mercoledì 30 gennaio 2019

COMMENTO AL CANTO XVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Posto avea fine al suo ragionamento
l'alto dottore, e attento guardava
ne la mia vista s'io parea contento;
e io, cui nova sete ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: << Forse
lo troppo dimandar ch'io fo li grava >>.
Virgilio ha appena finito di spiegare a Dante la genesi del peccato e la struttura del Purgatorio, resta perciò a guardarlo per capire se è soddisfatto. L'allievo ha voglia di sapere altro, ma esita a domandare temendo di affaticarlo chiedendogli ulteriori chiarimenti circa un argomento così complesso. Come più volte ha affermato nei canti precedenti però, il poeta mantovano può vedere nei pensieri del suo protetto, capisce perciò che questi non chiede per timore e non perché sia appagato, quindi lo incita a domandargli tutto ciò che vuole. Dante dapprima dice al suo maestro quanto chiaramente comprenda sia le tesi che formula che le dimostrazioni che porta a loro sostegno, poi gli chiede di definire la natura dell'amore, principio di ogni virtù e ogni vizio ("Però ti prego, dolce padre caro, / che mi dimostri amore, a cui reduci / ogne buono operare e 'l suo contraro"). Si rivolge alla guida chiamandolo "padre caro", si pone quindi nei suoi confronti come il figlio che dev'essere educato, che attraverso il genitore deve conoscere l'universo che lo circonda. Non c'è perciò solo l'azione pedagogica del maestro in Virgilio, ma anche quella amorevole del padre. Conscio della complessità dell'argomento, il poeta mantovano lo invita ad ascoltare molto attentamente e a tenere vivo tutto il suo intelletto, dichiarando che gli dimostrerà l'errore di coloro i quali, pur essendo ciechi, si ergono a guide (riferimento agli epicurei). Spiega Virgilio che l'animo umano è creato con la naturale disposizione ad amare e ama ogni cosa sensibile che lo attrae con il piacere ("L'animo, ch'è creato ad amar presto, / a ogne cosa è mobile che piace, / tosto che dal piacere in atto è desto"); la facoltà conoscitiva dell'uomo trae l'immagine dalle cose reali e grazie alla fantasia la svolge, così da mostrarla all'anima, la quale verso essa si rivolge e, se si piega verso lei, quell'inclinazione è amore. Per rendere meglio il concetto, il maestro usa un paragone: così come il fuoco tende verso l'alto per cercare di ricongiungersi alla sfera celeste del fuoco, così l'anima umana tende verso l'oggetto desiderato e non smette finché a esso non si congiunge ("Poi, come 'l foco movesi in altura, / per la sua forma ch'è nata a salire / là dove più in sua matera dura, / così l'animo preso entra in disire, / ch'è moto spiritale, e mai non posa / fin che la cosa amata il fa gioire"). Diventa così evidente, conclude Virgilio, l'errore degli epicurei, i quali ritengono che ciascun amore sia buono: così come non tutti i sigilli lasciano una bella immagine solo perché la cera è buona, non tutti gli effetti dell'amore sono buoni solo perché l'amore in sé stesso è buono ("Or ti pote apparer quant'è nascosa / la veritate a la gente ch'avvera / ciascun amore in sé laudabil cosa; / però che forse appar la sua matera / sempre esser buona, ma non ciascun segno / è buono, ancor che buona sia la cera"). Dante risponde di aver capito la natura dell'amore, ma le parole del maestro hanno creato in lui un altro dubbio: se davvero l'amore sorge in noi a causa dell'influenza esterna dell'oggetto che imprime la propria immagine, quale può essere il merito o la colpevolezza dell'uomo nelle azioni che compie? Se tutto dipende da influenze esterne, ogni amore deriva solo dall'inclinazione dell'animo e non c'è alcuna azione volontaria umana, quindi un amore cattivo non può essergli imputato come colpa così come non ha meriti dei suoi amori buoni. Prima di rispondere a questa domanda, Virgilio fa una premessa: essendo il problema trattabile sia con argomenti filosofici, quindi con la ragione, che con argomenti teologici, con la fede, lui spiegherà solo la parte razionale mentre a quella teologica provvederà Beatrice più avanti. Il poeta mantovano spiega che ogni anima unita al corpo ha in sé una virtù specifica, la facoltà di intendere e di volere, che si manifesta solo attraverso le sue opere così come la vita della pianta si dimostra per le foglie verdi; l'uomo non sa da dove venga la conoscenza delle idee prime, che sono innate nell'essere umano così come nelle api è innato l'istinto di