martedì 30 luglio 2019

ESTRATTO N°1 DEL ROMANZO "I PROTETTORI DI LIBRI"

Lentamente tutti quei capolavori presero a bruciare, si formò un'alta colonna di fuoco e il fumo lentamente riempì la stanza. Taipan non prestava attenzione al fuoco, il suo sguardo era puntato sul vecchio, pronto a cogliere ogni espressione, ogni sfumatura che rivelasse quanto il pover'uomo stesse soffrendo. Il vecchio non riusciva a distogliere lo sguardo da quel fuoco, tutto ciò in cui aveva creduto stava bruciando. In pochi minuti era andata in malora tutta la sua vita.
La disperazione nel suo cuore si tramutò in coraggio, gettò sul suo aguzzino uno sguardo incandescente e disse:
<<Che tu sia maledetto! Te lo dico io perché tu odi tanto i libri. Li odi perché sono l'antidoto a questo Governo marcio e alle persone marce come te. Li odi perché sono mezzi attraverso i quali l'uomo cerca di rendere la vita migliore di questo fiume di sangue e lacrime che è oggi.>>
<<Sbagli, vecchio! Io non odio i tuoi libri. Sono vietati dalla legge, tutto qui.>>
<<Balle!>> alzò la voce il vecchio, ormai allo stremo delle forze a causa delle emorragie <<tu non rappresenti la legge. Tu rappresenti solo la sete di sangue tua e dei mostri che hanno armato la tua mano.>>
Taipan sorrise, non rispose. Si limitò a mettere la lama del suo pugnale tra le fiamme. Il vecchio capì che la sua pena non era ancora finita. 

***

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Dopo averlo letto, non dimenticate di lasciare un commento sul blog, oppure sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese", o ancora sull'account Twitter "@FrancescoAbate3".

