domenica 5 novembre 2017

COMMENTO AL CANTO III DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

"PER ME SI VA NELLA CITTA' DOLENTE, 
PER ME SI VA NELL'ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA E 'L PRIMO AMORE.
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNA DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH'INTRATE".
Con queste parole si apre il canto III dell'Inferno. Dante le legge sulla sommità della porta dell'Inferno e non sono altro che una breve ma efficace descrizione di cosa sia il regno di Lucifero. La scritta sottolinea la natura delle anime che varcano quella soglia (la "perduta gente") e l'eternità della pena che spetta loro. Essa rivela però molto di più, spiegando che l'eterna punizione non è un atto di vendetta, bensì di giustizia. Proprio la giustizia spinse Dio a creare l'Inferno, il luogo dove le anime perdute subiscono supplizi per l'eternità. Nulla è antecedente alla creazione dell'Inferno, se non le cose eterne, quindi tutto ciò che riguarda il mondo sensibile è stato creato dopo. La scritta si conclude con un terribile monito, chiunque entra all'Inferno infatti non può sperare in nulla perché la pena è eterna.
Dante non comprende il significato delle terribili parole che legge, esse infatti rivelano una verità ultraterrena che difficilmente può essere compresa dalla mente imperfetta di un essere umano. Virgilio gli spiega che dovrà abbandonare timori e viltà, dovrà affidarsi a conoscenza e fede senza titubare per non perdersi nel complesso viaggio che sta intraprendendo. Gli spiega poi che vedrà coloro "c'hanno perduto il ben de l'intelletto", cioè le anime che mai potranno vedere la verità ultima, che è Dio. Virgilio poi prende una mano a Dante, confermandosi nel ruolo di guida sicura e amorevole allo stesso tempo, così entrano nel luogo che la ragione senza la rivelazione non può conoscere.
Subito Dante si trova immerso in un'atmosfera terribile, in una tenebra priva di stelle e qualsiasi altra fonte di luce. La tenebra di cui parla il poeta si giustifica facilmente col fatto che egli è penetrato nelle viscere della Terra, ma allo stesso tempo simboleggia il tormento morale che attanaglia l'anima lontana dalla luce di Dio. Si trova di colpo immerso nel dolore eterno promesso dalla porta, dove riecheggiano "sospiri, pianti e altri guai".
Nel dialogo che segue tra Dante e Virgilio, scopriamo che essi sono al cospetto della prima schiera di peccatori: gli ignavi. Si tratta di coloro che in vita mai presero una posizione, non furono né buoni né cattivi, non si schierarono né dalla parte del bene né da quella del male. Il loro peccato è tanto odioso da collocarli lontano dal Paradiso e allo stesso tempo fuori dall'Inferno, essi hanno dignità inferiore a quella di qualsiasi altro dannato. Virgilio spiega che con loro sono collocati quegli angeli che non si schierarono né con Lucifero né contro di lui, rimasero dubbiosi e neutrali. Questi angeli non sono voluti dal Paradiso, che ospitandoli rovinerebbe la sua bellezza, e nemmeno sono cacciati all'Inferno. Gli ignavi si lamentano perché consapevoli che la loro pena non finirà mai, inoltre a loro non è concessa neanche la speranza di essere ricordati sulla Terra. Nei prossimi canti vedremo come per i dannati sia di gran conforto la speranza di essere ricordati tra i vivi. Gli ignavi però, non avendo mai preso posizione ed essendo costati tanto a molti per la loro passività, non potranno essere ricordati, quindi a loro non spetta neanche questa misera speranza. Lo stesso Virgilio li disprezza, dicendo a Dante: "non ragioniam di loro, ma guarda e passa". Per la guida di Dante, parlare di gente del genere è inutile ed equivale ad una perdita di tempo. Dante nei prossimo canti parlerà con molti dannati, ma ora non si ferma un istante con nessuno degli ignavi. Qui è ben chiara la visione politica dell'autore: restare fuori dalle dispute politico-religiose è peccato ben più grave che schierarsi dalla parte sbagliata.
