sabato 29 dicembre 2018

VI PRESENTO LA MIA POESIA "NON MI FERMO"

Non mi fermo è la mia poesia pubblicata su Spillwords.com qualche mese fa, precisamente il 7 agosto 2018.
Si tratta di un componimento breve, semplice e dal significato molto immediato, parla infatti della volontà di continuare a inseguire i propri sogni e a vivere la propria vita nonostante si sia schiacciati dalle difficoltà e dalle restrizioni del mondo. "...perché ho un domani da rincorrere / e un futuro da raggiungere" recitano i versi finali, che già da soli rendono chiaro il concetto.

Se vi va, potete leggere Non mi fermo al link http://spillwords.com/non-mi-fermo/

Colgo l'occasione per invitarvi a passare su Spillwords.com il 31 dicembre, data di uscita della mia nuova poesia.

Ne approfitto inoltre per farvi gli auguri di un felice 2019 da trascorrere tra letture piacevoli e giornate memorabili.

Francesco Abate

domenica 16 dicembre 2018

COMMENTO AL CANTO XIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

<< Chi è costui che 'l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia? >>
<< Non so chi sia, ma so ch'e' non è solo;
domandal tu che più li t'avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco'lo. >>
Il canto si apre col dialogo tra due anime le quali, meravigliate dal prodigio di un vivo che tra loro cammina aprendo e chiudendo gli occhi a suo piacimento (non dimentichiamo che loro sono ciechi), si chiedono chi sia costui. Le due anime appartengono a Guido del Duca e Rinieri da Calboli e già da questo primo dialogo possiamo dedurne la differenza del carattere: il primo rivolge parole sdegnose, quasi indignate; il secondo invece, altrettanto curioso, invita il primo a indagare e gli raccomanda proprio di essere dolce, di smorzare la propria rudezza. Uno dei due si rivolge poi al poeta e gli chiede di dirgli, per carità, chi sia e da dove provenga. Dante per spiegare il suo luogo di provenienza fa riferimento al fiume che nasce sul monte Falterona e compie un percorso di oltre cento miglia prima di sfociare nel mare, omette poi di dire il proprio nome giustificandosi col fatto di non essere ancora famoso, quindi conoscere il suo nome non sarebbe loro di aiuto ("E io: << Per mezza Toscana si spazia / un fiumicel che nasce in Falterona, / e cento miglia di corso nol sazia. / Di sovr'esso rech'io questa persona: / dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno, / ché 'l nome mio ancor molto non suona >>").
L'anima che ha interrogato Dante gli risponde che, se ha capito bene, lui parla dell'Arno; il compagno chiede perché il poeta abbia omesso il nome del fiume come si fa con qualcosa di cui ci si vergogna. L'altro, cioè Guido del Duca, dice di non saperlo, però afferma che è giusto che sparisca il nome di quel fiume, perché le genti che abitano i luoghi che vanno dal suo principio e per tutto il suo corso fuggono dalla virtù come le bisce, come se questa fosse loro nemica, e lo fanno o per una corruzione insita nel luogo o per la bassezza della loro morale. Il fiume nasce dove sono gli abitanti del Casentino, che Guido chiama "brutti porci", riferendosi al castello di Porciano e agganciandosi al riferimento fatto poco prima alla maga Circe ("ond' hanno sì mutata lor natura / li abitator de la misera valle, / che par che Circe li avesse in pastura"); trova poi gli Aretini, i quali minacciano più di quanto possano permettersi; scendendo arriva al cospetto di Firenze, dove gli abitanti sono ancora più avidi e sanguinari; nella parte inferiore, dove il fiume scorre tortuoso, trova i pisani la cui astuzia e malizia sono paragonabili a quelle delle volpi a caccia. Terminata questa invettiva contro le varie popolazioni della Toscana, Guido del Duca dice che Dante farebbe bene ad ascoltare ciò che vede nel futuro e che dirà nonostante Rinieri lo stia ascoltando. Il nipote dello stesso Rinieri, Fulcieri da Calboli, si dedicherà alla vendetta dei Guelfi Neri sui Bianchi e ne ucciderà tanti, privando sé stesso dell'onore e venendo ricompensato per le sue uccisioni. In effetti Fulcieri divenne podestà di Firenze nel 1303 e si dedicò con crudeltà e cinismo alla cattura e all'uccisione dei nemici politici; d'apprima fu ricompensato dai suoi alleati, poi fu condannato dal giudice Donato di Alberto Ristori e fu prima torturato, poi decapitato. Il giudizio di Dante, espresso per bocca di Guido del Duca, sull'operato di Fulcieri è durissimo: i danni fatti da lui renderanno impossibile una pacificazione per mille anni. Udendo questa profezia riguardante suo nipote, Rinieri si rattrista.
Sentite le parole e la profezia dell'anima che ha di fronte, Dante è preso dalla curiosità di scoprire chi siano quei due e li prega di dirglielo. La risposta arriva sempre da Guido, che prima gli fa notare che chiede di fare ciò che lui non ha fatto, poi però gli risponde, visto che Dio emana attraverso di lui tanta grazia da rendergli possibile un viaggio nell'aldilà da vivo. Nella risposta si vede ancora la fierezza del personaggio, che sottolinea un comportamento scorretto dell'interlocutore e non si rifiuta di rispondergli solo per amore della grazia divina. Si presenta come Guido del Duca, dice che tanta invidia aveva in corpo da provare astio per chiunque fosse lieto. Dichiara di raccogliere ciò che ha seminato, infine si chiede perché gli uomini si perdano dietro i beni che non possono essere divisi, cioè quelli materiali ("Fu il sangue mio d'invidia sì riarso, / che se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m'avresti di livore sparso. / Di mia semente cotal paglia mieto; / o gente umana, perché poni 'l core / là 'v' è mestier di consorte divieto?"). Presenta poi il suo compagno come Rinieri, pregio e onore della casa da Calboli, di cui nessuno degli eredi ha preso il valore.
Non è solo il sangue dei da Calboli a essere privo delle virtù che servono per la cavalleria e l'arte ("al vero e al trastullo"), ma entro i confini della Romagna tanto sono le serpi velenose che sarebbe impossibile estirparle tutte. Guido del Duca approfitta della presentazione del compagno per lanciarsi in un'invettiva contro la Romagna. Si chiede dove siano finite alcune personalità di alto profilo della politica romagnola: Lizio, signore di Valbona, ricordato da Boccaccio come uomo di buoni costumi, nonché alleato di Rinieri per la conquista di Forlì; Arrigo Mainardi, amico dello stesso Guido del Duca; Pier Traversaro, signore di Ravenna; Guido di Carpegna, podestà di Ravenna, il quale lottò contro Federico II. Inveisce poi contro i romagnoli, diventati bastardi, e riprende con l'elenco di altre personalità che ricorda con nostalgia: Fabbro dei Lambertazzi, capo dei ghibellini della Romagna e podestà di alcuni comuni tra cui Pisa e Modena; Bernardino di Fosco, il quale nacque di umili origini ("di picciola gramigna") e per virtù divenne podestà di prima di Pisa e poi di Siena. Dice poi a Dante di non meravigliarsi se lui rimpiange gente come Guido da Prata, Ugolino d'Azzo e Federico Tignoso, famiglie come Traversara e Anastagi (purtroppo senza eredi), e i costumi del tempo passato che ora sono scomparsi, perché la gente è diventata malvagia. Guido chiede poi alla città di Bretinoro perché non sparisca, facendo come le famiglie che sono andate via per non farsi corrompere dai costumi degenerati ("O Bretinoro, ché non fuggi via, / poi che gita se n'è la tua famiglia / e molta gente per non esser ria?"). Bene fa Bagnacavallo che non figlia (si riferisce in questo caso alla famiglia Malvicini; associa i comuni alle famiglie che li reggono), male fanno invece Castrocaro e Conio, che si ostinano a generare conti tanto corrotti. Bene fanno i Pagani, signori di Faenza, a non produrre altri eredi, anche se non potranno mai cancellare alcune macchie sull'onore. Ha fatto bene Ugolino dei Fantolini, che ha lasciato solo discendenti femmine e quindi non può più vedere disonorato il proprio nome. Guido interrompe di colpo l'invettiva e invita Dante ad andare via, infatti tutti quei ricordi gli hanno fatto venire voglia di piangere.
I poeti si incamminano, confidando che il silenzio delle anime sottintende la correttezza del loro cammino, infatti in caso di errore quelle anime caritatevoli di sicuro sarebbero intervenute. Rimasti soli, sentono riecheggiare nell'aria un grido: << Chiunque mi troverà, mi ucciderà >>. Le parole pronunciate dal grido fanno riferimento alla maledizione che cadde su Caino dopo che ebbe ucciso Abele, siamo quindi al cospetto di un esempio di invidia punita e, come gli esempi di virtù all'inizio, sono le voci che li palesano a Dante. Appena svanita la prima voce, ne arriva una seconda che dice: << Io sono Aglauro che divenni sasso >>. La seconda voce richiama l'episodio mitologico di Aglauro, figlia di Cecrope, re di Atene, la quale ostacolò l'amore di sua sorella Erse per il dio Mercurio e da quest'ultimo fu mutata in sasso. Spaventato, il poeta si sposta a destra e si addossa a Virgilio, il quale gli spiega che queste voci sono il richiamo che dovrebbe tenere l'uomo entro i suoi limiti, ma gli umani cadono nelle trappole di Lucifero e si lasciano tirare verso di lui; l'universo mostra all'uomo le sue meraviglie e le rende conoscibili tramite l'intelletto, ma gli uomini si interessano solo delle cose temporali e per questo vengono puniti dall'onnisciente, da Dio ("ed el mi disse: << Quel fu 'l duro camo / che dovria l'uom tener dentro a sua meta. / Ma voi prendete l'esca, sì che l'amo / de l'antico avversaro a sé vi tira; / e però poco val freno o richiamo. / Chiamavi 'l cielo e 'ntorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze etterne, / e l'occhio vostro pur a terra mira; / onde vi batte chi tutto discerne >>").