produrre il miele, e le opere generate da questa ragione innata non meritano né biasimo né lode; affinché ogni voglia si conformi a questa conoscenza delle idee prime, in noi è innata la ragione (la virtù che consiglia), la quale vigila su ogni nostra scelta e consenso, così a seconda che la ragione conduca l'uomo ad amori buoni o cattivi, nasce nello stesso il merito o la colpa; i filosofi antichi, riconoscendo la libertà nell'uomo, diedero all'umanità la dottrina morale; qualora negli uomini dovesse accendersi l'amore per ogni cosa, la ragione permetterebbe di scegliere quali respingere. Beatrice, conclude Virgilio, chiama questa nobile virtù "libero arbitrio", e invita Dante a ricordarsene qualora dovesse parlarne con lei.
La luna, sbucata quasi a mezzanotte, con la sua luce oscura le stelle e le fa sembrare più rade, si muove verso occidente, quindi verso il punto cardinale dove da Roma si deve guardare per vedere il sole tramontare tra la Sardegna e la Corsica ("e correa contra 'l ciel per quelle strade / che 'l sole infiamma allor che quel da Roma / tra ' Sardi e ' Corsi il vede quando cade"). L'autore constata come il suo maestro, Virgilio (colui che ha reso più famosa Pietole, la città di nascita, di Mantova), lo abbia sgravato del peso dei dubbi che lo assillavano ("del mio carcar disposta avea la soma"). Dante, dopo aver dispiegato tutta la sua ragione per accogliere le parole del maestro, è preso da una forte sonnolenza. La scelta del poeta di descrivere la discussione dei problemi inerenti l'amore come una fatica, facendola seguire subito da un'intensa sonnolenza, può avere il valore di espiazione del peccato di accidia: concentrando le sue facoltà intellettive per comprendere la verità sull'amore, si è purificato dalla pigrizia morale che gli vale una delle P incise sulla fronte. La sonnolenza viene però tolta a Dante dall'arrivo di una schiera di anime. Queste corrono come i Tebani correvano lungo i fiumi Ismeno e Asopo per invocare la protezione di Bacco. Subito le anime sono presso i due pellegrini, le due più avanti gridano esempi di sollecitudine: la Vergine Maria che, compiutosi il rito dell'Incarnazione, corse a visitare santa Elisabetta; Giulio Cesare che, terminato l'assedio di Marsiglia, andò subito in Spagna a sconfiggere le truppe pompeiane presso Lerida. Le altre anime, sentiti gli esempi di sollecitudine, gridano incitamenti alla corsa affinché faccia rifiorire in loro la grazia divina ("<< Ratto, ratto, che 'l tempo non si perda / per poco amor >>, gridavan li altri appresso, / << che studio di ben far grazia rinverda >>"). Virgilio si rivolge alle anime in corsa e chiede loro dove sia il punto da cui si possa salire alla cornice successiva non appena il sole sarà nuovamente sorto. Un'anima lo invita a seguirli, essi sono infatti così pieni della voglia di muoversi da non potersi fermare, si scusa perciò qualora dovesse ritenere il loro non fermarsi una scortesia. Dopo questa introduzione, l'anima si presenta: fu abate del monastero di san Zeno a Verona, ai tempi dell'imperatore Federico Barbarossa, il quale distrusse Milano ("di cui dolente ancor Milan ragiona"). L'abate rivela che presto un tale (il signore di Verona, Alberto della Scala) morirà (morì nel 1301, un anno dopo allo svolgimento del viaggio dantesco) e si pentirà di aver avuto il potere su quel monastero, perché vi ha posto il suo figlio illegittimo (Giuseppe), menomato nel corpo e nella mente, al posto dell'abate legittimo. 
L'anima dell'abate corre via e Dante non capisce se ancora parla o se ormai tace. Virgilio lo chiama e gli dice di prestare attenzione a due anime che si avvicinano "dando a l'accidia di morso", cioè elencando esempi del peccato di accidia. Le due anime citano due esempi: gli Ebrei che, stanchi della traversata del deserto dopo la fuga dall'Egitto, mormorarono contro Mosè e furono puniti non vedendo mai la terra promessa; i troiani al seguito di Enea che, stanchi del viaggio, restarono con Alceste in Sicilia e si negarono la gloria che avrebbero ottenuto partecipando alla nascita di Roma. 
Le anime tutte si allontanano, Dante vaga di pensiero in pensiero finché non si addormenta ("Poi quando fuor da noi tanto divise / quell'ombre, che veder più non potiersi, / novo pensiero dentro a me si mise; / del qual più altri nacquero e diversi; / e tanto d'uno in altro vaneggiai, / che li occhi per vaghezza ricopersi, / e 'l pensamento in sogno trasmutai").