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

sabato 27 luglio 2019

COMMENTO AL CANTO VI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Poscia che Costantin l'aquila volse
contr'al corso del ciel, ch'ella seguìo
dietro a l'antico che Lavina tolse,
cento e cent'anni e più l'uccel di Dio
ne lo stremo d'Europa si ritenne,
vicino a' monti de' quai prima uscìo;
e sotto l'ombra delle sacre penne
governò 'l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Il canto VI del Paradiso è totalmente dedicato alle parole dell'anima a cui Dante si è rivolto alla fine del canto precedente. A parlare è Giustiniano, imperatore dell'Impero romano d'Oriente dal 527 fino al 565, anno della sua morte. Viene principalmente ricordato per aver dato ordine alla legislazione e alla giurisprudenza romana; si distinse però anche per le lotte contro i Vandali in Africa e gli Ostrogoti in Italia, nonché per il suo impegno affinché nell'Impero vi fosse unità religiosa.
Il discorso di Giustiniano inizia con una lunga presentazione, infatti la prima cosa che Dante gli ha chiesto è "chi tu se' ". Dopo che Costantino portò l'impero (l'aquila) da Occidente a Oriente, facendogli seguire il percorso inverso a quello di Enea, che da Troia si era spostato nella futura Roma, per secoli questo rimase a Bisanzio (ne lo stremo d'Europa), vicino ai monti della Troade da cui era partito Enea, fondatore dell'Impero Romano secondo la tradizione. Sotto l'ombra dell'Impero il governo passò di mano in mano, fino ad arrivare a lui (governò 'l mondo dì di mano in mano, e, sì cangiando, in su la mia pervenne). Lui fu imperatore ed è Giustiniano, che per opera dello Spirito Santo diede ordine alle leggi romane, togliendo il troppo e il superfluo ("Cesare fui e son Giustiniano, / che, per voler del primo amor ch'i' sento, / d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano"). Non è casuale che Giustiniano usi il passato remoto nel ricordare la carica imperiale, mentre il nome proprio lo introduce col verbo al presente, così ribadisce che le cariche appartengono al mondo dei vivi e lì in Paradiso non contano più nulla. 
Racconta Giustiniano che prima di dedicarsi all'opera per cui il mondo lo ricorda, aderì all'eresia del monofisismo, secondo la quale in Gesù vi era solo la natura divina e non quella umana; poi incontrò il pontefice Agapito, il quale riuscì a riportarlo sulla retta via e lo fece aderire al dogma della doppia natura di Cristo, umana e divina. Credette alle parole di Agapito e adesso vede il dogma con la stessa chiarezza con cui Dante può vedere in un giudizio contraddittorio che c'è una frase vera e una falsa. Essendo passato alla vera fede, a Dio piacque ispirargli il gran lavoro che fece con le leggi imperiali, a cui si dedicò totalmente, lasciando le questioni militari nelle mani del generale Belisario, che fu così ben assistito dal cielo da far capire all'imperatore di non doversi interessare delle armi in prima persona ("Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, / a Dio per grazia piacque di spirarmi / l'alto lavoro, e tutto in lui mi diedi; / e al mio Belisar commendai l'armi, / cui la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch'i' dovesse posarmi"). C'è da fare una precisazione circa l'adesione di Giustiniano all'eresia del monofisismo. La notizia, che pur circolava all'epoca di Dante, è in realtà storicamente falsa: sua moglie Teodora vi aderì per un periodo della vita, lui no.
Giustiniano dice di aver risposto alla prima domanda di Dante, quella sulla sua identità, ma afferma che le sue parole necessitano di un'aggiunta, affinché lui possa vedere quanto ingiustamente agisca sia chi del simbolo imperiale si appropria, cioè i ghibellini, sia chi lo combatte, i guelfi ("Or qui a la question prima s'appunta / la mia risposta; ma sua condizione / mi stringe a seguitare alcuna giunta, / perché tu veggi con quanta ragione / si move contra 'l sacrosanto segno / e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone "). Ciò detto, inizia un lungo riepilogo della gloriosa storia di Roma. Dice a Dante di vedere quanta virtù ha reso l'Impero degno di reverenza, e comincia il suo racconto rievocando la storia di Pallante, il quale morì per aiutare Enea nella lotta contro Turno; da lui Enea ereditò i diritti di sovranità, quindi in questa vicenda sta il fondamento giuridico dell'Impero romano. Rievoca poi i trecento anni in cui i discendenti di Enea dimorarono ad Albalonga, fino a quando tre Orazi e tre Curiazi non combatterono ancora per quello che sarebbe stato l'Impero. Vinse poi le popolazioni limitrofe, nel periodo del ratto delle Sabine e del suicidio di Lucrezia, la quale aveva subito violenza dal figlio di Tarquinio il Superbo e per questo si uccise. Sconfisse poi i Galli di Brenno e Pirro, re dell'Epiro, così come gli altri principati e stati che gli si opposero; per queste gloriose battaglie ebbero gloria Torquato e Quinzio, che fu chiamato Cincinnato per via del ciuffo arruffato, così come le famiglie dei Deci e dei Fabi. Distrusse poi l'orgoglio dei cartaginesi i quali, dietro Annibale, valicarono le Alpi dove nasce il fiume Po; sotto il simbolo dell'impero i giovani Scipione e Pompeo sconfissero gli invasori, e parve amaro al colle sotto cui Dante è nato (Fiesole), che fu distrutto secondo la leggenda nella guerra contro Catilina, a cui partecipò proprio Pompeo ("Esso atterrò l'orgoglio de li Arabi / che di retro ad Annibale passaro / l'alpestre rocce, Po, di che tu labi. / Sott'esso giovanetti triunfaro / Scipione e Pompeo; ed a quel colle / sotto 'l qual tu nascesti parve amaro"). Poi, con l'avvicinarsi del tempo in cui il cielo volle portare il mondo alla sua stessa serenità, preparandolo alla nascita di Cristo, il potere fu preso da Cesare, le cui battaglie vittoriose furono viste in tutta la Gallia transalpina; dal Varo al Reno, dai fiumi Isare, Senna, Loira, e da tutte le valli in cui il Rodano riceve gli affluenti. Quello che fece Cesare quando passò Ravenna e varcò il Rubicone per combattere la guerra civile contro Pompeo, fu un volo così vasto da non poter essere seguito né per iscritto né con le parole. Rivolse l'esercito verso la Spagna, contro i legati di Pompeo, poi verso Durazzo; sconfisse Pompeo così duramente presso Farsalia che il dolore si sentì fino al