Della biografia dei due personaggi centrali del canto, Guido del Duca e Rinieri da Calboli, ho detto poco perché scarse sono le notizie biografiche certe sul loro conto. L'importanza storica dei personaggi tra l'altro non rende necessario un grande approfondimento in tal senso, semplicemente è importante sapere che furono due nobili romagnoli. Rinieri fu a più riprese impegnato nella conquista di Forlì, su Guido si sa davvero pochissimo e i critici spesso si sono smentiti tra loro. Come detto sopra, ci basti sapere che fu un nobile romagnolo e che Dante lo pone come rappresentante dell'amor di patria, infatti rimpiange i bei costumi della Romagna di un tempo e maledice la corruzione contemporanea.

Francesco Abate

venerdì 7 dicembre 2018

COMMENTO AL CANTO XIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Noi eravamo al sommo de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che, salendo, altrui dismala:
ivi così una cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che l'arco suo più tosto piega.
Dante e Virgilio sono arrivati alla sommità della scala, dove la montagna si restringe per la seconda volta e forma una cornice come quella da cui provengono, solo che questa è più corta. A differenza della prima cornice, non ci sono bassorilievi o immagini, la via e la parete hanno solo il colore della roccia. Virgilio si rende conto che, se volessero fermarsi ad attendere qualcuno a cui chiedere la strada da seguire per continuare la salita, perderebbero troppo tempo. La guida fissa il sole, poi si volge a destra e all'astro rivolge una preghiera, dicendo che in lui ripone la sua fiducia e chiedendogli di guidarlo. Il poeta mantovano indirettamente si rivolge a Dio, infatti il sole è l'astro che per volontà divina illumina il mondo, adesso gli chiede di illuminarlo circa la via da seguire. Quando già i due pellegrini hanno percorso un miglio, coperto in poco tempo per la voglia di proseguire che li anima, sentono volare verso di loro degli spiriti, che però non vedono, le cui voci li invitano a partecipare alla mensa della carità ("e verso noi volar furon sentiti, / non però visti, spiriti parlando / a la mensa d'amor cortesi inviti"). La prima voce dice "Vinum non habent", riferendosi al miracolo delle nozze di Cana, il primo compiuto da Gesù: la frase fu pronunciata da Maria (in latino significa "Non hanno vino") e servì a chiedere e ottenere il prodigio della trasformazione dell'acqua in vino. Ancora non è svanita questa prima voce che ne arriva una seconda, la quale urla "I' sono Oreste", riferendosi all'episodio di Pilade che si presentò come Oreste (figlio di Agamennone) per morire al posto dell'amico. Dante chiede a Virgilio cosa siano queste voci, intanto ne ode una terza che esprime il comandamento supremo di Gesù, amare anche i propri nemici. Virgilio spiega al suo discepolo che in questa cornice sono puniti i peccati di invidia, i peccatori sono sferzati con voci che rammentano esempi di umiltà (la Vergine che affida a suo figlio la risoluzione di un problema, l'amico che si sacrifica e il comandamento dell'amore), e suppone che prima di abbandonare quel posto si udiranno voci che narrano il contrario, cioè esempi di invidia punita. Avviene in questa cornice ciò che è avvenuto nella prima, all'ingresso sono evidenziati esempi della virtù contraria al peccato punito e all'uscita invece i mali causati dal peccato stesso, solo che qui sono le voci a raccontarli e non le immagini a mostrarli. 
Virgilio esorta Dante ad aguzzare la vista, così da vedere le anime sedute lungo la parete. Il poeta ubbidisce e scorge le anime vestite di mantelli dello stesso colore della pietra. Essi gridano a Maria e ai santi di pregare per loro. Vedendoli meglio, l'autore dice di non credere che esista sulla Terra un uomo tanto insensibile da riuscire a non commuoversi davanti a quello spettacolo ("Non credo che per terra vada ancoi / omo sì duro, che non fosse punto / per compassion di quel ch'i' vidi poi"). Avvicinatosi alle anime, non appena riesce a vederne meglio la condizione, non può trattenere le lacrime. Sono vestiti di cilicio, un panno fatto di setole che è freddo e punge il corpo di chi lo indossa, ciascuno regge l'altro con la spalla e tutti sono poggiati alla roccia della montagna. Stanno come i ciechi che chiedono l'elemosina davanti alle chiese, che cercano di sollevare il capo al di sopra degli altri così da suscitare la carità di chi li guarda ("Così li ciechi, a cui la roba falla, / stanno a' perdoni a chieder lor bisogna, / e l'uno il capo sovra l'altro avvalla, / perché 'n altrui pietà tosto si pogna, / non pur per lo sonar de le parole, / ma per la vista che non meno agogna"). Come ai ciechi non dà alcun beneficio la luce del sole, così alle anime è negata la luce della grazia divina; a tutti sono cucite le palpebre con del fil di ferro per tenergli gli occhi chiusi, così come si faceva con gli sparvieri per addomesticarli. A Dante sembra di oltraggiare quelle anime perché può vederle senza essere visto, si volta verso Virgilio per chiedergli consiglio ma questi, senza neanche attendere la domanda, lo esorta a parlare e ad essere breve e chiaro (l'autore usa arguto, parola che deriva dal latino arguere, << mettere in chiaro >>). 
Virgilio sta accanto a Dante, sul lato dove la cornice non ha bordo, dall'altro lato stanno le anime degli invidiosi. Il poeta si rivolge a loro, che sono sicuri di arrivare a vedere la grazia divina, gli augura di avere presto la remissione dei loro peccati così che ogni macchia della loro esistenza sia cancellata, infine gli chiede se tra loro vi sia qualche cittadino italiano, dicendo che forse a questo tornerà vantaggioso essere riconosciuto al fine di ottenere un suffragio che ne abbrevi la pena ("... << O gente sicura >>, / incominciai, << di veder l'alto lume, / che 'l disio vostro solo ha in sua cura, / se tosto grazia resolva le schiume / di vostra coscienza, sì che chiaro / per essa scenda de la mente il fiume, / ditemi, ché mi fia grazioso e caro, / s'anima è qui tra voi che sia latina; / e forse lei sarà buon s'io l'apparo >>"). Una voce proveniente da poco lontano gli fa notare che lì sono tutti cittadini della vera città, la città celeste, e lo corregge dicendogli che lui vuole sapere se c'è qualcuno che abbia vissuto in Italia. Il poeta avanza e scorge un'anima con il mento levato all'insù come un cieco in cerca di spiegazioni. Si rivolge a questa e gli chiede, qualora sia lei l'autrice della risposta, di dirgli chi sia e da dove provenga. L'anima racconta che fu senese e si chiamava Sapìa, fu ben più lieta delle disgrazie dei suoi parenti che delle proprie fortune ("Savia non fui, avvegna che Sapìa / fossi chiamata, e fui de li altrui danni / più lieta assai che di ventura mia"). Perché Dante non creda che lei menta, racconta di aver pregato Dio per la disfatta di suo nipote e dei suoi parenti presso Colle di Valdelsa il giorno stesso della battaglia (19 giugno 1269), di aver assistito con letizia alla loro fuga e alla loro uccisione finché, colma di gioia e appagata dalla grazia ottenuta, aveva alzato il volto al cielo gridando di non temere Iddio, dato che la gioia di quel momento le aveva tolto addirittura la paura della morte. In punto di morte si era pentita, ma sarebbe ancora nell'Antipurgatorio se non fossero giunte al cielo le preghiere di Pier Pettinaio. Tanto astio di Sapìa per il nipote fu dovuto all'opposizione di questi all'elezione di suo marito a podestà di Colle di Valdelsa. Il marito di Sapìa era guelfo e il nipote, ghibellino, fece ottenere la carica a suo fratello.
Finito il suo racconto, Sapìa chiede chi sia quell'uomo che chiede di loro, che al contrario di loro ha gli occhi spalancati ed è vivo. Dante risponde che gli occhi gli saranno un giorno chiusi in quel cerchio, ma per poco tempo, dato che ritiene di essersi macchiato poco del peccato di invidia, mentre ritiene che sarà punito ben più severamente nel cerchio inferiore per il peccato di superbia. Sapìa gli chiede allora chi l'abbia condotto lì se è certo di tornare nel cerchio dei superbi. Il poeta spiega che l'ha condotto lì Virgilio e conferma di essere ancora in vita, le chiede poi dove ella vuole che lui si rechi, una volta tornato tra i vivi, per richiedere preghiere in suo suffragio. L'anima constata quanto sia insolito ciò che sta accadendo e vede nel prodigio il segno di un grande amore di Dio per il poeta, poi lo esorta a spronare la gente a pregare per lei e, qualora dovesse passare per la Toscana, di far sapere ai suoi parenti che adesso è in un luogo di salvezza. Gli dice che li troverà tra la gente vana, cioè a Siena, dove sperano nel porto di Talamone come si spera di trovare acqua nel sottosuolo, ma finiranno solo per perdere tante vite. Il riferimento finale è all'ambizione senese di diventare una potenza marittima come Genova e Amalfi; Siena aveva acquistato dai monaci un borgo dove avevano iniziato a costruire il porto, e tutti ambivano a diventare ammiragli della futura flotta, ma la zona era paludosa e numerosi furono i morti di malaria.

