Repubblica si dichiarò convinto che fosse stato ucciso, sollevando anche dei dubbi sull'arresto e le accuse mosse a Pinelli, segnalando come all'accusato fosse stata concessa una libertà normalmente non concessa neanche a un sospettato di reati minori (fu libro di muoversi in questura e telefonare a piacimento, inoltre in centrale ci arrivò seguendo le auto col proprio motorino e non in stato di arresto).
La pista anarchica portò all'arresto di Pietro Valpreda, anarchico amico di Giuseppe Pinelli; era arrivato a Milano la mattina presto del 12 dicembre 1969 e fu riconosciuto da un tassista in un confronto davanti ai giudici. L'accusa cadde subito, anche perché la testimonianza del tassista fu incerta e, benché ciò fu omesso negli atti ufficiali, a detta di Valpreda fu anche ritrattata dallo stesso testimone nel corso del confronto. 
Dopo un anno e mezzo di indagini, nuovi sviluppi portarono gli inquirenti a seguire la pista nera. Le indagini svolte a Treviso, dove erano risultati venduti i timer delle bombe, portarono ai nomi di Franco Freda e Giovanni Ventura (Ordine Nuovo il primo, MSI il secondo). Le dichiarazioni di Ventura portarono anche al nome di Guido Giannettini, uomo sul libro paga dei servizi segreti.
Dal momento in cui si iniziò a seguire la pista dell'estremismo fascista, iniziarono le ingerenze e i depistaggi del SID (servizi segreti). Il primo episodio riguardò Marco Pozzan, uomo di fiducia di Freda, che fu intercettato dai servizi segreti durante la latitanza e, benché fosse interessato da un mandato di cattura per concorso nella strage, fu fornito di passaporto falso e fatto espatriare. A Giovanni Ventura invece il SID fornì gli strumenti per evadere dal carcere di Monza, dove era detenuto. Anche Giannettini venne salvato dai servizi segreti non appena fu accusato di concorso in strage: il SID lo spedì in Francia e continuò a stipendiarlo. Ovviamente poi, oltre ai favori fatti agli accusati, il SID ostacolò le indagini riparandosi dietro al segreto di Stato ogni volta che un suo esponente si trovava davanti ai magistrati. 
Tanto fu massiccio il ricorso al segreto di Stato durante le indagini, che il Governo provvide con la legge n.801 del 24 ottobre 1977 a sancire che "In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell'ordinamento costituzionale".
Il processo andò avanti a fasi alterne, con anche diversi spostamenti della sede per motivi di ordine pubblico. 
Negli anni '90 le dichiarazioni di vari pentiti, tra cui spiccarono Carlo Digilo e Martino Siciliano, portarono all'accusa di diversi esponenti di Ordine Nuovo e si arrivò alla condanna all'ergastolo nei confronti di Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni. La soddisfazione di aver dato un nome agli esecutori della strage durò solo tre anni, infatti in appello gli imputati furono assolti e i pentiti furono dichiarati inattendibili.
L'ultima beffa è arrivata il 3 maggio del 2005: il tribunale ha confermato la responsabilità di Ordine Nuovo e ha ritenuto valida la pista che porta alle responsabilità di Ventura e Freda, ma non è più possibile processarli perché sono stati già giudicati per lo stesso reato.

Sono passati 50 anni dalla strage di piazza Fontana e ancora oggi i colpevoli non hanno un nome. Non sappiamo perché hanno ucciso 17 persone, non sappiamo chi l'ha fatto e, quel che è peggio, non sappiamo perché i servizi segreti, i quali dovrebbero fare gli interessi dello Stato, hanno depistato le indagini. 
A distanza di tanti anni, appare condivisibile il pessimismo di Valpreda, che ai microfoni di Sergio Zavoli disse: "Io, per conto mio, sono convinto che alcune verità non si sapranno più. Credo che, anche aprendo tutti gli archivi dei servizi segreti, non possano emergere altre verità".