Nilo, perché il generale sconfitto fuggì in Egitto e fu ucciso a tradimento da Tolomeo. Arrivò a rivedere Antandro, porto da cui era salpato Enea, e Simeonta, dove era sepolto Ettore (Cesare quindi si ritrovò nei luoghi da cui il suo Impero era nato), e dopo una breve sosta in Egitto tolse il regno a Tolomeo. Dall'Egitto piombò sul re di Mauritania, il pompeiano Giuba, poi andò in Spagna per spezzare l'ultima resistenza pompeiana. Di quello che fece l'Impero col successore di Cesare, Ottaviano Augusto, ancora latrano all'Inferno Bruto e Cassio (che da lui furono sconfitti), e se ne dolgono Modena e Perugia; ne piange ancora Cleopatra, che si uccise dopo che Antonio fu sconfitto ad Anzio. Con Ottaviano Augusto l'Impero giunse fino al Mar Rosso e con lui il mondo fu in pace, tanto che dopo oltre due secoli furono chiuse le porte del tempio di Giano, ad indicare che nessuna guerra turbava l'Impero ("Con costui corse infino al lito rubro; / con costui pose il mondo in tanta pace, / che fu serrato a Iano il suo delubro"). Ciò che il segno di cui parla Giustiniano, cioè l'aquila, quindi l'Impero, aveva fatto in passato e avrebbe fatto in futuro per il mondo che aveva sottomesso, diventa poco se paragonato a quel che fece il terzo imperatore, Tiberio, perché la giustizia divina gli concesse l'onore di punire il peccato originale attraverso la Passione di Cristo ("Ma ciò che 'l segno che parlar mi face / fatto avea prima e poi era fatturo / per lo regno mortal ch'a lui soggiace, / diventa in apparenza poco e scuro, / se 'n mano al terzo Cesare si mira / con occhio chiaro e con affetto puro; / ché la viva giustizia che mi spira, / li concedette, in mano a quel ch'i' dico, / gloria di far vendetta a la sua ira"). A questo punto, Giustiniano dice a Dante di ascoltare ciò che sta per dirgli, che potrebbe apparire paradossale: con Tito l'Impero distrusse la città di Gerusalemme, punendo gli Ebrei per l'uccisione di Cristo, che era stata la vendetta di Dio contro il peccato originale. Quando poi i Longobardi misero in pericolo la Chiesa conquistando l'Italia, in suo soccorso tornò l'Impero grazie a Carlo Magno. 
Terminato questo riepilogo della storia dell'Impero, il cui valore sacro è stato sottolineato attribuendogli il privilegio di aver prima ucciso Cristo per redimere l'umanità e poi punito gli Ebrei che l'avevano materialmente ucciso, Giustiniano passa alle valutazioni circa i guelfi e i ghibellini. Ormai, dice, lo stesso Dante può giudicare i due schieramenti, che sono causa di tutti i mali dell'Italia. I guelfi si affidano ai francesi, opponendo ai simboli imperiali i gigli gialli simbolo della casata francese, mentre i ghibellini usano il simbolo imperiale per i loro interessi; è difficile stabilire chi tra loro sia maggiormente colpevole ("L'uno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l'altro appropria quello a parte, / sì ch'è forte a veder chi più si falli"). I ghibellini, dice ancora, facciano la loro politica faziosa usando altri segni, perché chi allontana l'Impero dalla giustizia non segue il segno dell'aquila; e Carlo II d'Angiò non creda di poter distruggere l'Impero coi suoi guelfi, che l'aquila ha scorticato leoni ben più grandi di lui. Già molte volte i figli hanno pagato le colpe dei padri, non si può credere che Dio cambi il proprio simbolo nei gigli di Carlo II. 
Espresse le sue considerazioni sulle fazioni che dividono l'Italia, Giustiniano spiega a Dante chi sono gli spiriti che dimorano nel cielo di Mercurio. Vi dimorano gli spiriti che sono stati attivi per cercare onore e fama; avendo deviato da più alte aspirazioni spirituali, è giusto che i raggi dell'amore divino arrivino a loro più debolmente ("Questa picciola stella si correda / de' boni spiriti, che son stati attivi / perché onore e fama li succeda: / e quando li disiri poggian quivi, / sì disviando, pur convien che i raggi / del vero amore in su poggin men vivi"). Ma è proprio dal paragone tra il premio e i meriti che viene la maggiore letizia degli spiriti, infatti constatano che c'è assoluta giustizia e non ricevono né meno né più di quel che gli è dovuto. La consapevolezza di quest'assoluta giustizia addolcisce tutte le anime, così che queste non possono in alcun modo fare pensieri malvagi. Diverse voci creano dolci melodie, così i diversi gradi di beatitudine nei cieli rendono una dolce armonia in tutto il Paradiso ("Diverse voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote"). 
Dentro al cielo di Mercurio, dice Giustiniano, brilla la luce di Romeo di Villanova, la cui grande opera politica non fu ben gradita. I Provenzali che cospirarono contro di lui non hanno poi avuto gioia, essendo finiti sotto la dominazione angioina; però percorre una strada sbagliata chi crede di subire danno dalle buone azioni altrui ("Ma i Provenzai che fecer contra lui / non hanno riso; e però mal cammina / qual si fa danno del ben fare altrui"). Raimondo Berengario ebbe quattro figlie che, attraverso i matrimoni, divennero tutte regine, e ciò accadde grazie all'opera di Romeo, straniero e di origine sconosciuta. Nonostante la grande opera di Romeo, Raimondo fu spinto dalle calunnie a chiedere conto della sua opera, nonostante avesse migliorato notevolmente i bilanci lasciando dodici dove aveva trovato dieci (che li assegnò sette e cinque per diece). Romeo fu perciò spinto ad andarsene, povero e vecchio, e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare il pane, lo loderebbe ancor più di quanto già faccia. Circa la figura di Romeo, qui descritta da Dante attraverso le parole di Giustiniano, occorre fare una precisazione: l'autore riprende la leggenda che descrive Romeo di Villanova come un pellegrino di ritorno da S.Jacopo di Compostela, che si fermò alla corte di Raimondo Berengario e fu nominato ministro grazie alla sua immensa saggezza, salvo poi tornare a mendicare dopo essere stato colpito dalle calunnie dei cortigiani. La storia in realtà è molto meno poetica, semplicemente fu ministro di Raimondo Berengario, amministrò la contea dopo la morte del re e fu tutore della figlia Beatrice, che fece sposare a Carlo I d'Angiò, e non passò la vecchiaia come mendicante. La leggenda era molto diffusa ai tempi di Dante e il poeta, che viveva il dramma dell'ingiusto esilio, non poteva certo lasciarlo indifferente.