Francesco Abate  

domenica 2 dicembre 2018

RECENSIONE DE "IL PENDOLO DI FOUCAULT" DI UMBERTO ECO

Il pendolo di Foucault è un romanzo di Umberto Eco pubblicato nel 1988, il più importante dopo Il nome della rosa
Ambientato nel Piemonte di fine anni Ottanta, narra una vicenda che si sviluppa dalle Crociate e passa attraverso i secoli e gli eventi più significativi della storia dell'umanità. Nel libro c'è di tutto, dalla filosofia al misticismo, dalla storia ai complotti per il dominio del mondo, dalla Cabala ebraica agli Assassini musulmani.

Il romanzo parla del giovane Casaubon, il quale incontra casualmente in una delle tante manifestazioni degli anni Settanta Jacopo Belbo, dipendente di una piccola casa editrice. L'incontro fortuito ha seguito perché Casaubon è impegnato in una tesi di laurea sui Cavalieri Templari, mentre Belbo ha appuntamento con un certo Ardenti, il quale vuole sottoporre alla sua attenzione un manoscritto che proprio dell'ordine templare parla. L'incontro non produce niente di interessante, quella di Ardenti è infatti una storia farneticante inerente un misterioso tesoro dei Templari, qualcosa di moda allora come oggi, ma da quel momento inizia un rapporto di amicizia tra Casaubon e Belbo che porta il primo a lavorare per la Garamond. Quando la casa editrice decide di aprire una sezione dedicata all'occultismo, Belbo, Casaubon e Diotallevi iniziano a maneggiare numerosi scritti inerenti l'esoterismo e misteri verosimili. I tre decidono di inventarsi un Piano tutto loro, cioè un complotto che ha attraversato i secoli e ha influenzato il più possibile la storia umana, con una rete di società segrete interessata a conoscere un segreto capace di consegnare la Terra nelle proprie mani. Il Piano che elaborano è sgangherato, ma finisce dapprima per coinvolgerli troppo, infine li mette in guai seri.

Il pendolo di Foucault è un romanzo che nasce per analizzare e criticare l'esoterismo e in generale un misticismo da due soldi che divenne di moda negli anni Ottanta e ogni tanto torna a riemergere, ci basti pensare, volendo valutare la situazione ai giorni nostri, ai tanti che credono nella Cabala o in fantomatici misteri delle logge massoniche. Questi segreti, capisce alla fine Casaubon, servono semplicemente a creare all'uomo degli alibi, a giustificarne i fallimenti. Chi fallisce, immaginandosi di aver fallito per via di un complotto cosmico, si sente meno in colpa con sé stesso. Questo bisogno di un segreto porta alla creazione di analogie forzate, spesso senza senso, e a una visione sballata dei fatti, così tutto appare verosimile e si finisce per crearsi una verità su misura. 
Il protagonista alla fine realizza che il vero Segreto è l'assenza di un Segreto, l'universo è ciò che vediamo e che percepiamo, va bene sforzarsi di comprenderlo e non fermarsi alle apparenze, ma non ha senso capovolgere tutto nel tentativo di cercare quello che non c'è. 
Questo contrasto tra "quel che è" e "quel che crediamo sia" diventa evidente associando il titolo del romanzo al suo contenuto. Il titolo richiama al celebre esperimento dello scienziato francese Jean Bernard Léon Foucault, il quale appese un gigantesco pendolo alla cupola del Pantheon e dimostrò la rotazione terrestre, ma parla poi di esoterismo. Il Pendolo stesso, emblema della scienza, diventa il centro del complotto anti-scientifico, di un rito magico finalizzato alla conquista delle forze segrete della Terra. Questo accostamento dimostra come perfino la scienza, la quale dimostra delle verità inconfutabili, possa essere stravolta per far passare messaggi privi di ogni fondamento. I giochi di analogie inventate trasformano le scoperte scientifiche in verità esoteriche, così fanno anche i protagonisti nel loro Piano inventato per gioco.

Nel corso dello svolgimento del romanzo si incontrano e analizzano, con processi mentali più o meno fantasiosi, diversi gruppi massonici e diverse credenze esoteriche. Un ruolo di primo piano è dato da Eco alla Cabala, cioè la dottrina mistica ed esoterica ebraica circa Dio e l'universo, di cui è sin dall'inizio credente uno dei protagonisti, Diotallevi. Ispirata alla Cabala è anche la struttura del romanzo, esso è infatti diviso in dieci parti, ognuna delle quali porta il titolo di una Sefirot, cioè di una delle emanazioni di Dio attraverso cui è avvenuta la creazione secondo la Cabala; i titoli sono inoltre sistemati secondo l'ordine seguito dall'Albero delle Sefirot, diagramma che è alla base di ogni riflessione cabalistica e che pone all'apice Keter e alla base Malkuth. Per la Cabala le Sefirot sono fondamentali perché non rappresentano solo le emanazioni divine, ma anche gli stati d'animo dell'uomo, le particolari vicende della sua vita e in un certo senso tutto l'universo in cui vive, mentre l'Albero ci fa capire come si possa giungere alla piena unità con Dio.

I protagonisti principali della vicenda sono tre: Casaubon, Jacopo Belbo e Diotallevi. 
Casaubon, l'io narrante della storia, affronta inizialmente le teorie occultistiche con scetticismo e con un approccio scientifico. Man mano che si avventura nel mondo dell'esoterico, eccitato da alcune coincidenze, inizia però ad avere dei dubbi e a credere che qualcosa di vero possa esserci, finendo per non essere più capace di distinguere il reale dall'immaginario. Solo alla fine, di fronte all'evidenza della confusione del gruppo massonico che gli dà la caccia, ha un'illuminazione e capisce la verità.
Jacopo Belbo è anch'egli scettico verso le teorie con cui è chiamato a confrontarsi per via del suo lavoro. Per lui però il Piano è un'occasione di riscatto, non ci crede ma ha bisogno di farlo, ridarebbe infatti un senso alla sua esistenza e ne cancellerebbe la mediocrità che pesa su di lui come un macigno. Nonostante non nutra nel Piano una fede cieca, finisce per viverlo e usarlo come mezzo di riscatto, venendo però travolto dagli eventi.
Diotallevi è di per sé un personaggio più mistico, profondo conoscitore della Torah (il Pentateuco, l'insieme dei primi cinque libri della Bibbia) e della Cabala. Vive il Piano in modo più religioso, per lui è un gioco ma, quando per coincidenza un dramma si abbatte su di lui, subito si convince che saranno tutti e tre puniti per aver giocato con qualcosa di sacro.

Il pendolo di Foucault è un romanzo molto ricco di contenuti. Scritto nel linguaggio piuttosto aulico di Eco, ricco di richiami non sempre facilmente comprensibili alla storia, alla filosofia e alla religione, non è certo un libro di facile lettura. Soprattutto nella prima parte, quando lo scrittore si dilunga nei primi incontri dei protagonisti coi Templari e i Rosa-Croce, con lunghe narrazioni delle teorie fantastiche circolate nei secoli su questi gruppi, spesso si è scoraggiati al proseguimento della lettura perché nasce la sensazione che in fondo nelle pagine a seguire non accadrà nulla. Fortunatamente, andando avanti con un po' di pazienza, la storia inizia a prendere un andamento più appassionante e a quel punto diventa difficile abbandonare la lettura. Questo è il brutto e il bello di Eco, dice tante cose ma non lo fa in modo semplice.
Molto interessante è la scelta di mostrarci per esteso i meccanismi attraverso cui i protagonisti elaborano il Piano. Eco ci dimostra come è facile trovare analogie tra fatti completamente estranei tra loro, magari anche distanti di secoli, quando si è deciso di volerne trovare una; ci fa vedere come è facile stravolgere la lettura della storia e delle teorie scientifiche. L'autore ci dimostra come nascono tutti questi gruppi e questi portatori di pseudo-verità che ogni anno vengono a dirci che il mercurio si può trasformare in oro o scempiaggini simili. Per questo, trattando di teorie che spesso rifioriscono, che in questi stessi anni stanno ritrovando vigore, il romanzo dev'essere assolutamente letto e compreso. 