Francesco Abate

venerdì 6 dicembre 2019

COMMENTO AL CANTO XXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida;
e quella, come madre che soccorre
subito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che 'l suol ben disporre,
mi disse: <<Non sai tu che tu se' in cielo?
Il grido dei beati con cui si è chiuso il canto XXI causa in Dante stupore e spavento, perciò si volta verso Beatrice come un bambino spaventato fa con la madre e lei, con la voce della madre che rincuora il piccolo spaventato e desideroso di capire il motivo del suo spavento, gli fornisce una rapida spiegazione. La guida attraverso due domande retoriche gli ricorda che ora si trova in cielo, dove tutto è giusto perché viene dall'amore e dalla volontà del bene (da buon zelo); gli fa notare poi che, se un grido lo ha tanto agitato e oppresso, può bene immaginare che effetto avrebbero avuto su di lui il suo sorriso o il canto dei beati; infine gli spiega che, se avesse compreso le parole del grido, avrebbe scoperto che si trattava di una preghiera con la quale i beati hanno invocato la giusta punizione contro coloro che hanno corrotto l'istituzione sacra della Chiesa, la quale sarà vista dal poeta prima della morte ("Come t'avrebbe trasmutato il canto, / e io ridendo, mo pensar lo puoi, / poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto; / nel qual, se 'nteso avessi i prieghi suoi, / già ti sarebbe nota la vendetta, / che tu vedrai innanzi che tu muoi"). La giustizia di Dio, conclude Beatrice, è fuori dal tempo, ma per chi la invoca o per chi l'attende può risultare o troppo lenta o troppo veloce; detto ciò, invita il discepolo a prestare attenzione ai beati, perché avrà modo di vedere degli spiriti illustri. Circa il discorso di Beatrice, bisogna soffermarsi un attimo sulla profezia della "vendetta" vista da Dante prima della morte, pronunciata nei versi 14 e 15. Molti critici oggi vedono in queste parole una profezia indeterminata, cioè non collegata a un evento storico preciso, ma altri, visto il riferimento temporale, si azzardano a collegarla con l'episodio di Anagni (in cui papa Bonifacio VIII fu catturato e umiliato dai francesi) o con la morte di Clemente V.
Ascoltando le parole della sua guida, Dante volge lo sguardo ai beati e vede tantissime sfere che si abbelliscono vicendevolmente col loro splendore. Il poeta sta come chi reprime un desiderio acuto e non fa domande, consapevole che chiederebbe più di quanto sia lecito. A un certo punto la gemma più luminosa (la più luculenta di quelle margherite) avanza intenzionata a soddisfare la voglia del poeta, e da dentro quella luce Dante sente provenire delle parole. 
Lo spirito dice che, qualora il poeta vedesse come vede lui la carità che arde tra i beati, non esiterebbe a porre le domande che lo tormentano, poi gli dice che risponderà leggendogli le domande nel pensiero, così da evitare che la sua esitazione lo porti a completare in ritardo il suo sacro viaggio. Fatta questa premessa, il beato rivela di aver vissuto sul monte Cairo, nel cui pendio è Cassino, che era usato dai pagani per i sacrifici ad Apollo e a Diana, e lì fu il primo a portare il messaggio di Gesù (colui che portò quella verità che ora eleva i beati al punto in cui sono); tanta fu la grazia che su di lui splendette (non si prende il merito della diffusione del Cristianesimo, parla di sé come uno strumento di Dio) che allontanò gli abitanti delle città circostanti dal paganesimo ("e tanta grazia sopra me relusse, / ch'io ritrassi le ville circunstanti / da l'empio colto che 'l mondo sedusse"). Dopo essersi presentato, dalle sue parole è infatti chiaro che si tratta di san Benedetto, indica altri beati presenti lì con lui: Macario, san Romualdo, e i frati benedettini che rimasero fedeli alla sua Regola ("dentro ai chiostri fermar li piedi e tenner lo cor saldo"). I beati indicati da san Benedetto sono tutti collegabili alla vita monastica, san Romualdo infatti fu fondatore dei benedettini camaldolesi, ma ci sono delle incertezze biografiche circa Macario: è chiaro che Dante si riferisca a Macario d'Alessandria, ma questo nome è appartenuto a due eremiti egiziani che venivano all'epoca sempre confusi tra loro, perciò è impossibile stabilire con certezza a chi dei due facesse riferimento il poeta.
Sentite le parole del santo, Dante dichiara che sia l'amore da lui dimostrato parlando sia le luci dei beati hanno allargato la sua fiducia, come il sole spinge la rosa ad aprirsi al massimo delle sue possibilità ("come 'l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant'ell'ha di possanza"), poi lo prega di mostrarsi nella sua immagine non celata dalla luce ("con imagine scoverta"). 