Francesco Abate 

lunedì 21 gennaio 2019

COMMENTO AL CANTO XVII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Ricorditi, lettor, se mai ne l'alpe
ti colse la nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilmente entra per essi;
e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder com'io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era.
Il canto inizia con l'autore che si rivolge direttamente al lettore e, per fargli meglio comprendere ciò che lui vide, gli chiede di riportare alla mente un'esperienza diretta, qualora l'abbia vissuta, cioè quella del diradarsi sulla nebbia in montagna, quando i raggi del sole iniziano leggermente a farsi breccia tra il fumo. Dante vede il fumo diradarsi e inizia a rivedere la luce del sole che sta per tramontare. Seguendo il suo maestro, esce dal fumo e si ritrova all'ombra, perché il sole al tramonto non illumina la parte bassa della montagna. 
L'autore si rivolge stavolta alla fantasia ("O imaginativa"), la quale sottrae l'uomo alle cose che gli sono intorno, e si chiede chi sia a metterla in azione quando non è accesa dai sensi ("chi move te, se 'l senso non ti porge?"); si dà poi una risposta, a muoverla è infatti un lume che discende dal cielo o per sé stesso o per volere di Dio ("Moveti lume che nel ciel s'informa / per sé o per voler che giù lo scorge"). Questa riflessione sulla fantasia serve a introdurre i versi successivi, in cui nella mente di Dante prenderanno forma gli esempi di ira punita. La prima immagine che gli si forma nella mente è quella di Progne, che secondo la mitologia fu mutata in usignolo ("l'uccel ch'a cantar più si diletta") in quanto colpevole di aver ucciso il figlio e averlo dato in pasto al marito Tireo. Adesso la mente di Dante è immersa nelle visioni celesti e nulla può percepire di ciò che avviene all'esterno. La seconda fantasia gli mostra un uomo crocefisso, intorno a cui stanno Assuero, la moglie Ester e il giusto Mardocheo. Questa immagine fa riferimento all'episodio di Aman, ministro della corte di Assuero a Susa, il quale voleva giustiziare l'ebreo Mardocheo perché, per motivi religiosi, non aveva voluto genuflettersi davanti a lui com'era uso tra i Persiani, ma grazie alla regina Ester il piano fu sventato e Aman fu impiccato da re Assuero. La seconda immagine sparisce come una bolla d'aria formatasi nell'acqua una volta salita in superficie, così se ne forma una terza: una fanciulla piange e chiede alla madre perché si sia uccisa per non perderla, adesso l'ha persa comunque e l'ha lasciata a piangere la madre morta. L'episodio richiama la vicenda mitologica narrata nell'Eneide in cui la regina Amata, moglie del re Latino, si uccide credendo Turno ucciso da Enea e convinta quindi di dover dare la figlia Lavinia in sposa all'eroe troiano. Il pianto di Lavinia è un'aggiunta che Dante fa al mito virgiliano, la figlia si chiede che senso possa aver avuto il gesto della madre, suicidatasi per timore di perderla ha finito per perderla davvero. Non è un caso di ira punita, ma presenta comunque il danno causato a sé stessa e alla persona amata dalla caduta nel peccato.
Il sonno mistico di Dante è interrotto dall'apparizione di una luce più intensa di quella del sole. Il poeta si guarda intorno per capire dove si trovi, la voce dell'angelo lo distoglie da ogni altro pensiero e gli dice di salire. Sentendo la voce della creatura celeste, Dante è preso dalla fortissima voglia di vederlo e il suo è quel desiderio che nasce solo quando si è al cospetto di quel che si brama ("e fece la mia voglia tanto pronta / di riguardar chi era che parlava, / che mai non posa, se non si raffronta"). La vista del poeta però non può sostenere quella visione, così come non ci è possibile guardare il sole per via dell'intensa luce che emana. Virgilio spiega al suo protetto che questo è lo spirito divino che consente di salire alla quarta cornice senza essere pregato e con la sua luce nasconde sé stesso; fa con loro due quello che l'uomo fa con sé stesso, cioè esaudisce senza essere pregato, perché chi aspetta la preghiera per esaudire un desiderio tradisce già l'intenzione di rifiutare ("Sì fa con noi, come l'uom fa sego; / ché quale aspetta prego e l'uopo vede, / malignamente già si mette al nego"). Data la spiegazione, la guida invita il discepolo a salire prima che faccia buio, perché nel Purgatorio di notte non si può procedere. Insieme si avvicinano a una scala e cominciano a salire. Non appena Dante si trova sul primo gradino, sente l'angelo muovere le ali e fargli vento sul viso, poi lo sente esaltare i pacifici che non provano cattiva ira ("son sanz'ira mala"). L'espressione ira mala serve all'autore per fare una distinzione tra il peccato mortale e lo zelo, che fu quello di Gesù nel momento in cui scacciò i mercanti dal tempio di Gerusalemme. Questa distinzione tra ira e zelo fu sottolineata anche da san Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae.
Il sole è ormai tramontato e in più parti del cielo sono già apparse le stelle, Dante sente venir meno le forze e si chiede perché questo accada. Arrivati al termine della scala, restano fermi come una barca appena arrivata alla spiaggia. Il poeta resta un po' in silenzio, cercando di sentire se c'è qualcosa degno di nota poi, non sentendo nulla, si rivolge a Virgilio e gli chiede quale peccato sia punito in questa cornice. Il poeta mantovano spiega che qui sono puniti coloro che hanno amato il bene ma difettando in ardore, paragonando le anime della cornice al marinaio che per pigrizia è rimasto indietro e adesso si dà da fare col remo per recuperare. In pratica si purificano coloro che in vita non misero ardore nella bontà, quelli che furono pigri nello spirito, cioè gli accidiosi. La guida invita poi l'allievo a seguire bene il suo discorso, così da trarne un insegnamento. Virgilio spiega che nessun creatore e nessuna creatura può essere priva di amore, che sia amore istintivo (naturale) o d'elezione (d'animo), questo Dante lo deve sapere perché è contenuto nell'Etica di Aristotele, per questo la guida termina il periodo dicendogli "e tu 'l sai". L'amore istintivo non può sbagliare perché tende al proprio fine per inclinazione naturale, invece quello d'elezione può essere diretto verso un oggetto sbagliato ("puote errar per malo obietto"), oppure difettare o eccedere in vigore. Finché l'amore d'elezione è diretto a Dio ("è nel primo ben diretto") ed è misurato verso i beni terreni non può esserci peccato, ma quando si rivolge al male o non tende al bene con la giusta intensità, agisce contro il Creatore e così diventa peccato ("contra 'l fattore adovra sua fattura"). Quindi Dante può capire che dentro l'uomo c'è sia seme d'amore che del peccato. Virgilio spiega che non può un uomo odiare sé stesso perché l'amore non può non volere la conservazione del proprio soggetto; siccome ogni uomo è parte di Dio così come Dio è in ogni uomo, viene da sé che nessun uomo può odiare Dio. Essendo impossibile il male verso sé stessi e verso Dio, è evidente che l'unico a cui si possa fare male è il prossimo e può essere fatto in tre modi: sperando di essere più grandi del prossimo, quindi desiderando che questi decada in una peggiore condizione (superbia); bramando più d'ogni altra cosa onori e fama, quindi soffrendo delle fortune altrui per timore che oscurino le proprie (invidia); vendicandosi di ingiurie subite, causando così il male al prossimo (ira). I tre peccati appena citati sono puniti nelle cornici sottostanti. In questa cornice sono invece puniti coloro che diressero il proprio amore al bene, ma confusamente e con poco ardore: gli accidiosi. Nelle tre cornici sovrastanti si purificano invece i peccati di coloro che diressero il proprio amore in maniera esagerata alle cose terrene, le quali non danno la vera felicità perché solo Dio la dà. Virgilio non fornisce però ulteriori dettagli sulla divisione delle cornici superiori, invitando Dante ad arrivarci da solo ("ma come tripartito si ragiona, / tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi"). Il suo allievo ormai ha le conoscenze necessarie per dedurre che nelle cornici superiori sono puniti coloro che amarono troppo il denaro (avari), il cibo (golosi) e la carne (lussuriosi).