Parlando di teorie esoteriche e Templari, non si può non pensare a Dan Brown. Negli anni più volte è stato fatto un accostamento tra Il codice Da Vinci dello scrittore americano e Il pendolo di Foucault di Eco. Su questo paragone io non posso esprimermi, non avendo letto il romanzo di Dan Brown (ho visto solo il film che ho trovato carino), ma su sollecitazione della critica rispose lo stesso Eco, intervistato da Deborah Solomon per La Repubblica in un articolo del 25 novembre 2007, e disse: "Sono stato costretto a leggerlo, perché tutti mi facevano domande in proposito. Le rispondo che Dan Brown è uno dei personaggi del mio romanzo Il pendolo di Foucault, in cui si parla di gente che inizia a credere nel ciarpame occultista". Lo scrittore poi, rispondendo ancora alla Solomon, ribadì: "... nel pendolo di Foucault ho rappresentato quel tipo di persone (quelle che si interessano di cabala, occultismo e simili - nda) in maniera grottesca. Ecco perché Dan Brown è una delle mie creature". Credo siano parole che non necessitino di alcun commento.

Il pendolo di Foucault non è un romanzo di semplice lettura, non è uno di quei libri che puoi leggere mentre ascolti la musica e qualcuno ti chiama continuamente e ti interrompe. Eco ci propone un testo che è come i distillati ben invecchiati, che non vanno tracannati e che, assaggiati da un ragazzino in cerca solo della sbornia, non hanno successo. Se avrete la pazienza di assaporare questo libro anche nelle sue parti più dure, di affrontare argomenti vari e non sempre di facile comprensione, di veder stravolgere tutto il sapere umano per gioco e con una logica discutibile, vi ritroverete con la mente più ricca e l'appagante sensazione di aver speso bene il vostro tempo. Come il distillato ben invecchiato, non sempre ha un buon impatto sulla lingua, ma lascia la bocca buona e il cuore felice.

Francesco Abate

giovedì 22 novembre 2018

COMMENTO AL CANTO XII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Di pari, come buoi che vanno a giogo,
m'andava io con quell'anima carca,
fin che 'l sofferse il dolce pedagogo.
Ma quando disse: << Lascia lui e varca;
ché qui è buono con l'ali e coi remi,
quantunque può, ciascun pinger sua barca >>;
dritto sì come andar vuolsi, rife'mi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi.
Dante procede di pari passo con Oderisi, le cui parole hanno chiuso il canto XI, finché Virgilio non gli dice di lasciarselo alle spalle e procedere oltre, visto che nel Purgatorio conviene che ognuno coi propri mezzi si preoccupi solo del proprio cammino. Il poeta obbedisce alla sua guida, riacquista la postura eretta per accelerare il passo, ma i suoi pensieri restano umili (chinati) e spogli della superbia (scemi). Le parole dell'amico lo hanno molto colpito, sia le riflessioni sulla vanagloria che le allusioni al suo esilio. I due pellegrini riprendono il cammino a passo svelto, finché Virgilio esorta il suo discepolo a guardare a terra così da vedere qualcosa che lo gioverà spiritualmente (...ed el mi disse: << Vogli li occhi in giùe: / buon ti sarà, per tranquillar la via, / veder lo letto de le piante tue >>). Per introdurci le immagini che trova, Dante le paragona a quelle dei defunti scolpite sulle pietre sepolcrali, sulle quali il ricordo spinge le anime pie a piangere, solo che queste del Purgatorio sono scolpite con maggiore maestria perché generate da un'arte non umana. Tutta la parte di suolo della sporgenza del monte è adorna di queste figure ("Come, perché di lor memoria sia, / sovra i sepolti le tombe terragne / portan segnato quel ch'elli eran pria, / onde lì molte volte si ripiagne / per la puntura de la rimembranza, / che solo a' pii dà de le calcagne; / sì vid' io lì, ma di miglior sembianza / secondo l'artificio, figurato / quanto per via di fuor del monte avanza").
La prima immagine mostra la caduta di Lucifero dal Paradiso dopo la ribellione a Dio, episodio citato nella Bibbia da Isaia e nell'Apocalisse. Dalla parte opposta è scolpita l'uccisione del gigante Briareo, che aveva osato ribellarsi a Giove. Ci sono poi scolpiti Apollo (qui chiamato Timbreo, soprannome che gli fu dato per via del tempio innalzatogli a Timbra), Atena e Marte, ancora armati intorno alle membra amputate dei Giganti. Vede poi Nembrot smarrito ai piedi della torre di Babele a causa della confusione delle lingue. C'è poi rappresentata Niobe, la quale guarda con la disperazione negli occhi i suoi quattordici figli uccisi da Apollo e Diana per punirla della sua superbia (aveva chiesto che la popolazione tebana tributasse a lei i sacrifici dovuti a Latona, vantandosi della sua progenie ben più nutrita, visto che la divinità era madre solo di Apollo e Diana). Poi è scolpita l'immagine di Saul, primo re d'Israele, suicidatosi dopo la sconfitta sul monte Gelboè; secondo la Bibbia, suo fratello David augurò al monte la sterilità a causa della siccità. Vede poi Aracne, già trasformata per metà in ragno da Atena, che l'aveva sconfitta in una gara di tessitura. C'è poi scolpito Roboam, successore sul trono d'Israele di re Salomone, che spaventato fugge su un carro e non mostra la superbia con cui aveva governato il suo regno. E' poi raffigurata l'uccisione di Erifile ad opera del figlio Almeone, che la punisce per essersi lasciata sedurre dalla collana dell'Armonia costruita da Vulcano ("lo sventurato addornamento") e aver mandato in guerra a Tebe suo marito Anfiarao, che lì venne inghiottito dalla terra così come aveva previsto. C'è poi scolpita l'uccisione del re assiro Sennacherib ad opera dei figli, i quali lo punirono della pestilenza che Dio aveva scatenato sul paese a causa della guerra contro Israele. Vede poi Tamiri, regina degli Sciti, che getta la testa del re persiano Ciro in un'otre piena di sangue per vendicare l'uccisione di suo figlio. C'è poi la rotta dell'esercito assiro in Giudea dopo la decapitazione del re Oloferne ad opera di Giuditta. Infine vede le rovine di Troia bruciata dai greci. Viste queste immagini, il poeta si chiede quale grandissimo artista possa averle scolpite con tanta maestria. I cadaveri e le persone sembrano reali, le sculture non sono meno reali degli eventi che raffigurano. La contemplazione il poeta la termina con un ammonimento ai vivi, che sono superbi e procedono a testa alta, invece dovrebbero abbassare lo sguardo così da vedere il sentiero che conduce alla perdizione ("Or superbite, e via col viso altero, / figliuoli d'Eva, e non chinate il volto / sì che veggiate il vostro mal sentero!"). 
Passato è più tempo e percorso è più cammino di quanto Dante, concentrato sulle sculture, abbia percepito quando Virgilio gli dice di alzare lo sguardo, non è più tempo di perdersi in meditazioni, e di osservare l'angelo che si sta avvicinando, facendogli poi notare che sei ore sono passate dall'inizio del giorno. La guida esorta il poeta ad assumere un atteggiamento di reverenza, così da convincere l'angelo ad avviarli alla seconda cornice, e gli ricorda che questo giorno non tornerà mai più. A loro si avvicina l'angelo, vestito di bianco e con una luce intensa irradiata dal volto ("A noi venìa la creatura bella, / biancovestito e ne la faccia quale / par tremolando mattutina stella"). L'angelo apre le braccia e le ali, invita i due poeti ad avvicinarsi, ci sono i gradini attraverso cui possono agevolmente salire alla seconda cornice, poi dice che a questo invito sono poche le persone che rispondono e si chiede come possa l'uomo, nato per volare al cielo, soccombere al vento delle tentazioni ("...disse: << Venite: qui son presso i gradi, / e agevolmente ormai si sale. / A questo invito vengon molto radi: / o gente umana, per volar su nata, / perché a poco vento così cadi? >>"). Li fa procedere dove la roccia è tagliata e con un colpo d'ali cancella la prima P dalla fronte di Dante, poi assicura al poeta di poter proseguire senza problemi. 
Così come dal lato destro diventa improvvisamente meno ripida la salita verso San Miniato grazie alle scalee costruite sulla costa del monte quando ancora non si falsificavano le misure catastali e gli atti comunali (è un riferimento velato a un episodio di falsificazione avvenuto a Firenze ai tempi di Dante), così la salita del monte diventa meno aspra e rende agevole il passaggio alla seconda cornice. L'angelo canta in un modo tanto celestiale da non poter essere descritto a parole << Beati pauperes spiritu! >>. A questo punto Dante, ricordando il suo recente passaggio all'Inferno, nota quanto sia diverso nel Purgatorio, dove si entra in ogni cornice accolti da canti celestiali e non da feroci lamenti. Man mano che sale, il poeta si accorge di essere più leggero di quanto avrebbe pensato e chiede a Virgilio quale peso gli sia stato tolto di dosso per rendere il suo cammino così agevole. La guida gli spiega che quando dalla fronte gli avranno cancellato tutte le P, così come ora l'angelo gli ha cancellato la prima, non solo i suoi piedi non sentiranno più il peso del corpo, ma addirittura troveranno piacevole l'essere spinti verso l'alto ("Rispuose: << Quando i P, che son rimasi / ancor nel volto tuo presso che stinti, / saranno, com'è l'un del tutto rasi, / fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, / che non pur non fatica sentiranno, / ma fia diletto loro esser su pinti >>"). Il poeta, che ancora non si era accorto della sparizione della P, fa come quelli che non sanno d'avere qualcosa in testa e lo deducono dai cenni fatti da altre persone, si passa le dita sulla fronte e al tatto sente le sei P incise. Guardandolo fare ciò, Virgilio sorride.