Francesco Abate  

sabato 20 luglio 2019

COMMENTO AL CANTO V DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

<< S'io ti fiammeggio nel caldo d'amore
di là dal modo che 'n terra si vede,
sì che de li occhi tuoi vinco il valore,
non ti maravigliar; ché ciò procede
da perfetto veder che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
Il canto V del Paradiso inizia con Beatrice che spiega a Dante come mai emani tanto splendore da risultare insostenibile la sua vista per gli occhi umani del poeta; lei ha perfetta conoscenza della verità, in quanto anima beata, e ogni volta che la vede arde d'amore con un'intensità che i sensi umani non possono cogliere nella loro imperfezione. Mentre per la maggior parte dei critici il perfetto veder è riferito a Beatrice stessa, la quale spiegherebbe così che la visione della verità suprema porta poi la volontà a conseguirla, per altri è invece riferito a Dante, il quale vedrebbe più fulgida la sua guida e da questa visione sarebbe portato a seguire la via del bene supremo. La donna continua dicendo di vedere già come risplende nell'intelletto del poeta l'eterna luce di Dio, quella che, una volta vista, accende per sempre il desiderio di sé; e se un altra cosa terrena accende l'amore dell'uomo, non è che un bene limitato in cui c'è solo la traccia di Dio, anche se l'uomo spesso lo ritiene un bene assoluto ("Io veggio ben sì come già risplende / ne l'intelletto tuo l'eterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende; / e s'altra cosa vostro amor seduce, / non è se non di quella alcun vestigio, / mal conosciuto, che quivi traluce"). 
Fatta questa premessa, Beatrice risponde alla domanda con cui Dante ha chiuso il canto IV, quella circa la commutabilità dei voti religiosi. Inizia spiegando che il dono più grande che Dio ha fatto all'uomo è il libero arbitrio, che permette a tutte le creature dotate di intelletto di scegliere cosa fare e cosa non fare; l'alto valore del voto è dato dal fatto che l'uomo, con un atto libero, si priva del dono più grande ricevuto dal Creatore, la sua stessa volontà (non può più scegliere di fare o non fare qualcosa, si vincola per sempre a farla o meno). Nello spiegare il valore del voto, Beatrice accenna a una delle caratteristiche principali che lo stesso deve avere per essere valido: ciò che viene sacrificato dev'essere qualcosa che onori Dio e da Lui sia accettato; senza l'accettazione da parte di Dio, il voto perde validità ("Or ti parrà, se tu quinci argomenti, / l'alto valor del voto, s'è sì fatto / che Dio consenta quando tu consenti"). Alla luce del ragionamento fatto sul valore del voto, la donna chiede cosa possa mai essere di pari valore; se un uomo pensa di riparare usando diversamente la propria libera volontà, sarebbe paragonabile a chi fa la carità coi soldi ottenuti da un furto, vorrebbe infatti fare qualcosa di buono partendo da un'azione malvagia. Chiarito quindi che non c'è nulla che valga quanto un voto religioso, perché nulla vale quanto la libera volontà, Beatrice si appresta a chiarire come mai la Chiesa invece possa concedere l'annullamento o la dispensa dai voti, agendo apparentemente in contraddizione con la verità che lei ha appena rivelato. Perché lui possa capire la soluzione di questo apparente paradosso, è necessario che sieda ancora un po' al banchetto del sapere, infatti per comprendere l'argomento intero è necessario che prima "digerisca" alcune spiegazioni preliminari ("Tu se' omai del maggior punto certo; / ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa, / che par contra lo ver ch'i' t'ho scoverto, / convienti ancor sedere un poco a mensa, / però che 'l cibo rigido c'hai preso, / richiede ancora aiuto a tua dispensa"). Prima di cominciare la nuova spiegazione, Beatrice sprona Dante ad aprire la mente e memorizzare ciò che sta per dirgli, perché senza ricordare ciò che si apprende è impossibile capire. Spiega poi che il voto è formato dalla materia, cioè da quel che si intende sacrificare, e dalla forma, cioè il patto con Dio. Il patto non può in alcun modo essere cancellato e dev'essere per forza rispettato (per questo agli Ebrei era comunque imposto di fare sacrifici, anche se il voto poteva essere permutato). La materia del voto può essere cambiata, ma l'uomo non deve osare farlo di propria iniziativa, senza l'approvazione della Chiesa (sanza la volta e de la chiave bianca e de la gialla), e ogni permuta è sbagliata se la nuova offerta non è di valore superiore alla vecchia ("e ogne permutanza credi stolta, / se la cosa dimessa in la sorpresa / come 'l quattro nel sei non è raccolta"); il cambio perciò non è possibile quando ciò che si è offerto nel voto ha valore superiore a tutte le altre cose, come accade nel caso del voto di castità.
Terminata la spiegazione circa il valore del voto e la sua possibile commutazione, Beatrice esorta gli uomini a non essere stolti e non prendere i voti alla leggera; li invita a non fare come Jefte, il quale promise a Dio di sacrificare la prima cosa uscente dalla sua casa e, quando gli venne incontro la figlia per salutarlo, la uccise, contravvenendo alla legge di Dio, mentre avrebbe fatto meglio ad ammettere la stoltezza del suo voto (l'episodio è narrato nel libro dei Giudici, il quale fa parte dell'Antico Testamento); fa anche l'esempio di Agamennone, che sacrificò sua figlia Ifigenia a Diana ("Non prendan li mortali il voto a ciancia: / siate fedeli, e a ciò far non bieci, / come Ieptè a la sua prima mancia; / cui più si convenia dicer "Mal feci", / che, servando, far peggio; e così stolto / ritrovar puoi il gran duca de' Greci, / onde pianse Ifigènia il suo bel volto, / e fe' pianger di sé i folli e i savi / ch'udir parlar di così fatto colto"). Esorta ancora i Cristiani a ponderare bene i voti e a non credere che ognuno possa garantire la purezza dell'anima; hanno la Bibbia e la Chiesa, i quali devono bastare loro per ottenere la salvezza, e se le passioni li guidano verso una cattiva strada, devono essere uomini e non pecore, quindi devono mantenersi sulla retta via; li invita infine a non fare come l'agnello che lascia il latte materno per mettersi a saltellare a suo piacere.
Terminata la spiegazione e l'esortazione, Beatrice alza lo sguardo verso il cielo superiore. Il suo silenzio e la trasfigurazione che subisce spingono Dante a non fare più domande. In un tempo rapidissimo, come la freccia che colpisce il bersaglio quando la corda dell'arco ancora vibra, si trovano nel secondo cielo, quello di Mercurio. Non appena giunti nel nuovo cielo, aumenta la letizia di Beatrice al punto da far apparire Mercurio più lucente; e se l'astro compie questa trasformazione, emanando gioia, figurarsi quella che emana Dante il quale, essendo umano, è molto più sensibile alle impressioni ("E se la stella si cambiò e rise, / qual mi fec'io che pur da mia natura / trasmutabile son per tutte guise!"). Le anime del secondo cielo si avvicinano a Dante e Beatrice come i pesci si avvicinano al pelo dell'acqua credendo di vedere il loro cibo, esse indicano nei due nuovi arrivati coloro che accresceranno il loro spirito di carità. Di tutte le anime si vede il corpo avvolto da una forte luce da loro stesse emanata. A questo punto l'autore si rivolge al lettore, dicendogli di immaginare quale angoscia proverebbe se lui interrompesse qui la narrazione, lasciandolo in preda alla voglia di sapere di più, la quale avrebbe la stessa intensità della sua al cospetto di queste nuove anime. Uno degli spiriti si rivolge a lui, sottolineandone la fortuna di poter accedere al Paradiso senza essere ancora morto, e lo esorta a chiedergli tutto ciò che vuole dopo avergli spiegato che brillano della luce che illumina tutto il cielo ("<< O bene nato a cui veder li troni / del triunfo eternal concede grazia / prima che la milizia s'abbandoni, / del lume che per tutto il ciel si spazia / noi semo accesi; e però, se disii / di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia >>"). Anche Beatrice lo esorta a chiedere e a credere a ciò che sentirà come se fosse lo stesso Dio a dirlo. Dante a questo punto dice di vedere come l'anima emana dagli occhi il lume di carità, che risplende tanto di più quanto maggiore è la letizia, poi gli chiede chi sia e perché dimori nel cielo del pianeta che è velato dai raggi del sole (essendo Mercurio il pianeta più vicino al sole, spesso la sua vista è impossibilitata dalla luce solare). 
Il canto si conclude in modo simile al precedente, con l'autore che ci descrive come l'anima si fa più lucente una volta udita la domanda, tanto che la figura del corpo diventa invisibile agli occhi del poeta, così come il sole diventa impossibile da osservare a causa della propria luminosità quando si dissolvono i vapori dell'atmosfera che lo offuscano. La risposta la conosceremo nel canto successivo ("Questo diss'io diritto a la lumera / che pria m'avea parlato; ond'ella fessi / lucente più assai di quel ch'ell'era. / Sì come il sol, che si cela elli stessi / per troppa luce, come 'l caldo ha rose / le temperanze di vapori spessi, / per più letizia sì mi si nascose / dentro al suo raggio la figura santa; / e così chiusa chiusa mi rispose / nel modo che 'l seguente canto canta").