In questo canto l'autore ha chiarito definitivamente la struttura del Purgatorio e, più in generale, la natura del peccato. A ispirare la sua concezione del peccato fu san Tommaso d'Aquino, il quale li distingueva proprio in base all'oggetto e al vigore dell'amore. San Tommaso fu a sua volta ispirato da Aristotele.
Il ragionamento di Virgilio continuerà nel canto XVIII su richiesta di Dante e riguarderà la natura dell'amore. Questo canto e quello successivo vedono prevalere nettamente la funzione teologica, non sono di facile lettura ma sono fondamentali per la comprensione dell'aldilà dantesco.

Francesco Abate

mercoledì 16 gennaio 2019

COMMENTO AL CANTO XVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Buio d'inferno e di notte privata
d'ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant'esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo,
come quel fummo ch'ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l'occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s'accostò e l'omero m'offerse.
Il canto XV era terminato coi poeti avvolti nel denso fumo nella cornice degli iracondi. Questo canto inizia con due similitudini che ci permettono di avere un'idea precisa di questo fumo. Dante usa due tipi di similitudini, una ultraterrena e l'altra terrena: il buio dell'Inferno (che lui ha vissuto in prima persona) e quello di una notte priva di stelle non sono tanto oscuri quanto il fumo che li avvolge. Tanto è denso che l'occhio non riesce a restare aperto. Virgilio, la guida esperta e fidata, si rende conto della difficoltà patita dal suo protetto e gli offre la spalla a cui poggiarsi. L'autore procede come un cieco, appoggiato alla guida che gli raccomanda di non lasciarlo. Torna l'immagine dell'uomo cieco e della guida che lo accompagna attraverso le insidie; vediamo di nuovo l'importanza della ragione che, attraverso le virtù cardinali, porta l'uomo fuori dall'oscurità ("Sì come cieco va dietro a sua guida / per non smarrirsi e per non dar di cozzo / in cosa che 'l molesti, o forse ancida, / m'andava io per l'aere amaro e sozzo, / ascoltando il mio duca che diceva / pur: << Guarda che da me tu non sia mozzo >>"). Il poeta non vede, ma sente delle voci, ciascuna delle quali prega l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Gesù Cristo) affinché doni loro pace e misericordia. Non è un caso che le anime preghino per pace e misericordia, che si possono considerare due virtù opposte all'ira, che in sé racchiude violenza e condanna. Le voci intonano la formula dell'Agnus Dei ("Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo...") e sono così coordinate da dire ciascuna la stessa parola, tanto da sembrare che si fossero accordate tra loro. 
Dante chiede a Virgilio se le voci sono delle anime e questi gli risponde che sono gli spiriti che scontano lì il peccato d'ira. Il loro colloquio è interrotto da un'anima la quale chiede al poeta chi sia, esprimendo poi la sua sorpresa nel vederlo rompere il fumo con la sua presenza, nel sentirlo rivolgersi alle anime della cornice come se non ne facesse parte e come se misurasse il tempo ancora in mesi, cioè come se fosse ancora vivo. La guida esorta Dante a rispondere e chiedere se da quella parte si sale su alla prossima cornice. Il discepolo segue l'indicazione e invita l'anima, che sconta la sua pena per tornare pura al cospetto di Dio ("che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece"), a seguirlo così da udire cose meravigliose. Lo spirito risponde che lo seguirà fin quanto gli sarà lecito, non possono vedersi ma la voce permetterà loro di restare vicini. Dante spiega di essere ancora vivo, in possesso del corpo che la morte dissolverà ("quella fascia che la morte dissolve"), di essere arrivato lì passando per l'Inferno; data la spiegazione, invita l'interlocutore a presentarsi e a dirgli se è sulla strada giusta per salire, in nome del Dio che tanto amore prova per lui da concedergli di accedere al Paradiso in modo così insolito. L'anima dice di chiamarsi Marco e di essere stato Lombardo, ebbe profonda esperienza delle cose umane e amò le virtù che adesso nessuno più coltiva ("del mondo seppi, e quel valore amai / al quale ha or ciascun disteso l'arco"). Una volta presentatosi, Marco dice al poeta che continuando per quella strada arriverà alla cornice superiore, infine gli chiede di pregare per lui una volta che sarà in Paradiso. Sull'identità di Marco Lombardo non si hanno notizie certe. Per alcuni commentatori fu un uomo di corte originario della Lombardia, per altri Lombardo fu il cognome ed ebbe origini venete. Sulle origini vi sono notizie contrastanti, ma in tutte le storie antiche in cui compariva un Marco Lombardo o un "Marco lombardo", questi era uomo di corte. Per alcuni critici fu anche alla corte del conte Ugolino della Gherardesca a Pisa. Se sulle origini vi sono informazioni contrastanti, per tutti egli fu esempio di valore e saggezza.