Il canto XII del Purgatorio ci mostra per la prima volta l'effetto della purificazione da un peccato capitale su Dante. Il poeta si sente più leggero, pur non essendo schiacciato da un peso visibile come le anime della cornice, la superbia comunque rendeva più pesante il suo cammino.
Di questo canto è comunque molto interessante e degna di nota la prima parte, quella in cui abbiamo osservato le sculture. All'entrata nella cornice (canto X), Dante ci aveva descritto degli esempi di umiltà, virtù opposta alla superbia. Il cammino nella cornice si conclude invece con la visione di esempi di superbia punita. Non è casuale questa disposizione, all'ingresso nella cornice è infatti mostrato come l'uomo avrebbe dovuto comportarsi per evitare di essere superbo, o comunque degli esempi di uomini che non hanno commesso tale peccato, alla fine del cammino è invece esposta la punizione dovuta alla persistenza della colpa. 
Molto interessante è anche il modo in cui sono descritte le sculture. Gli esempi di superbia punita sono tredici, ognuno contenuto in una terzina. Ci sono tre gruppi da quattro terzine ciascuno, la tredicesima è quella che descrive le rovine di Troia. Il primo gruppo vede ogni terzina cominciare con la parola Vedea, il secondo con O e il terzo con Mostrava. L'acrostico formato dalle tre iniziali forma la parola VOM, cioè "uomo", la creatura che ha commesso il peccato. Non è casuale inoltre che la rassegna di esempi termini con la caduta di Troia, degli eventi citati è infatti l'ultimo per ordine cronologico e con esso si chiude il periodo dell'antico errore. Dopo l'incendio di Troia inizia infatti il periodo della grazia, con la partenza di Enea da cui si genererà l'Impero romano, secondo popolo eletto da Dio.

Francesco Abate 


domenica 18 novembre 2018

RECENSIONE DELLE "CANZONI DELL'INNOCENZA E CANZONI DELL'ESPERIENZA" DI WILLIAM BLAKE

Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza è un'opera dello scrittore e incisore William Blake. Pubblicate per la prima volta le sole Canzoni dell'Innocenza nel 1789, dal 1794 Blake pubblicò in un'unica opera entrambe le raccolte di poesie. Nonostante siano nate in due momenti diversi, seppur vicini nel tempo, è giusto che le due raccolte siano unite in una sola opera e considerate come unica, infatti il loro significato è perfettamente comprensibile solo operando tra loro una contrapposizione.
Una particolare attenzione merita il metodo con cui furono prodotte le opere. Ogni tavola fu stampata in rilievo con una lastra di metallo incisa usando dell'acido, poi fu colorata a mano. Questa modalità di stampa fu inventata dallo stesso Blake e usata per produrre poche copie poi vendute ad amici e collezionisti. A rendere famosa questa doppia raccolta di poesie hanno contribuito anche i disegni che accompagnano i componimenti, come quello che vedete nella figura sopra.

Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza non è un'opera di facile lettura. Come nello stile di Blake, le poesie sono molto ricche di simboli e significati nascosti. Nonostante all'apparenza i vari componimenti possano apparire semplici, se ne può cogliere il significato effettivo solo scavando oltre la superficie dei versi.

Come detto all'inizio, Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza possono liberare in pieno il loro potenziale solo venendo lette insieme. Sono due opere che convivono e si contrappongono, che stanno insieme in un perenne e acceso contrasto.
Nella prima parte, le Canzoni dell'Innocenza, ci troviamo subito immersi nel mondo pacifico dei bambini. La prima immagine che troviamo è quella di un flautista a cui un bambino celeste chiede di suonare una canzone sull'agnello, il simbolo della purezza. Nelle poesie seguenti troviamo pastorelli, bambini che giocano felici in mezzo al verde, madri amorevoli, ottimismo e purezza. Diverse poesie sono scritte proprio dal punto di vista di un bambino, tutte inoltre mostrano la visione fanciullesca e spensierata della vita.
Nelle Canzoni dell'Esperienza cambia tutto radicalmente. La natura è spesso oscura, a prevalere è il mondo ipocrita e corrotto degli adulti, c'è sofferenza e morte ovunque. I bambini non sono più protagonisti, ma spesso vittime, mentre l'innocenza è completamente soffocata dalle regole della società. 

La raccolta Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza getta la luce sulla contrapposizione che c'è tra il bambino, figlio della natura, e la società, che tale natura soffoca e sottomette. Tali differenze e tali contrasti diventano più evidenti attraverso l'analisi di alcune poesie che l'autore scrive proprio per rendere una il contrario dell'altra.
Un esempio lampante di quel che scrivo sopra l'abbiamo leggendo le poesie L'Agnello e La Tigre, contenute la prima nelle Canzoni dell'Innocenza e la seconda nelle Canzoni dell'Esperienza. L'Agnello sottolinea la mitezza del dolce e indifeso animaletto, il cui nome è lo stesso di Dio e la cui mansuetudine è quindi simbolo della bontà divina, oltretutto è tracciata nella poesia anche una similitudine tra l'onnipotente e il bambino, perché il primo venne al mondo nelle sembianze di un bimbo. Ne La Tigre è invece tutto diverso, domina la terribile figura del possente e violento animale, usato come metafora di un potere oscuro tanto vasto da non poter essere ostacolato neanche dalle forze del bene.
Un altro contrasto tra innocenza ed esperienza è visibile nelle due poesie Lo spazzacamino. Blake scrive versi dedicati alla figura dei bambini affamati e sfruttati per pulire i camini sia nelle Canzoni dell'Innocenza che nelle Canzoni dell'Esperienza. Essi sono un simbolo perfetto della degenerazione morale che distrugge l'innocenza. Nel primo caso il poeta ci racconta del piccolo Tom le cui paure sono lenite da un sogno di eterna beatitudine, nel secondo invece è illustrata la disperazione di un piccolo spazzacamino che riflette sulla crudeltà e l'ipocrisia di chi, come i suoi genitori, guadagna sulla sua miseria. Per cogliere la differenza tra i due componimenti, basta leggere come si chiudono. Il primo finisce con l'immagine della felicità di Tom e Blake che scrive "se tutti fanno il proprio dovere, non devono temer danno"; il secondo invece rievoca l'immagine dei genitori del piccolo spazzacamino che cantano le lodi a Dio in chiesa, con il bambino che finisce per chiedersi "chi può fare della nostra miseria un paradiso?". 

Tra le due raccolte di poesie c'è la differenza tra infanzia ed età adulta, tra purezza e ipocrisia, ma non solo. Una differenza degna di nota che appare molto evidente è quella tra religione e chiesa. Nelle Canzoni dell'Innocenza si parla spesso di Dio e di angeli, dell'agnello che è simbolo della natura umana di Dio, ma alla chiesa si accenna solo nella poesia Giovedì santo, in cui si vede una messa solenne con gli occhi puri di un bambino, con immagini che rievocano la natura, e la quale termina con un invito alla pietà nei confronti del più debole. Nelle Canzoni dell'Esperienza invece la chiesa compare più spesso ed è sempre vista come simbolo dell'ipocrisia, come ad esempio ne Lo spazzacamino e in Londra, oppure come catena che reprime gli individui uccidendone la gioia o negandogli il vero amore, come vediamo ne Il piccolo vagabondo e in Il giardino dell'amore. Ne Il piccolo vagabondo Blake auspica che nelle chiese venga servita la birra e acceso un fuoco così da rendere i fedeli più felici e far gioire Dio, sottintendendo così che una birreria accontenta il Signore più di quella che ha la pretesa di essere la Sua casa.