Francesco Abate
  

sabato 13 luglio 2019

COMMENTO AL CANTO IV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Intra due cibi, distanti e moventi
d'un modo, prima si morria di fame,
che liber'omo l'un recasse ai denti;
sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:
per che, s'i' mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d'un modo sospinto,
poi ch'era necessario, né commendo.
Il canto IV del Paradiso inizia con Dante che, sentite le storie di Piccarda Donati e Costanza d'Altavilla, è assalito da due dubbi; entrambi i suoi dilemmi hanno pari intensità, così non è in grado di scegliere quale deve esporre prima e di conseguenza resta in silenzio. Per illustrare questa tremenda indecisione, l'autore sceglie tre esempi: 1) un uomo a cui vengono posti due cibi ugualmente appetitosi alla stessa distanza, morirebbe di fame senza riuscire a scegliere quale dei due mangiare; 2) un agnello, trovandosi in mezzo a due lupi affamati, resterebbe immobile non sapendo da quale dei due fuggire, temendoli entrambi; 3) un cane, trovandosi tra due daini, non riuscirebbe a scegliere quale dei due cacciare per primo. Nel primo esempio l'autore usa l'uomo dotato di ragione, negli altri due invece degli animali. Il primo è decisamente il più particolare, richiama infatti al famoso paradosso dell'asino di Buridano, il quale racconta la stessa scena ma con un asino per protagonista. Difficile pensare che Dante abbia tratto ispirazione dal filosofo, dato che nell'anno della composizione della Commedia questi era probabilmente poco più di un ragazzo. Bisogna però dire che anche l'attribuzione della paternità del paradosso dell'asino a Buridano è molto dubbia, infatti nei suoi scritti di questa storia non c'è traccia.
Bloccato dal dubbio, Dante non parla, ma sul suo viso sono dipinte le domande che lo tormentano con un calore superiore a quello che avrebbero potuto esprimere le parole. Beatrice, che può leggere i pensieri del suo protetto, fa come fece Daniele con Nabucodonosor. Il riferimento dell'autore è all'episodio biblico che narra come Daniele riuscì a interpretare un sogno del re babilonese Nabucodonosor, placando la sua ira e impedendo che uccidesse tutti i sapienti di Babilonia. Beatrice perciò risponde direttamente al poeta, non aspettando che egli chieda e scegliendo per lui l'ordine delle risposte. Prima di tutto, spiega lei, Dante si chiede come possa la violenza subita far diminuire il merito dell'anima anche se questa è rimasta fedele al suo buon proposito; la seconda questione invece riguarda la collocazione delle anime, infatti il poeta, trovando quelle nel primo cielo e credendo che dimorino lì stabilmente, crede confermata la teoria platonica (espressa nel Timeo) secondo cui le anime dimorano nelle stelle prima di incarnarsi e nelle stelle ritornano dopo la morte ("Tu argomenti: "Se 'l buon voler dura, / la violenza altrui per qual ragione / di meritar mi scema la misura?". / Ancor di dubitar ti dà cagione / parer tornarsi l'anime a le stelle, / secondo la sentenza di Platone"). Queste sono le domande che con uguale intensità tormentano il poeta, lei dichiara che risponderà prima a quella più velenosa (usa felle, dal latino fel, "fiele"), cioè la più pericolosa sul piano dottrinale.
La prima risposta di Beatrice arriva sulla locazione delle anime, quindi sfata la teoria platonica. Spiega che tutte le creature beate dimorano nell'Empireo dove sono anche i Serafini, Mosè, Samuele, Giovanni Battista e la Vergine Maria: stanno tutte nello stesso luogo e senza distinzioni temporali ("D'i Serafin colui che più s'india, / Moisè, Samuel, e quel Giovanni / che prender vuoli, io dico, non Maria, / non hanno in altro cielo i loro scanni / che questi spiriti che mo t'appariro, / né hanno a l'esser lor più o meno anni"). Tutte le anime vedono Dio, ma la dolcezza della visione è proporzionale ai loro meriti. Se le anime ora al cospetto di Dante sono nel primo cielo non è perché dimorino lì, ma per mostrargli la minore pienezza della loro beatitudine. Spiega Beatrice che è necessario parlare così allo spirito umano, che è abituato a comprendere soltanto le cose del mondo sensibile, ed è per questo che nelle Scritture sono attribuiti caratteri umani a Dio, e per lo stesso motivo la Chiesa rappresenta con fattezze umane gli arcangeli Gabriele, Michele e Raffaele ("l'altro che Tobia rifece sano"). L'argomentazione di Platone nel Timeo, dice ancora, è lontana dall'effettiva realtà del Paradiso, perché sostiene che l'anima torni alla sua stella dopo la morte, intendendo che questa sia già assegnata per natura prima della nascita di una persona. Beatrice però ammette come possibile che il pensiero platonico sia stato erroneamente preso alla lettera, che in realtà il filosofo potrebbe anche aver usato una metafora; a questo punto Platone potrebbe non aver sbagliato completamente, volendo semplicemente attribuire alle sfere celesti le influenze sulle anime che effettivamente hanno. Questa dottrina male interpretata, conclude Beatrice, ha portato fuori strada quasi tutto il mondo antico (si esclude solo il popolo d'Israele), per questo agli astri furono attribuiti i nomi delle divinità.
Terminata la prima spiegazione, Beatrice passa a chiarire il secondo dubbio, il quale è meno velenoso perché non può allontanare Dante da lei, cioè dalla teologia ("L'altra dubitazion che ti commove / ha men velen, però che sua malizia / non ti poria menar da me altrove"). Spiega che il fatto che la giustizia divina possa sembrare iniqua è argomento di fede e non motivo d'eresia, cioè l'uomo non dovrebbe ergersi a giudice del volere divino; ma siccome l'intelletto umano può comprendere questa verità, si offre di fornirla al poeta ("Parere ingiusta la nostra giustizia / ne li occhi de' mortali, è argomento / di fede e non d'eretica nequizia. / Ma perché puote vostro accorgimento / ben penetrare a questa veritate, / come disiri, ti farò contento"). La violenza è tale quando la volontà di chi la subisce non collabora con quella di chi la compie, perciò le anime del primo cielo non possono essere scusate; la volontà, se non vuole piegarsi, fa come il fuoco che, per quanto possa essere forzato dal vento, torna sempre a tendere verso l'alto come la sua natura vuole. Se le anime del primo cielo avessero avuto volontà salda, come quella che tenne san Lorenzo sulla graticola o come quella che spinse Muzio Scevola a bruciarsi la mano che aveva fallito nel suo intento (quello di uccidere il re etrusco Porsenna), sarebbero tornate al chiostro non appena liberate dalla costrizione fisica ("come fuoro sciolte"); esse non lo fecero perché una voglia così salda è troppo rara. Grazie a queste parole, conclude Beatrice, è cancellato il dubbio che avrebbe danneggiato Dante altre volte, se egli le ha bene intese.
Beatrice sente che la sua spiegazione ha fatto nascere un nuovo dubbio e nuovamente gioca d'anticipo, rispondendo direttamente senza aspettare che gli venga posta alcuna domanda. Si tratta di un dubbio che lui mai potrebbe risolvere col proprio intelletto ("Ma or ti s'attraversa un altro passo / dinanzi a li occhi, tal, che per te stesso / non usciresti, pria saresti lasso"). Lei aveva detto al poeta che le anime beate non possono mentire, poiché conoscono Dio che è la prima verità; però lui aveva poi sentito dire a Piccarda Donati che Costanza col cuore non violò il suo voto, cosa che sembra contraddire ciò che lei ha detto prima circa la volontà non ferma delle anime del primo cielo. Molte volte, spiega, per fuggire a un male maggiore si sceglie di compierne uno minore; come Alcmeone che, per pietà del padre Anfiarao, uccise la madre, mancando quindi della stessa pietà per lei. Deve sapere Dante che la forza si mischia alla volontà, facendo in modo che le offese non siano giustificate in nessun modo; la volontà assoluta perciò non si piega mai alla violenza subita, ma c'è la volontà relativa, quella a cui si riferiva Piccarda, che a volte lo fa per evitare di subire un male maggiore. Beatrice e Piccarda hanno detto due cose differenti, ma nessuna delle due ha mentito: la seconda parlava di volontà assoluta, quella per cui Costanza nel cuore non lasciò mai i voti, la prima invece di quella relativa, che la spinse a non tornare più al convento.
Il fluire abbondante del fiume santo sgorgato dalla fonte da cui deriva ogni verità, perché le parole di Beatrice derivano da Dio, ha risolto i due dubbi del poeta ("Cotal fu l'ondeggiar del santo rio / ch'uscì del fonte ond'ogne ver deriva; / tal pose in pace uno e altro disio"). A questo punto, Dante si rivolge a Beatrice chiamandola amante del Primo Amante (quindi di Dio), le cui parole lo inondano e lo scaldano al punto di ravvivarlo sempre di più, poi le dice che il suo sentimento non è abbastanza intenso per ringraziarla delle sue spiegazioni, confida perciò che sarà Dio a farlo per lui. Dice poi che vede come l'intelletto umano si sazi solo se illuminato da quella verità al di fuori della quale nessun'altra può esistere; non appena l'ha raggiunta, e può farlo, altrimenti ogni desiderio sarebbe vano, in quella verità riposa come una belva nella sua tana. Per questo desiderio, ai piedi della conoscenza nasce come un germoglio il dubbio, e la natura spinge l'uomo di altura in altura fino a raggiungere la vetta di sapere più alta. Questa consapevolezza che ora il poeta ha espresso, lo spinge a chiedere senza timore un'altra spiegazione. Chiede se l'uomo possa soddisfare i voti a cui è venuto meno con altri beni che non appaiano piccoli sulla bilancia della giustizia divina ("Io vo' saper se l'om può soddisfarvi / ai voti manchi sì con altri beni, / ch'a la vostra statera non sien parvi"). Beatrice guarda negli occhi Dante, mostrando i suoi pieni di un divino fuoco d'amore, tanto intenso da costringere il poeta a smettere di guardarla ("Beatrice mi guardò con li occhi pieni / di faville d'amor così divini, / che, vinta, mia virtute diè le reni, / e quasi mi perdei con li occhi chini").