San Benedetto gli risponde che quel desiderio sarà esaudito nell'Empireo (ultima spera), dove si adempiono tutti i desideri, compreso il proprio, che lì giungono perfetti e maturi; spiega poi che nell'Empireo ogni punto è dov'è sempre stato, perché non si sviluppa nello spazio e non ha poli attorno cui girare, per questo è immobile (senza cambiamento di luogo, non può esserci movimento); fin lì arriva la scala, dice ancora, per questo il poeta non riesce a seguirla con lo sguardo (la contemplazione supera lo spazio e arriva fino all'Empireo, là dove la vista umana e la ragione non possono arrivare). Fin lassù, spiega il santo, arrivava la scala che Giacobbe vide in sogno, quando la parte superiore gli apparì piena di angeli. La scala arriva fin lassù, ma san Benedetto constata come nessuno oggi stacchi i piedi da terra per salirla, e la sacra regola che lui scrisse non è più rispettata da nessuno, restando perciò una scrittura utile solo a sporcare la carta; i monasteri che furono badie, cioè che ospitarono anime sante, adesso sono spelonche piene di ladri, e le tonache dei monaci sono sacche piene di farina guasta ("Le mura che solieno esser badia / fatte sono spelonche, e le cocolle / sacca son piene di farina ria"). Il santo continua la sua invettiva dicendo che l'usura, peccato grave, non offende Dio quanto i monaci che si appropriano delle rendite ecclesiastiche, perché tutto ciò che è custodito dalla Chiesa (quantunque la Chiesa guarda) appartiene ai poveri che chiedono l'elemosina in nome di Dio, non ai parenti dei monaci o a persone ancor più indegne (concubine, figli illegittimi). Mitiga poi la sua invettiva con una constatazione circa la fragilità dell'uomo, la quale richiama al capitolo sessantaquattresimo della regola benedettina, la quale impone all'abate di correggere i vizi con prudenza e carità, ricordandosi della fragilità umana; dice che la carne dei mortali è così debole che qualsiasi opera buona iniziata alla nascita di una quercia dura fino alla nascita della ghianda. Dopo l'invettiva, san Benedetto ricorda che Pietro fondò la Chiesa senza alcuna ricchezza, lui stesso creò il proprio ordine con orazioni e digiuni, e san Francesco il suo convento lo fondò con umiltà; se però Dante guarda quegli inizi e poi vede come sono adesso quelle creazioni, vedrà il bianco mutato in bruno (tutto è rovinato). Il suo discorso il santo lo conclude rassicurando il poeta, dicendogli che i miracoli di Dio nel mar Rosso e nel Giordano, col mare che si aprì e il fiume che si voltò al passaggio degli israeliani, furono ben più grandi di quel che farà per riportare gli ordini e la Chiesa alla loro antica purezza.
Finito di parlare, san Benedetto si ricongiunge alle altre anime e tutte si stringono per poi turbinare verso l'alto. Beatrice con un cenno esorta Dante a salire lungo la scala e la sua volontà vince la natura umana del poeta, che avrebbe dovuto costituire un impedimento (sì sua virtù la mia natura vinse); il volo che fanno i due non è paragonabile alle salite e alle discese che si fanno sulla Terra per mezzo delle sole forze naturali ("né mai qua giù dove si monta e cala / naturalmente, fu sì ratto moto, / ch'agguagliar si potesse a la mia ala"). L'autore si augura di tornare un giorno al cospetto di quel devoto trionfo dei beati, per il quale spesso piange e si batte il petto in segno di penitenza, poi dice al lettore che non riuscirebbe a mettere il dito nel fuoco e tirarlo via per il calore in così poco tempo quanto lui ne impiegò per ritrovarsi nella costellazione dei Gemelli ('l segno che segue il Tauro). 
Dante si trova nel cielo delle stelle fisse e inizia un'invocazione alle stelle dei Gemelli, sotto il cui influsso sentì per la prima volta l'aria di Toscana (nacque) e da cui ha ricevuto il suo ingegno, qualunque esso sia, e in cui è stato disposto che si trovasse al momento della salita in quel cielo; a esse egli chiede la virtù necessaria per descrivere la parte finale del suo viaggio in Paradiso, quella che lo condurrà al cospetto di Dio.
Beatrice dice al poeta che si trova così vicino a Dio (l'ultima salute) che deve aver perduto i limiti terrestri della vista, quindi può vedere tutto chiaramente; detto questo, lo invita a guardare in basso e vedere quanto si è innalzato sotto la sua guida, così che il suo cuore si avvicini giocondo alla schiera trionfante delle anime che stanno in questo cielo. Dante fa ciò che gli ha detto la guida e vede i sette pianeti, con la Terra così piccola e lontana da indurlo a sorridere, a considerare più giusto il pensiero di chi decide di valutarla come cosa poco importante e a considerare davvero saggio chi decide di rivolgere al cielo i suoi pensieri. Vede poi la Luna illuminata (la figlia di Latona incensa) senza le macchie (i mari) che l'avevano indotto a credere che avesse maggiore o minore densità in alcuni punti. Vede poi il sole (che nella mitologia era considerato figlio di Iperione) la cui vista ora riesce a sostenere senza essere abbagliato, e vede come si muovano vicino a lui i pianeti Mercurio (figlio di Maia) e Venere (figlia di Dione). Vede poi il temperare (gli antichi consideravano Marte caldo e Saturno freddo, Giove nel mezzo era temperato) di Giove tra Marte, il figlio, e Saturno, il padre, e gli appare chiaro il loro movimento nel cielo. Dall'alto vede la grandezza e la velocità con cui si muovono tutti e sette i pianeti, come anche la distanza che li separa l'uno dall'altro. La Terra, che da quell'altezza gli appare come un'aia, un giardinetto, e che tanto feroci rende gli uomini, la vede tutta dai monti ai mari (per altri critici l'espressione da' colli a le foci significa "dalle colonne d'Ercole alle rive del Gange"). Osservato l'universo sottostante, Dante volge lo sguardo agli occhi di Beatrice.

Francesco Abate