Sentite le parole di Marco Lombardo, Dante si impegna con un giuramento a pregare per lui, poi gli manifesta un dubbio che già aveva e che ora, dopo averlo ascoltato, è raddoppiato ("Prima era scempio, e ora è fatto doppio / ne la sentenza tua..."): il mondo dei vivi è così privo di virtù e pieno di malizia, alcuni credono che a causare ciò siano i corpi celesti, altri la volontà umana, lui vorrebbe sapere dallo spirito che l'accompagna quale sia la verità. Marco Lombardo emette un profondo sospiro che a causa del dolore diventa un lamento ("Alto sospir, che duolo strinse in << uhi! >>"); soffre nell'affrontare la causa della sparizione delle virtù da lui tanto ammirate, ma non rifiuta di esprimere il suo giudizio. Prima di tutto afferma che il mondo è cieco così come il poeta: gli uomini vedono negli astri la causa di ogni cosa, ma se così fosse non esisterebbe il libero arbitrio e non si potrebbe giudicare un uomo per il bene o il male commesso. Dai cieli proviene solo l'impulso primo alle azioni umane, e non a tutte le azioni, ma se anche gli astri influenzassero ogni azione umana, l'uomo ha comunque la ragione che permette di discernere il bene dal male e il libero volere di scegliere tra questi; la battaglia per scegliere il bene è dura all'inizio, ma se intelletto e arbitrio sono ben nutriti si finisce per vincerla. L'uomo è libero schiavo della forza di Dio, schiavo perché non può liberarsene e libero perché tale forza non impone nulla, ma dona l'anima che permette di sfuggire all'influsso degli astri quando questo conduce al male. Se il mondo ha imboccato la strada della perdizione non è colpa dei corpi celesti, ma degli uomini. Marco Lombardo continua la spiegazione per passaggi logici, ma stavolta abbandona la rigidità schematica della prima parte e si lascia andare a un linguaggio più poetico ed evocativo. L'anima esce dalle mani di Dio priva di esperienza, semplice e incline a piegarsi a ciò che le procura piacere, si fa attrarre dalle lusinghe dei beni materiali e dietro questi corre senza la guida di una legge positiva e di un'autorità ("Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore"). Per guidare l'anima è perciò necessario avere una legge e un re che, se non capace di riconoscere Dio, può almeno riconoscerne la giustizia ("convenne rege aver, che discernesse / de la vera cittade almen la torre"). Le leggi ci sono, afferma, ma non c'è l'imperatore e per questo manca chi possa farle rispettare; il papa può fungere da guida spirituale, ma non è in grado di distinguere il bene dal male nelle leggi terrene. Riferito al papa, Lombardo dice che "'l pastor che procede, rugumar può, ma non ha l'unghie fesse". In questa metafora il pastore è ovviamente il pontefice, meno immediato è il riferimento alle unghie "fesse". Nel Deuteronomio e nel Levitico è riferita la prescrizione mosaica di poter mangiare solo quei ruminanti che hanno l'unghia del piede divisa in due lobi da una fenditura (ecco spiegato il termine "fesse"), alcune interpretazioni di questa legge vedono nei due lobi tra loro divisi una rappresentazione della divisione che c'è tra bene e male. San Tommaso vedeva nei due lobi la distinzione dei due Testamenti della Bibbia, la distinzione delle due nature di Cristo e la capacità di discernere il bene e il male, mentre nel ruminare vedeva la capacità di meditare sulle Scritture e comprenderle. Molto probabilmente Dante fa riferimento proprio alla concezione di San Tommaso, quindi attraverso Marco Lombardo ci dice che Bonifacio VIII era sì in grado di comprendere la legge divina (ruminare), ma non di distinguere il bene dal male (manca delle unghie fesse). La gente, continua a spiegare l'anima, vede la sua guida spirituale inseguire i beni materiali e di essi si sazia senza curarsi d'altro. Lombardo a questo punto usa come esempio Roma, la quale creò una civiltà giuridicamente unificata e in pace ("Soleva Roma, che 'l buon mondo feo") dove erano due soli: uno illuminava la strada della felicità terrena, l'altra quella della felicità spirituale. Il papa ha però spento la guida terrena, combattendo l'impero e cercando di tenere per sé tutto il potere, impossessandosi dell'autorità civile oltre che di quella religiosa ("L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale"), e da qui nasce la confusione che regna nel mondo. Per rafforzare il concetto espresso, l'anima indica un esempio della corruzione e sceglie la Lombardia e la Marca Trevigiana ("In sul paese ch'Adice e Po riga"), dove regnavano valore e cortesia prima che iniziassero le lotte tra Federico II e il papato, e dove ora vi sono solo birbanti che si vergognano di ragionare con le persone buone. In quelle terre restano solo tre vecchi in cui regna ancora la vecchia virtù, essi sperano di morire a breve tanta è la vergogna provata per la situazione attuale. Questi tre sono: Corrado da Palazzo (capitano di parte guelfa a Firenze prima, poi podestà di Piacenza, fu uomo politico molto apprezzato), Gherardo da Camino (capitano generale di Treviso) e Guido da Castello (ghibellino cacciato dalla sua città, Reggio Emilia, che trovò rifugio a Verona). Guido da Castello è conosciuto  dai francesi come "semplice Lombardo", dove "semplice" è l'equivalente di simple, che significa "modesto, leale". Marco Lombardo conclude dicendo che la chiesa, accentrando in sé entrambi i poteri, si getta nel fango e disonora sé stessa e il potere imperiale.
Dante apprezza la spiegazione dell'anima e dice di capire adesso perché i discendenti di Levi, destinati dalla missione sacerdotale, furono esclusi dall'eredità delle terre di Canaan (gli furono preclusi i beni materiali). Detto ciò, gli chiede maggiori informazioni su Gherardo da Camino, indicato dall'anima come esempio di virtù ancora in vita. Marco Lombardo si meraviglia della richiesta perché sente l'accento toscano di Dante e immagina che egli abbia notizie di Gherardo, visto che era in rapporto con il fiorentino Corso Donati, dice che di lui sa solo che ha una figlia di nome Gaia. Il colloquio si conclude con l'anima che saluta il poeta dicendo "Dio sia con voi" e si congeda perché il fumo inizia a diradarsi e si vede biancheggiare l'alba; lui deve allontanarsi prima che l'angelo lo veda.