Il canto si conclude così, con la domanda di Dante in attesa di risposta e la descrizione dell'insostenibilità dello sguardo di Beatrice. Questi ultimi versi servono da introduzione al canto successivo, dove appunto si tratterà sia dell'impossibilità del poeta di guardare negli occhi l'amata, che della commutabilità dei voti sacri. 

Francesco Abate

   

giovedì 11 luglio 2019

RECENSIONE DEL ROMANZO "UNA PACE PERFETTA" DI AMOS OZ

Una Pace Perfetta è un romanzo dello scrittore Amos Oz pubblicato nel 1982, ma arrivato in Italia solo nel 2009.
Si tratta di un'opera in cui l'autore analizza contemporaneamente l'animo umano e la struttura sociale in cui è inserito; non ci mostra soltanto le dinamiche interne allo spirito di un uomo, ma anche l'influenza che l'ambiente esterno ha su di esso, nonché l'influenza che lo spirito di un singolo può esercitare sull'intera società.

La storia raccontata in Una Pace Perfetta si svolge nel kibbutz Granot e vede come protagonista principale il giovane Yonatan, figlio del segretario del kibbutz Yolek e marito di Rimona. Yoni, così viene affettuosamente chiamato dalla moglie, è stanco della vita confinata nel kibbutz e sogna di andar via, senza però trovare mai il coraggio di concretizzare il suo proposito.
La vita dell'intero kibbutz viene sconvolta dall'improvviso arrivo del giovane Azariah, un ragazzo del cui passato non si sa nulla, che si rivela tremendamente logorroico e molto idealista. Yonatan e Azariah vengono subito a contatto, scelti da Yolek per lavorare insieme in un'autorimessa, e stringono amicizia. Il giovane si innamora della moglie di Yonatan il quale, a lei non interessato e deciso a mollare tutto, lascia che i due si uniscano nel suo stesso letto, creando grande scandalo nel kibbutz.
Alla fine Yoni trova il coraggio di fuggire, distruggendo la vita dei genitori, in special modo quella del già deluso Yolek, e creando ulteriore scompiglio nel kibbutz.

Una Pace Perfetta è un analisi dell'uomo, della vita all'interno dei kibbutz, e degli effetti delle interazioni tra questi due elementi.
Prima di tutto bisogna spiegare cos'è un kibbutz. Si tratta di strutture, ancora oggi esistenti, in cui gli abitanti vivono secondo l'ideale socialista, lavorando per la collettività e ricevendo tutto il necessario per vivere direttamente dall'amministrazione. Le case sono comuni e assegnate in base alla composizione del nucleo familiare, gli attrezzi da lavoro sono di proprietà comune, i pasti principali si svolgono in refettori dove tutti i compagni mangiano insieme. Come in tutte le società, gli abitanti del kibbutz sono tenuti a rispettare delle regole comuni.
Attraverso Yolek, il segretario del kibbutz nonché uno dei fondatori di queste strutture, e suo figlio Yonatan, Oz ci mostra il fallimento del sogno socialista israeliano. Il paese al di fuori del kibbutz è esattamente come le potenze capitaliste, mentre all'interno non sembra realizzata quell'isola felice che avrebbe dovuto garantire giustizia e soddisfazione a tutti gli abitanti. Le regole del kibbutz stanno strette all'individuo, ne delimitano l'esistenza entro confini troppo stretti e lo rendono inquieto e infelice. Tanto è disabituato Yonatan a una libera esistenza, che sente di voler andar via ma non riesce neanche a decidersi per fare cosa; così la sua voglia di libertà si muta in una drammatica ricerca dell'autodistruzione. A fare da contraltare alle inquietudini di Yolek e Yonatan ci pensa Azariah, il quale incarna invece l'idealismo dei socialisti israeliani, che proprio nel kibbutz vedono ancora l'unica possibilità di vivere in una società giusta.