Quella di William Blake è una figura che da sempre è ammantata di fascino. Il suo spiritualismo e le sue poesie ricche di simboli hanno sempre eccitato la fantasia dei lettori in cerca di una scrittura alternativa, più distante da quella che si può trovare in buona parte delle opere letterarie dei diversi secoli. Blake dai suoi contemporanei non fu capito, solo i preraffaelliti iniziarono ad apprezzarlo, considerandolo un precursore del simbolismo.
Quello che è Blake possiamo capirlo solo leggendo le sue opere principali, Canzoni dell'Innocenza e Canzoni dell'Esperienza. Si tratta di un raffinato poeta capace con versi piacevoli da leggere per la loro musicalità di scuotere l'intera società dalle fondamenta. Il messaggio che Blake volle lanciare con le sue poesie è sin troppo chiaro, tutte le strutture costruite dalla società e tutti i dogmi su cui è fondata non fanno altro che alterare la nostra natura, prendendo la nostra purezza (i bambini che eravamo) e incatenandola, gettandola in un comignolo a insozzarsi con la fuliggine fino a essere tanto nera da apparire irriconoscibile. Blake ha preso l'umanità nella sua essenza più pura e l'ha mostrata all'uomo distrutto e deformato dalla società, mettendoci davanti all'evidente effetto venefico delle strutture sociali che tanto ci rassicurano. Solo tornando bambini, tornando alla natura e alla purezza delle cose, al vero amore, lasciando le chiese e tornando a Dio, potremo tornare a giocare felici su un grande prato verde.

Francesco Abate   

mercoledì 7 novembre 2018

COMMENTO DEL CANTO XI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

<< O Padre nostro, che ne' cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch'ai primi effetti di là su tu hai,
laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore
da ogne creatura, com'è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver' noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de' suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s'affanna.
E come noi lo mal ch'avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di leggier s'adona,
non spermentar con l'antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest'ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro. >>
Il canto XI si apre con il Padre Nostro recitato dai superbi nella prima cornice. La versione che qui leggiamo non è quella classica che i cattolici recitano in Chiesa ogni domenica, è una versione adattata al ritmo del poema ed estesa in modo da approfondire alcuni concetti espressi nella preghiera stessa. I superbi si rivolgono al Padre che è nei cieli, non perché sia in esso spazialmente limitato ("non circunscritto"), bensì per il maggior amore dei primi effetti della sua creazione (gli angeli). Lodano poi il suo nome, il suo valore e rendono grazie al suo vapore, tre figure che secondo alcuni critici rappresentano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, mentre per altri il vapore semplicemente rappresenta la bontà divina. Le anime auspicano poi la venuta della grazia divina, a cui gli esseri umani non possono arrivare solo con le proprie forze. Chiedono a Dio di dare loro il pane quotidiano, quello che sazia l'anima e rende immortali, senza il quale le anime del Purgatorio finirebbero per tornare indietro e allontanarsi dall'eterna beatitudine. Chiedono poi che il Signore perdoni a ognuno i propri peccati così come loro perdonano ogni torto subito, poi pregano che i loro meriti terreni non siano tenuti in considerazione, infatti non è per mezzo di questi che troveranno l'eterna beatitudine. La preghiera si conclude con la richiesta che Dio non lasci gli uomini in preda alle tentazioni, a cui non saprebbero resistere, e specificano che questo non è necessario per loro, ma per quelli che sono ancora in vita. Questa preghiera è recitata dalle anime dei superbi i quali, schiacciati da un peso simile a quello che a volte ci opprime negli incubi, camminano purificandosi dei loro peccati. 
Dante a questo punto si chiede cosa possa fare chi è ancora in vita per quelle anime che, in fase di purificazione, con la loro preghiera chiedono grazia e aiuto per i vivi. Conclude infine che è necessario un impegno costante da parte dei vivi affinché, attraverso le preghiere di suffragio, si acceleri l'accesso al Paradiso di queste anime ("Ben si de' loro atar lavar le note / che portar quinci, sì che, mondi e lievi, / possano uscire a le stellate rote"). Entra in scena a questo punto Virgilio il quale, dopo aver augurato alle anime di potersi presto liberare del peso che le opprime e poter salire al cielo, chiede loro quale sia la strada più breve e meno ripida per salire alla seconda cornice, infatti Dante ha ancora il corpo mortale e il suo peso è un ostacolo in caso di salite troppo proibitive. La risposta che giunge a Virgilio non si capisce da quale delle anime sia pronunciata. Gli viene detto di venire con loro verso destra, dove c'è una salita affrontabile da un corpo mortale. Colui che ha parlato dice che se non avesse il viso rivolto verso il basso a causa del peso che porta addosso, guarderebbe il mortale per capire se lo conosce o meno. Si presenta come figlio "d'un gran Tosco", cioè di Guglielmo Aldobrandesco, e dichiara che fu così superbo in vita a causa delle grandi opere dei suoi avi da sentirsi superiore ad ogni uomo, causando la propria tragica fine che conoscono bene sia in senesi che anche tutti i ragazzi di Campagnatico. In vita fu Omberto e la superbia non solo a lui ha fatto un danno, bensì tutti i suoi parenti hanno condiviso lo stesso destino. Nella cornice dei superbi è giusto che porti questo peso, dichiara, pagando a Dio il debito che non pagò in vita, quindi cancellando la sua superbia così come non fu in grado di fare in vita. Il discorso di Omberto è molto interessante, egli infatti accetta con umiltà la propria pena e ammette di meritarla, però nella sua presentazione persiste ancora un pizzico di orgoglio quando definisce il padre "un gran Tosco": l'umiltà c'è, ma la superbia non è ancora completamente cancellata, forse per questo è ancora nella cornice col peso sulla testa. Per quanto riguarda la figura storica, Omberto Aldobrandeschi fu conte di Soana, alleato di Firenze e grande nemico dei senesi, da cui fu ucciso. Sulle circostanze della sua morte ci sono due versioni: secondo la prima, fu soffocato nel proprio letto da sicari mandati dai senesi; per la seconda, morì in una battaglia contro Siena.
Dante china il viso e vede un'anima torcersi sotto il peso che la schiaccia e chiamarlo per nome. Il poeta cammina chino dietro le anime e riconosce quella che l'ha chiamato, quindi gli chiede se non sia Oderisi da Gubbio, maestro dell'arte che a Parigi è chiamata d'enluminer, cioè l'arte delle miniature. Oderisi ammette che le miniature di Franco Bolognese, un suo allievo di cui non si hanno notizie biografiche certe, sono superiori alle sue, dice poi che mai avrebbe ammesso una cosa del genere in vita e questa superbia ora sta pagando nel Purgatorio. Sarebbe addirittura all'Inferno se, ancora vivo, non avesse fatto ammenda dei propri peccati. Il miniaturista si lascia andare infine a un discorso contro la vanagloria, citando l'esempio di Cimabue, il quale si credette il miglior pittore e invece adesso è oscurato da Giotto, e quello di Guido Guinizzelli, a cui Guido Cavalcanti ha tolto la fama di miglior poeta, e forse addirittura è nato chi sostituirà il Cavalcanti ("Così ha tolto l'uno a l'altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l'uno e l'altro caccerà dal nido"). Colui che forse supererà Guido Cavalcanti è ovviamente Dante Alighieri, il quale si concesse scrivendo La Commedia questo piccolo peccato di superbia, il quale però aveva delle basi solide perché il poema che stava scrivendo avrebbe poi superato in fama ogni opera letteraria. Oderisi spiega che le chiacchiere mondane sono un fiato, un vento che può cambiare direzione in qualsiasi momento, poi a Dante chiede, se anche dovesse morire vecchio o se fosse morto bambino, che ricordo di lui ci sarebbe tra mille anni. La memoria degli uomini dopo un po' si cancella, inoltre anche mille anni sono un battito di ciglia se paragonati al periodo di rivoluzione del cerchio celeste più lontano dalla Terra (gli astronomi dell'epoca calcolarono questo periodo in 36.000 anni). Il miniaturista infine fa l'esempio dell'anima che, schiacciata dal peso, cammina poco avanti a lui: un tempo il suo nome risuonò in tutta la Toscana, adesso invece nella Siena che governò in pochi lo ricordano. La fama è come l'erba, il cui colore col passare del tempo si rovina e sbiadisce.
Dante, incuriosito dal discorso di Oderisi, gli chiede chi sia l'anima di cui ha appena parlato. Il miniaturista gli risponde che è Provenzano Salvani, la cui superbia lo portò a voler tenere Siena tutta sotto il suo controllo, per questo ora sconta la pena nella cornice. Provenzano Salvani fu un ghibellino senese e podestà di Montepulciano, il quale perì nella battaglia di Colle (1269) in cui i ghibellini senesi furono sconfitti. Il poeta a questo punto ha un dubbio, infatti, stando alle parole di Oderisi, non ci fu pentimento in vita di Salvani, quindi dovrebbe essere fermo nell'Antipurgatorio. Dante chiede come si possa invece trovare già lì e Oderisi gli spiega che in vita si umiliò pubblicamente nella pubblica piazza di Siena e chiese l'elemosina per poter liberare un suo amico prigioniero di Carlo I d'Angiò, in virtù di questa opera pia e di massima umiliazione ha avuto l'accesso diretto al Purgatorio. Nel discorso finale del miniaturista c'è anche un accenno all'esilio prossimo di Dante, infatti gli dice che passerà poco tempo prima che i suoi concittadini gli facciano vivere da vicino una situazione simile. L'allusione è all'offerta che nel 1315 i fiorentini fecero a Dante, cioè l'avrebbero rimpatriato se si fosse offerto pubblicamente in piazza san Giovanni e avesse pagato un compenso in denaro, condizioni che il poeta rifiutò. 