Anche questo canto ha argomento prettamente politico. Dante usa la figura di Marco Lombardo per esporre la teoria dei "due soli", secondo la quale potere temporale e spirituale devono essere divisi, e per cui papato e impero devono avere pari dignità. La teoria si contrappone a quella teocratica che vuole tutto il potere nelle mani del papa, con un imperatore investito dal pontefice e sottomesso alla sua autorità.
Secondo Dante la corruzione politica e morale del tempo nasceva proprio dall'accentramento dei due poteri nelle mani del pontefice, mancava la guida temporale che si occupasse del rispetto delle leggi, mentre la figura del papa, impegnato nell'acquisizione di beni materiali, ne usciva moralmente insudiciata.

Francesco Abate

domenica 13 gennaio 2019

VICTOR HUGO E I MONASTERI DI CLAUSURA

"Questo libro è un dramma che ha l'infinito come personaggio principale.
L'uomo è il secondo.
Ciò posto, poiché un convento s'è trovato sulla nostra strada, vi siamo dovuti entrare. Perché? Fatto è che il convento, ... , è uno degli apparecchi ottici applicati dall'uomo sull'infinito".
Con questo incipit si apre il libro settimo della parte seconda de I miserabili di Victor Hugo. Dopo averci narrato dell'ingresso dei protagonisti in un antico monastero situato a Parigi, l'autore dedica tutto il libro sesto alla descrizione dello stesso e in quello successivo, appunto il libro settimo, esprime alcune considerazioni personali circa il monachesimo di clausura. Non dobbiamo dimenticare che I miserabili è un romanzo storico, come tale presenta parecchie digressioni su particolari periodi storici o condizioni sociali e non mancano considerazioni che l'autore esprime sugli stessi. Nella stessa opera, ma parecchie pagine prima, troviamo una lunghissima descrizione della battaglia di Waterloo impreziosita dalle opinioni dell'autore, che si impegna a sottolineare il ruolo della Provvidenza nell'evento che segnò le sorti dell'intera Europa.
Tornando al monachesimo di clausura, come già detto sopra, Hugo dedica tutto il libro settimo ad analizzarlo e valutarlo. In quest'articolo proverò a sintetizzare il pensiero dell'autore sulla questione.