Il romanzo si svolge quasi totalmente all'interno del kibbutz, a eccezione delle pagine dedicate alla fuga di Yoni, e i personaggi principali si trovano tutti lì.
Yonatan, il protagonista, sente il peso di una vita monotona e inconcludente. Non sopporta più le regole del kibbutz, non ama più sua moglie Rimona e nemmeno i suoi genitori. Medita la fuga e per questo non si impegna più nelle attività lavorative a cui viene destinato. Si trova a stretto contatto con Azariah e lascia che questi intrattenga una relazione amorosa con Rimona, non preoccupandosi nemmeno dello scandalo che investe tutti e tre nel kibbutz. Ha voglia di fuggire dalla vita monotona e restrittiva che vive, ma non ha ben chiara la destinazione della sua fuga, è un'idea indefinita nata in una mente priva della conoscenza del mondo esterno. Questa indeterminatezza delle sue intenzioni lo porta prima a rimandare di continuo la fuga e poi, quando finalmente attua il suo proposito, lo porta a prendere la strada dell'autodistruzione; totalmente impreparato alla vita, preferisce scegliere la morte. L'esito finale della sua fuga è poi un'ennesima manifestazione della sua assoluta passività e incapacità d'agire, infatti la sua vicenda si conclude non in un modo scelto da lui, ma come vuole il caso.
Azariah, benché entri in scena in un secondo momento, è secondo me un personaggio importante al pari di Yonatan. In un certo senso, il giovane idealista che piomba nel kibbutz una notte d'inverno è l'esatto opposto del protagonista. Si tratta di un ragazzo pieno di ideali, la cui concreta realizzazione vede proprio nel kibbutz, pieno d'entusiasmo e innamorato pazzo di Rimona. Azariah compie il cammino inverso rispetto a quello di Yonatan: lui arriva quando l'amico se ne va, si innamora della donna di cui lui non è innamorato, crede in quello che l'altro rinnega. Nonostante sia agli antipodi di Yoni, Azariah è l'unico a comprendere i motivi della sua fuga e non fa nulla per ostacolarlo.   
Rimona è la moglie di Yonatan e in un secondo tempo diventa anche compagna di Azariah. Si tratta di una donna non innamorata, bensì devota. Non contraddice mai il suo Yoni, lo riempie di premure e mai fa o dice qualcosa che possa contrariarlo, in lei c'è più la devozione della serva che l'amore della moglie. Non particolarmente intelligente, è segnata dalla perdita della figlia. Non si oppone neanche al progetto del marito di abbandonarla, non ne capisce davvero le motivazioni, ma lo accetta passivamente come fa con ogni cosa. 
Yolek, padre di Yonatan e segretario del kibbutz Granot, è un altro personaggio fondamentale. Attraverso lui viene evidenziata principalmente l'analisi sociale fatta da Oz nel romanzo. Coi suoi occhi vediamo la disillusione di chi ha lottato per creare i kibbutz, dei paradisi socialisti, e vede i giovani che li abitano ormai completamente disamorati. Si tratta di una delle figure più tragiche del romanzo, vede infatti sbriciolarsi davanti ai suoi occhi il suo paese, il suo kibbutz, e la sua stessa famiglia quando Yonatan va via senza dir nulla.
Un personaggio che prende la scena nella parte finale del romanzo è Shrulik, il quale viene eletto segretario del kibbutz al posto di Yolek. Si tratta di un uomo senza famiglia e senza una particolare passione politica, ma ricopre un ruolo fondamentale perché le sue riflessioni, contenute in un taccuino su cui scrive ogni sera, ci permettono di cogliere il messaggio finale del romanzo.

Una Pace Perfetta è un romanzo sull'uomo e sulla società, e si conclude lanciando un messaggio importante. Per farlo, l'autore si avvale delle riflessioni trascritte da Shrulik.
La vita è piena di dolore e di morte, l'uomo è corrotto da una tendenza all'autodistruzione e dall'ambizione. Spesso si è tentati di pensare, di fronte a questa evidenza, che l'essere umano sia destinato all'infelicità. Eppure la vita stessa ci mostra di continuo come, nonostante tutte le brutture e le storture, si riesca ad andare avanti.
Il romanzo si conclude con la vita del kibbutz che, dopo gli sconvolgimenti legati alla fuga di Yonatan e alla guerra dei Sei Giorni, torna alla normalità. Tutto si sistema quasi automaticamente, come se l'intera esistenza tendesse a un ordine e riuscisse a ritornarvi da sola una volta calata l'intensità degli eventi avversi. Succede di tutto, ma alla fine tutto torna come prima.

Il romanzo Una Pace Perfetta è una di quelle letture che consiglio, perché riesce a dare tanto pur essendo semplice. Il linguaggio che usa Oz è di facile lettura, la narrazione non diventa mai noiosa e anche quando l'autore sceglie di affidarsi alla tecnica del flusso di pensieri, che è molto insidiosa, riesce a mantenere l'attenzione del lettore. Di Oz, che ho scoperto con questo romanzo, ho apprezzato molto le descrizioni dei paesaggi; ha la capacità di farli vedere e farli respirare.
La trama rende il romanzo godibile e degni di nota sono i personaggi, i quali sono ben delineati e non lasciano mai indifferente il lettore. Perfino Rimona, che è una donna senza carattere e priva d'iniziativa, a me ha suscitato simpatia, tenerezza e a tratti un po' di pena. 
Ottima a mio modo di vedere anche la scelta dell'autore di non addentrarsi troppo nei dettagli storici. La vicenda si svolge durante la crisi politica che portò alla guerra dei Sei Giorni. Continuamente nelle ansie di alcuni personaggi, nei discorsi e nei giornali-radio, percepiamo gli eventi drammatici che degenerano sempre più, ma mai si arriva a una descrizione particolarmente dettagliata, così la narrazione non si appesantisce pur venendo temporalmente collocata.
Una Pace Perfetta è a mio modo di vedere un ottimo libro che andrebbe assolutamente letto.