Francesco Abate 
    

sabato 3 novembre 2018

RECENSIONE DEL ROMANZO "NANA' " DI EMILE ZOLA

Pubblicato nel 1880, Nanà è uno dei romanzi più famosi e amati dello scrittore francese Emile Zola. L'opera fa parte del ciclo di romanzi I Rougon-Macquart. Storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero, con cui Zola illustra la società francese dell'epoca che va dal colpo di Stato di Napoleone III alla sconfitta di Sedan attraverso le vicende dell'intero albero genealogico di una famiglia. Del ciclo fanno parte venti romanzi cronologicamente collegati tra loro. Nanà è il nono di questi e si collega al settimo, L'ammazzatoio, perché narra le vicende della figlia di Gervaise Macquart. Nonostante il collegamento, è comunque possibile leggere, apprezzare e comprendere questo romanzo anche senza conoscere i precedenti.

Nanà racconta la storia di una giovane e bellissima parigina, la quale attira le attenzioni di tutto il bel mondo sul proprio magnifico corpo grazie ad uno spettacolo teatrale in cui si esibisce nuda nel ruolo di Venere. La ragazza, consapevole del fascino che è in grado di esercitare sugli uomini, e già dedita alla prostituzione nel suo appartamento, inizia ad alzare il tiro ed a diventare l'amante degli uomini più benestanti e potenti di Parigi, venendo in poco tempo rispettata e sommersa dalle ricchezze. Nonostante più volte abbia l'opportunità di contrarre un vantaggioso matrimonio, Nanà preferisce vivere nella promiscuità e darsi delle arie da signora. La bellissima donna finisce per essere la rovina di tutti i suoi amanti, finché non decide di sparire dalla circolazione e lasciare dietro di sé solo un alone di leggenda, con un'uscita di scena degna del miglior spettacolo teatrale. La storia di Nanà non ha però un lieto fine e il ritorno in scena della donna che ha fatto parlare di sé Parigi è tragico, mentre la guerra franco-prussiana inizia a intravedersi dalle finestre dell'hotel in cui le donne vegliano il suo cadavere.

Zola attraverso le vicende di Nanà ci mostra tutta la società parigina, dall'aristocrazia fino ai più derelitti, spogliandola delle sue ipocrisie. Nelle case e nei letti di Nanà passano tantissime persone, chi innamorato e chi accecato dalla passione, uomini e donne, ricchi e poveri, quindi con gli occhi della ragazza possiamo vedere tutta Parigi messa a nudo. 
Tra i tanti amanti di Nanà, quello più assiduo e di sicuro il rappresentante più autorevole dell'aristocrazia parigina è il conte Muffat. Si tratta di un uomo estremamente religioso e bigotto, il cui salotto austero sembra racchiudere una monotona santità che annoia i giovani come il libertino Vandreuves. L'arrivo di Nanà come un terremoto sconvolge tutta l'esistenza della famiglia Muffat. Il sant'uomo cede ad una passione mai provata prima, sempre repressa in nome dei princìpi religiosi, e dietro questo nuovo ardore perde le ricchezze, dilapidate per soddisfare i capricci di Nanà, e la dignità, finendo per farsi apostrofare come cornuto da una prostituta e diventando nell'intimità l'animale domestico della ragazza. La malattia morale portata da Nanà non infetta solo il conte, infatti mentre lui tradisce la moglie Sabine, lei lo ricambia concedendosi al giornalista Fauchery. La famiglia, una delle più in vista di Parigi, precipita nella povertà e nell'infamia.
Tanti altri sono i membri della buona società di Parigi che finiscono male per via di Nanà, tanto da spingere Fauchery, in un articolo scritto per Le Figaro, a descriverla come una malattia morale che infesta e distrugge la buona società parigina. L'analisi di Fauchery ha una doppia funzione: spiega il ruolo che ha Nanà (che in questo caso rappresenta il vizio nelle sue forme più estreme) e contemporaneamente rivela l'ipocrisia della società parigina. Il giornalista che scrive l'articolo ha infatti una relazione clandestina con la moglie di Muffat, è l'amante di Rose Mignon (rivale della protagonista) e finisce a sua volta nel letto di Nanà. Chi vede e censura il malcostume che rovina la società, si tuffa in quel mare di vizio e ci nuota beato.
Attraverso la protagonista non vediamo soltanto la Parigi dei salotti e delle feste. Nel momento in cui Nanà fugge con Fontan, veniamo di colpo trasportati nei bassifondi, dove le ragazze battono la strada in cerca del denaro che regala loro la sopravvivenza. Lo stesso rapporto con Fontan è squallido e violento, riportando la protagonista nella triste realtà delle famiglie povere e dei quartieri degradati.

Quando Nanà decide di abbandonare il teatro per darsi alla vita da prostituta d'alto bordo, lo fa perché vuole diventare ricca e rispettata come una signora. Quando riesce a farsi donare dal primo amante ricco la villa dei suoi sogni, inizia a godersi la nuova vita da donna ben sistemata e ad atteggiarsi da dama di alto livello. La sua felicità in quel frangente è quasi fanciullesca, ritrova un entusiasmo perso da tempo e finisce per innamorarsi davvero di un giovane che in lei suscita un tenero istinto materno. Tutto ciò però svanisce quando conosce una vecchia prostituta arricchita (Irma d'Anglars) che vive in un immenso castello ed è rispettata come una gran dama. Da quel momento, abbandona il suo tenero amore e si concede ad un vecchio che la ripugna pur di acquisire ricchezza e soprattutto rispetto. Per questo comportamento, in Nanà potremmo vedere quasi il tentativo di un riscatto sociale. Figlia di genitori poveri e un padre alcolizzato, la giovane si vende per poter uscire dalla miseria ed entrare nel bel mondo che ha sempre dovuto vedere da fuori. Questo riscatto però lo ottiene in un modo molto diverso, infatti non è tanto lei a salire in alto quanto i suoi amanti a cadere in basso, la sua diventa una rivalsa verso il mondo aristocratico che sporca e distrugge con le sue perversioni. Tale sete di distruzione diventa evidente quando rifiuta diverse proposte di matrimonio, fatte da uomini che potrebbero arricchirla e sistemarla a vita, solo per poter continuare a vivere in una palese promiscuità ed a distruggere i regali e i sacrifici dei tanti amanti. Tutto il veleno che lei getta nell'anima della società parigina finisce però per distruggere anche lei. Nonostante la sua uscita di scena improvvisa, che lascia viva nella città qualcosa di simile a una leggenda, nelle ultime pagine la ritroviamo con la sua bellezza devastata, come se il marcio del suo animo fosse alla fine traboccato e le avesse deturpato ogni lembo di pelle.

Nanà è un romanzo che rientra a mio parere tra le letture fondamentali, cioè quelle che nella vita vanno assolutamente affrontate. Zola riesce a descrivere con semplicità e allo stesso modo in maniera quasi simpatica i lati più oscuri di una società, ci dipinge un quadro dove possiamo vedere chiaramente il vizio, l'ipocrisia e la voglia di distruzione. Lo scrittore ci fa conoscere i vari personaggi e lentamente li spoglia, libera le loro immagini delle armature che indossano e ce li mostra in tutta la loro verità. Il personaggio stesso di Nanà viene sminuzzato, dapprima è presentata come la classica ragazza che vende il proprio corpo, poi è mostrata senza filtri la sua insaziabile sete di perversione e distruzione, facendoci capire che non è il successo il suo fine reale, bensì l'annientamento degli altri.
Tutti questi contenuti sono inseriti in una vicenda appassionante, a tratti divertente (come le scene dei banchetti), che si fa leggere con molto piacere.

Francesco Abate 

domenica 28 ottobre 2018

VI RACCONTO LA MIA POESIA "FENICE"

Fenice è una poesia che ho pubblicato qualche mese fa sul sito Spillwords.com.
Come il titolo suggerisce, la poesia parla della rinascita dopo una grave caduta, della famosa resurrezione dalle proprie ceneri. Ogni sconfitta, per quanto sia dolorosa, deve servirci per rinascere migliori di com'eravamo. 
L'ispirazione mi venne dopo aver commentato il XXIV canto dell'Inferno di Dante (https://culturaincircolo.blogspot.com/2018/04/commento-al-canto-xxiv-della-divina.html), dove è appunto citato il mito della fenice.