L'analisi di Hugo parte molto duramente, definendo i monasteri come "nodi nella circolazione" e affermando che laddove essi prosperano i paesi si impoveriscono. Man mano che approfondisce la sua analisi, l'autore però mitiga la propria durezza.
I monasteri per Hugo furono istituzioni utili all'alba della civiltà, quando servirono per porre un freno alle brutalità della società. Essi possono e devono essere ancora guardati con rispetto, ma come tutto ciò che è passato va rispettato purché resti morto. Lo scrittore si scaglia molto duramente contro coloro che, usando svariate argomentazioni, premono per un rifiorire degli ordini monastici di clausura: li paragona agli antichi auspici che sfregavano una giovenca nera col gesso per poi dire che era bianca.
Nella vita del monastero di clausura lo scrittore vede una cambiale pagata per ottenere la vita eterna: si accetta di non vivere, quindi una forma di morte terrena, pur di assicurarsi la beatitudine celeste. Nonostante egli ritenga questa scelta un errore, la trova degna di rispetto e si guarda bene dal giudicarla troppo duramente o dal deriderla. Le suore di clausura sono per lui creature che accettano di stare sull'orlo dell'abisso e guardare verso l'infinito. 
Se il monastero nella sua forma teorica è degno di rispetto, cioè non si può denigrare la scelta spirituale di condurre un tipo di vita puramente contemplativa e rivolta a Dio, tutte le deviazioni sorte al suo interno gli danno un valore negativo. 
Hugo critica prima di tutto le gravi torture a cui erano sottoposte le suore di clausura. Per rispondere a chi ai suoi tempi ne negava l'esistenza, riporta l'esempio concreto dell'Abbazia di Villers, vicino Bruxelles. In essa le suore dormivano sul pavimento umido di celle piccolissime, inoltre spesso espiavano i propri peccati venendo riposte in una cassa di granito le cui dimensioni non permettevano loro né di stendersi né di restare in piedi. Secondo punto che segna la rovina del concetto spirituale di monastero sono fenomeni come le clausure forzate, evento comune nell'antichità, al fine di preservare l'intero patrimonio di una famiglia benestante per un unico figlio. 
Se quindi il monastero nasce con fini buoni, la sua trasformazione storica l'ha reso per Hugo un ostacolo alla crescita delle nazioni.

Le pagine dedicate da Hugo alla clausura, inframezzate anche da una rapida riflessione circa l'esistenza di Dio e una critica al Nichilismo, sono molto interessanti e meritano di essere lette. La visione che l'autore ha della vita monastica si riflette in tutte le pagine della storia ambientate all'interno del monastero, esse sono infatti dominate da un'atmosfera tetra pur narrando sostanzialmente la salvezza dei protagonisti. Hugo ci descrive un moribondo già completamente coperto dalle piaghe della malattia mortale, al suo interno fa però brillare barlumi di amore vero e di salvezza per le anime buone.