Francesco Abate

sabato 6 luglio 2019

COMMENTO AL CANTO III DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Quel sol che pria d'amor mi scaldò ' petto,
di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva' il capo a proferer più erto;
ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Il canto II della Divina Commedia si è chiuso con la spiegazione di Beatrice sulle differenze di luminosità degli astri. Il canto III comincia con il poeta che alza lo sguardo per dirle di aver compreso il suo errore e l'effettiva realtà delle cose, ma una visione attira la sua attenzione e gli fa dimenticare il suo proposito. Meritano attenzione i primi tre versi. In essi ritroviamo una visione umana di Beatrice, infatti l'autore la descrive come il sole che gli aveva scaldato d'amore il petto, quindi in questo momento trionfa l'immagine della donna amata su quella della teologia. Importante è anche notare come i versi descrivano la comprensione della verità, il dolce aspetto, come una lotta, infatti i verbi provando e riprovando ci danno l'idea di un'impresa ardua che ha impegnato la dolce Beatrice con tutte le sue forze; i due verbi sono inoltre riferiti alle due fasi dell'argomentazione di Beatrice, che prima ha solo esposto la teoria e poi ha confutato le idee di Dante e le sue potenziali obiezioni.
Ad attirare l'attenzione di Dante sono dei volti umani. Questi presentano lineamenti attenuati, simili a un'immagine riflessa da un vetro diafano e terso, o da uno specchio d'acqua limpido e poco profondo, i quali hanno contorni meno definiti di quelli d'una perla su una fronte bianca. Vedendo queste facce così indefinite, il poeta commette l'errore opposto a quello di Narciso: mentre il personaggio mitologico si innamorò del proprio riflesso scambiandolo per una persona vera, lui invece scambia le persone per semplici riflessi ("Quali per vetri trasparenti e tersi, / o ver per acque nitide e tranquille, / non sì profonde che i fondi sien persi, / tornan de' nostri visi le postille / debili sì, che perla in bianca fronte / non vien men forte a le nostre pupille; / tali vid'io più facce a parlar pronte; / per ch'io dentro a l'error contrario corsi / a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte"). Credendo perciò che siano solo riflessi, Dante si volta per vedere le immagini reali di quelle persone, ma non vede nulla. Capito l'errore, guarda negli occhi Beatrice, la quale sorride ardendo nei suoi santi occhi. La guida gli dice di non meravigliarsi di quel sorriso, è causato dal suo pensiero puerile (pueril coto, con coto che deriva dal latino cogitatum) che non è ancora sicuro in presenza del vero e lo fa girare a vuoto; gli spiega poi che quelle sono anime reali, relegate nel primo cielo perché venute meno ai voti, infine lo sprona a parlare con loro e a credere a tutto ciò che udirà, esse infatti sono nella grazia di Dio e non possono mai mentire.
Dante, confuso dalla troppa voglia, si rivolge all'anima che sembra più desiderosa di parlare. Si rivolge a lei chiamandola ben creato spirito, ella è infatti un'anima che ha conseguito il fine per cui è stata creata, che gode della dolcezza dei raggi di vita eterna, la quale non può essere compresa se non provata, e le chiede il nome e la sua storia. Lei, pronta e con gli occhi ridenti, prima gli fa una premessa, spiegando che la carità delle anime del Paradiso non nega mai il soddisfacimento di un giusto desiderio, come giusto è quello di Dio che vuole tutti i suoi beati simili a sé, poi risponde alle sue richieste: fu suora di clausura e, anche se qui nella sua forma di anima beata è più bella, lui può riconoscerla e scoprire che è Piccarda Donati (sorella di Forese e Corso Donati); spiega poi che i sentimenti dei beati, che sono infiammati solo dal piacere di Dio, rendono loro felici di trovarsi in questo cielo, dove sono collocati perché in qualche modo vennero meno ai loro voti. Sentita la risposta, Dante constata come nell'aspetto dei beati risplenda qualcosa di divino che li rende diversi dalle loro immagini terrene, per questo non aveva subito riconosciuto Piccarda ("non fui a rimembrar festino") ma ora, grazie alle sue parole, è riuscito a riconoscerla ("raffigurar m'è più latino"); detto ciò, le chiede se qui le anime sono felici o se hanno il desiderio di stare nei cieli più alti ed essere più vicini a Dio. Insieme alle altre anime, Piccarda dapprima sorride, poi risponde con una letizia che la fa apparire ardente del primo amore di Dio (alcuni critici nell'espressione "ch'arder parea d'amor nel primo foco" hanno visto un riferimento al primo amore terreno). L'anima spiega che l'amore di Dio appaga la loro volontà, per questo vogliono solo ciò che hanno; se così non fosse, sarebbero discordi i loro desideri con quelli di Dio e questo non accade mai nel Paradiso, sia perché l'amore di Dio è necessario alle anime sia perché la natura del Paradiso esige la beatitudine, escludendo perciò discordia e malcontento; alla beatitudine è essenziale contenere la propria volontà nei limiti del divino volere, per questo tutte le anime si uniscono in un'unica volontà e la loro disposizione nel Paradiso piace a tutto il Regno così come piace a Dio; conclude il discorso spiegando che la volontà divina è la loro pace, è quel mare verso cui scorre tutto ciò che ha creato direttamente o per mezzo della natura ("E 'n sua volontade è nostra pace: / ell'è quel mare al qual tutto si move / ciò ch'ella cria e che natura face").
Sentite le parole di Piccarda Donati, Dante capisce che in ogni cielo è Paradiso, benché la grazia divina non scenda sulle anime in eguale misura ("Chiaro mi fu allor come ogne dove / in cielo è paradiso, etsi la grazia / del sommo ben d'un modo non vi piove"). Adesso però, come quando si è sazi di un cibo e si ha fame di un altro, così per uno si ringrazia e dell'altro si chiede, il poeta ringrazia Piccarda della spiegazione e le chiede quale fu la spola che non trasse completamente, cioè a quale voto venne meno. Lei spiega che nel cielo più alto è collocata una donna, santa Chiara d'Assisi, la quale ha fondato un ordine per la cui regola si diventa spose di Cristo e si fa voto di castità; lei fuggì ed entrò nel suo ordine, quello delle Clarisse, ma degli uomini, soliti fare più il male che il bene, la rapirono. Piccarda non racconta il seguito della storia, si limita a dire che Dio sa quale fu la sua vita. Le notizie biografiche raccontano che a rapirla fu stesso il fratello Corso insieme a Rossellino della Tosa, a cui era stata promessa in sposa prima dell'entrata in convento, e fu costretta a sposarsi. Una suggestiva leggenda francescana, mai accolta da Dante e forse a lui posteriore, racconta che lei si ammalò di lebbra dopo le nozze e riuscì a morire conservando la propria verginità. 
Dopo aver raccontato la sua storia, Piccarda indica una donna alla sua destra, descrivendola come uno splendore che si accende di tutta la luce del loro cielo, che ha vissuto lo stesso dramma: fattasi suora, fu rapita e costretta a sposarsi e violare il proprio voto. Una volta riportata a forza nel mondo, fu costretta a violare i voti, ma col cuore riuscì a rimanere fedele alla regola. L'anima è di Costanza d'Altavilla, che fu sposa di Arrigo VI di Svevia e con lui generò Federico II. Riferendosi ai due imperatori, Piccarda li definisce il secondo e il terzo vento, probabilmente questo per definirne l'impetuosità e le vicende tempestose dei loro regni. Circa la descrizione di Piccarda, c'è da fare una precisazione: le notizie storiche parlano di una vita ritirata di Costanza nei conventi palermitani fino ai trent'anni, ma non è certo che fosse una suora.
Finito di parlare di Costanza, Piccarda inizia a cantare un'Ave Maria e va via, svanendo come un oggetto pesante che affonda nell'acqua scura. Dante con lo sguardo la segue finché può, poi lo volge al principale oggetto del suo amore, Beatrice, ma tanto lei è splendente da folgorarlo e costringerlo a distoglierlo, rendendolo perciò più restìo a domandare.

Francesco Abate