Attraverso gli occhi di Dante, possiamo osservare la pena che spetta agli ignavi. Si tratta di un contrappasso per contrapposizione, cioè di una pena che contrasta col peccato che li ha dannati. Le anime di coloro che mai si schierarono in vita sono costrette a correre dietro un vessillo per l'eternità, tormentate da mosche e vespe, calpestando sotto i piedi dei vermi che rappresentano la viltà che dominò i loro cuori durante l'esistenza terrena.   
Pur non parlando con nessuno, Dante riconosce un personaggio nell'immensa schiera di anime. Si tratta di Celestino V, il papa che lui descrive come colui "che fece per viltade il gran rifiuto". Pietro di Morrone fu eletto papa Celestino V nel 1294 e abdicò appena cinque mesi dopo, ecco qual è il gran rifiuto a cui Dante fa riferimento. Il poeta classifica l'atto di rinuncia del pontefice come manifestazione di viltà, mostrandosi particolarmente severo nel giudizio, forse anche perché l'abdicazione portò all'elezione di Bonifacio VIII, papa con cui ebbe grossi attriti. Francesco Petrarca fu molto meno drastico e motivò l'atto di Celestino V con la sua vocazione solitaria e contemplativa. In effetti Pietro di Morrone, prima di essere eletto papa a 79 anni, fu eremita sul monte Morrone e sulla Maiella. Essere papa a quell'epoca voleva dire guidare un potente regno coinvolto in numerose dispute sia politiche che religiose, non dovrebbe sorprendere che un eremita quasi ottantenne non si ritenne all'altezza del compito. Oggi probabilmente elogeremmo l'onestà di un religioso che rifiuta il ruolo di guida politica per continuare a seguire la sua vocazione, ammettendo di fatto di non sentirsi in grado di affrontare determinate sfide, ma all'epoca le idee politico-religiose erano differenti.
Dopo aver dato una veloce occhiata agli ignavi, che non meritano di più, Dante e Virgilio arrivano sulla riva dell'Acheronte. Il nome del fiume deriva dal greco e significa "fiume del dolore", è il corso d'acqua più grande dell'Inferno perché circonda interamente il primo cerchio. Le anime destinate all'Inferno, spiega Virgilio, si accalcano sulla riva di quel fiume fangoso e torbido (come le anime stesse) per essere condotte nel luogo della loro pena. Essendo l'eterno supplizio frutto di un atto di giustizia divina, le anime, che bestemmiano contro sé stesse, desiderano espiare la loro condanna, come se volessero vendicarsi contro sé stesse delle loro mancanze verso Dio.
Sull'Acheronte i poeti incontrano Caronte, colui che naviga e porta le anime da una riva all'altra. Costui svolge con sadica furia il suo compito, ricordando alle anime che le condurrà all'eterno supplizio e intimandogli di abbandonare ogni speranza. Le anime tremano sentendo le sue parole e incassano i suoi colpi di remo quando non sono leste a salire nella sua barca. Quando si accorge che tra i defunti vi è un uomo vivo, gli intima di andar via e gli spiega che per chi è ancora nella grazia (Dante è comunque ancora vivo, in lui quindi vi è ancora la grazia di Dio) ci sono altre vie per accedere alla spiaggia del Purgatorio. A questo punto interviene Virgilio, il quale spiega che "vuolsi così colà dove di puote / ciò che si vuole" e gli intima di non fare più domande. 
Dopo la visione del crudele Caronte che percuote le anime per farle salire in barca, il canto si conclude con un violentissimo terremoto che porta Dante allo svenimento. Questa perdita di sensi porta il poeta a non vedere, e quindi a non spiegarci, come supera l'Acheronte. L'ipotesi più ovvia è che egli, svenuto, sia imbarcato con Virgilio sulla barca di Caronte. Nei canti seguenti però vedremo che spesso gli svenimenti e i sonni di Dante si accompagnano a eventi sovrannaturali, alcuni dei quali ne facilitano il cammino, quindi non è folle l'ipotesi che un intervento angelico conduca i due poeti al di là del fiume.

Francesco Abate

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