Francesco Abate

giovedì 3 gennaio 2019

COMMENTO AL CANTO XV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Quanto tra l'ultimar de l'ora terza
e 'l principio del dì, par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già inver' la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.
Il canto XV inizia con un'indicazione temporale. Nel cielo del Purgatorio il sole è all'altezza in cui si trova alla terza ora dopo l'alba, come un fanciullo sembra nascondersi dietro l'orizzonte e alzarsi giusto un po' per guardare e godersi il gioco. Mentre là è pomeriggio, in Italia è mezzanotte. Bisogna precisare che i fusi orari indicati dall'autore tengono conto della geografia terrestre così com'era nota ai suoi tempi, quindi i calcoli non sempre sono compatibili con la reale posizione del nostro paese, che i geografi di allora collocavano erroneamente a 45 gradi di longitudine occidentale da Gerusalemme. I raggi solari colpiscono in pieno il volto dei poeti, i quali hanno girato il monte da oriente a occidente e ora camminano verso ovest ("E i raggi ne ferien per mezzo 'l naso, / perché per noi girato era sì 'l monte, / che già dritti andavamo inver' l'occaso,"). D'un tratto Dante viene abbagliato da una specie di piccolo sole la cui luce lo costringe a ripararsi gli occhi con le mani. Riesce a ripararsi dalla luce del sole, ma non da questa nuova fonte luminosa, che gli sembra come la luce riflessa dall'acqua o da uno specchio. Subito il poeta chiede spiegazioni a Virgilio, il quale lo invita a non sorprendersi del fatto che ancora sia abbagliato in presenza di figure angeliche, gli fa quindi capire di essere in presenza di un angelo e gli spiega che è venuto per invitarli a salire. La guida rivela poi all'allievo che verrà un tempo in cui queste emanazioni di luce divina non feriranno più i suoi occhi, ma gli daranno piacere. Il cammino dantesco è infatti un viaggio dalle tenebre fino alla luce suprema, quella dell'Empireo, e se ora la natura umana fatica a cogliere la luce delle cose divine, nel Paradiso riuscirà a coglierle in tutto il loro splendore. Arrivati vicino all'angelo, questi con voce piena di letizia li invita a entrare, salgono una scala meno ripida di quella affrontata in precedenza e dietro sentono cantare << Beati misericordes! >> e << Godi tu che vinci! >>. I canti in questione salutano gli invidiosi che ascendono alla cornice successiva, per questo citano la misericordia, che è sempre associata nel Vangelo alle opere di bene fatte ad altri e per questo è l'esatto opposto dell'invidia. 
Mentre salgono verso la cornice successiva, a Dante tornano in mente le parole di Guido del Duca e chiede a Virgilio cosa intendesse dire costui quando ha parlato di beni il cui possesso esclude la condivisione. La guida gli spiega che, essendo Guido un invidioso, conosce bene il proprio peccato e per questo non deve sorprendere che se ne penta così da alleviare la propria pena. L'invidia, spiega il poeta mantovano, nasce perché l'essere umano desidera cose di cui può goder meno se le posseggono più persone; se l'amore degli uomini si rivolgesse alle cose divine, non esisterebbe l'invidia perché ciascuno gioirebbe anche della felicità altrui. La spiegazione non soddisfa Dante, il quale manifesta la propria insoddisfazione a Virgilio e gli chiede come possa un bene essere maggiormente goduto se diviso tra più persone. La guida gli spiega che non può capire finché ragiona pensando ai beni materiali; l'amore divino è infinito e corre tra le anime come un raggio di luce che si riflette su superfici lucenti, Dio concede maggiore o minore gioia in base all'ardore che trova nell'anima ricevente e accresce il suo amore in base al numero di anime pronte a riceverlo. Consapevole di quanto possa essere complesso il discorso sia per il suo allievo, ancora legato alle cose terrene, sia per sé stesso, lontano dal pieno godimento dell'eterna beatitudine, Virgilio anticipa che Beatrice gli spiegherà tutto più chiaramente e lo esorta a completare il prima possibile il suo passaggio nel Purgatorio così da liberarsi delle cinque P ancora incise sulla sua fronte ("<< ... Però che tu rificchi / la mente pur a le cose terrene, / di vera luce tenebre dispicchi. / Quello infinito ed ineffabil bene / che là sù è, così corre ad amore / com'a lucido corpo raggio vène. / Tanto si dà quanto trova d'ardore; / sì che, quantunque carità si stende, / cresce sovr' essa l'etterno valore. / E quanta gente più la sù s'intende, / più v'è da bene amare, e più vi s'ama, / e come specchio l'uno a l'altro rende / ... >>").
Giunti alla terza cornice, Dante è rapito in una visione estatica. Vede delle persone nel tempio di Gerusalemme dove una madre (la Vergine Maria) entra e dolcemente si rivolge al figlio (Gesù) chiedendogli perché si sia allontanato dai genitori, spaventandoli tanto. L'episodio è citato nel Vangelo e racconta appunto dell'allontanamento di Gesù, che rimase nel tempio a parlare coi sacerdoti finché non sopraggiunse la madre che gli rivolse le parole sopra citate, non espressioni di rimprovero ma di preoccupazione. La visione sparisce, lasciando il posto a un'altra. Vede una donna in lacrime rivolgersi al marito e chiedergli di vendicare l'offesa subita dalla figlia, abbracciata in pubblico, così da mostrare di essere degno capo della città che gli dèi si disputano; l'uomo mantiene la calma e le risponde chiedendole cosa dovrebbero fare a chi li odia se condannano chi li ama. In questa seconda visione viene citato l'episodio di Pisistrato e la città in questione è Atene, disputata dagli dèi perché Poseidone e Atena si contendevano il diritto di chiamarla col proprio nome. La terza visione gli mostra un giovane sul punto di essere lapidato che alza gli occhi al cielo e chiede a Dio di perdonare i suoi persecutori. Si tratta in questo caso di Santo Stefano, il primo martire riconosciuto dalla Chiesa. Le tre visioni sono esempi di mansuetudine, siamo nella cornice dove sono puniti gli iracondi. Stavolta gli esempi non sono né scolpiti sulla roccia né urlati nell'aria, ma affiorano direttamente nel cuore del poeta.
Dante si riprende dall'estasi e si rende conto di aver avuto una visione. Virgilio, notando il ritorno in sé del suo protetto, gli chiede cosa abbia. Il poeta gli vuole raccontare cosa ha visto, ma il maestro gli ricorda che lui sa sempre cosa pensa e gli spiega che ciò che ha visto serve a fargli aprire il cuore alle acque della pace che fluiscono dalla fonte eterna, gli dice infine che il suo "che hai?" serviva solo a spronarlo affinché accelerasse il passo. I pellegrini camminano nella luce del pomeriggio, lentamente una nube di fumo si addensa intorno a loro rendendogli impossibile vedere e appesantendogli la respirazione.

Francesco Abate

P.S. - essendo questo il primo post del 2019, ne approfitto per augurarvi un anno pieno di felicità e ottime letture.