"Foglie di nardo e amara mirra
sono il mio ultimo letto
quello in cui mi perderò"
Secondo la mitologia, la fenice si preparava un nido di nardo e mirra e lo esponeva al sole, il cui calore avrebbe incendiato le erbe e generato il fuoco in cui l'uccello si sarebbe immolato. La mirra si presta bene alla poesia, è infatti un'erba amara ed è l'amarezza di una delusione a distruggere l'animo umano, a farci bruciare come l'epico animale nella sua ultima ora. Il calore che dà la vita diventa il fuoco che uccide, ma da questa tremenda fine si può rinascere e tornare a nuova vita.

Potete leggere Fenice al link http://spillwords.com/fenice/.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

COMMENTO AL CANTO X DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Poi fummo dentro al soglio de la porta
che 'l mal amor de l'anime disusa,
perché fa parer dritta la via tòrta,
sonando la senti' esser richiusa;
s s'io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fòra stata al fallo degna scusa?
Dante e Virgilio varcano la porta del Purgatorio, quella che molte anime non giungono a vedere perché portati sulla cattiva strada dalle loro passioni carnali ("mal amor"), e dal rumore capiscono che l'angelo l'ha richiusa. Il poeta è tentato di voltarsi a guardare, ma ricorda l'ammonimento fattogli dall'angelo nel canto precedente ("di fuor torna chi 'n dietro si guata") e rinuncia, chiedendosi come potrebbe mai giustificare una così grave mancanza. Camminano lungo un sentiero scavato nella roccia i cui lati sono irregolari, richiamando alla mente dell'autore il movimento dell'onda. Virgilio lo avverte che è importante muoversi con prudenza e assecondare le irregolarità del sentiero ("<< Qui si conviene usare un poco d'arte >>, / cominciò 'l duca mio, << in accostarsi / or quinci or quindi al lato che si parte. >>"). Il cammino dei poeti perciò rallenta, tanto che la luna, quasi nell'ultimo quarto ("lo scemo de la luna"), fa in tempo a tramontare prima che raggiungano lo spazio aperto. Dante è stanco, ha infatti ancora il corpo mortale e per questo accusa la stanchezza fisica, e come anche la sua guida è incerto sul cammino da seguire; sono lì, davanti vedono il monte allungarsi verso l'alto e diventare più stretto in cima, si trovano su uno spiazzo più solitario delle strade che attraversano i deserti. ("io stancato ed amedue incerti / di nostra via, restammo in su un piano / solingo più che strade per diserti"). La cornice su cui si trovano misura circa cinque metri ("misurrebbe in tre volte un corpo umano"), è perciò piuttosto stretta, e da un lato confina col vuoto mentre dall'altro con la parete del monte. Ancora non ha ripreso il cammino il poeta, quando si accorge che la parete interna del monte è fatta di marmo candido e intagliata con tale armonia delle proporzioni da far vergognare non solo Policleto (grande scultore dell'antica Grecia) ma la natura stessa. Nel marmo è scolpita l'immagine dell'Annunciazione, con l'angelo che porta la lieta novella ("venne in terra col decreto") che aprì all'umanità il cielo lungamente chiuso a causa del peccato originale. In ogni cornice del Purgatorio si troverà scolpita una scena della vita della Madonna, questo perché san Bonaventura, nello Speculum Beatae Virginis, trovò in Maria le virtù che si contrappongono a tutti i peccati capitali. In questa immagine la virtù mariana rappresentata è l'umiltà, la donna infatti accetta senza richieste né proteste di essere veicolo della volontà divina.  L'immagine dell'Annunciazione è scolpita con tanta grazia da non sembrare una rappresentazione, sembra vera ("dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace"). Vedendo quell'opera si giurerebbe di sentir pronunciare all'angelo << Ave! >> e di sentir rispondere Maria << Ecco la serva del Signore >>. 
Mentre Dante è perso nella contemplazione dell'Annunciazione, Virgilio gli consiglia di non fermarsi a guardare in un solo punto. Guarda a destra, dietro la figura di Maria, e si accorge che è scolpito un altro evento nella roccia, perciò supera la sua guida e si avvicina. La scena rappresentata è la danza di re David al trasporto dell'arca dell'alleanza a Gerusalemme, appena diventata nuova capitale d'Israele: i buoi trainano il carro con sopra l'arca, l'oggetto che fa temere di cimentarsi in un'impresa non concessa da Dio (è un riferimento alla morte istantanea di Oza, il quale sostenne l'arca per non farla cadere, e fu punito per essersi arrogato un compito riservato ai soli preti levitici); intorno all'arca sono raffigurati sette cori, così ben rappresentati da far credere a Dante di udirne davvero le voci e di sentire veramente il profumo dell'incenso; a precedere l'arca c'è David che danza al suono delle cetre, sembrando allo stesso tempo più e meno regale di un sovrano, mentre dal palazzo la moglie Micol lo guarda contrariata (secondo la tradizione biblica, Micol non voleva che David si vestisse umilmente al cospetto del popolo e dei servi, ma il re disse che solo rendendosi più vile di ciò che era agli occhi del Signore sarebbe apparso più glorioso alle ancelle e ai servi). 
Spostandoti, Dante scopre un'altra rappresentazione dietro la figura di Micol. La vicenda narrata questa volta riguarda l'imperatore Traiano e gli valse la salvezza eterna grazie alle preghiere del papa Gregorio. Traiano è a cavallo e una vedova piange ai suoi piedi, tutt'intorno è circondato da soldati in armatura e dai vessilli con le aquile dorate, perché è in partenza per una battaglia. La vedova implora l'imperatore di darle giustizia per un figlio che le è stato ucciso, lui le risponde di aspettare che torni dalla battaglia, ma lei ribatte chiedendo cosa accadrebbe se lui non tornasse. Traiano laconicamente le assicura che ci penserà chi sarà suo successore, ma lei gli chiede se lasciar compiere ad altri il proprio dovere conta quanto compierlo, così lui si convince e decide di soddisfare la sua richiesta prima di partire, perché la giustizia così vuole. Vedendo l'immagine, il poeta si convince che sia opera di Dio, sulla Terra infatti non c'è niente di simile. La leggenda della giustizia fatta all'umile vedova dall'imperatore Traiano in procinto di partire per la guerra non fu un'invenzione di Dante, era ben nota nel Medioevo. L'autore la cita insieme agli altri due episodi perché, come quelli, è un grande esempio di umiltà: l'imperatore piega la propria volontà alla giustizia, la quale gli è suggerita dalla pietà (la vedova). Questo episodio non solo è un fulgido esempio di umiltà, ma vale anche la salvezza per Traiano, infatti, nonostante fosse pagano, il papa san Gregorio pregò per la sua anima. Dante accolse tale tradizione, infatti ritroveremo l'imperatore nel cerchio di Giove in Paradiso. Comunque, come già detto prima, le sculture osservate dal poeta sono tutti esempi di umiltà, ciò perché siamo nel cerchio dei superbi e in ogni cerchio del Purgatorio ci sono immagini della virtù opposta al peccato che si sta scontando.
Mentre Dante è preso dall'osservazione di quegli esempi di umiltà scolpiti nel marmo, Virgilio mormora che sono in arrivo delle anime e auspica che possano indicargli la via verso la cima del monte. Il poeta volge gli occhi verso la sua guida rapidamente, attratto dalla prospettiva di vedere cose nuove. A questo punto una preoccupazione nasce nell'autore prima di descrivere le anime dei superbi, rassicura il lettore dicendogli di non lasciarsi impressionare dalla pena inflitta ai peccatori in cerca della purificazione, deve ricordare che queste nel peggiore dei casi non possono protrarsi oltre il giudizio universale, mentre all'Inferno sono eterne ("Non vo' però, lettor, che tu ti smaghi / di buon proponimento, per udire / come Dio vuol che 'l debito si paghi. / Non attender la forma del martire: / pensa la succession; pensa ch'al peggio / oltre la gran sentenza non può ire"). Vedendo le anime in quelle condizioni, il poeta si rivolge alla guida e confessa che non gli sembrano nemmeno persone, ma Virgilio gli spiega che sono rannicchiati a terra a causa del gran peso portato sulle spalle e si picchiano il petto in segno di pentimento. Visto lo spettacolo dei superbi schiacciati a terra dai massi, l'autore si lascia andare a un ammonimento nei confronti dei cristiani:
"O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne' retrosi passi,
non v'accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l'angelica farfalla,
che vola a la giustizia senza schermi?
Dì che l'animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?"
Il poeta chiede ai cristiani, che si fidano dei passi che li fanno retrocedere verso l'Inferno, se non si accorgono di essere solo vermi creati per formare la farfalla divina, cioè di essere nati solo per liberarsi del corpo e far parte della gloria di Dio. Chiede poi da cosa nasca la superbia se poi nell'aldilà sono insetti, vermi che non sono riusciti a diventare farfalla. Le anime dei superbi stanno con le ginocchia schiacciate al petto, come le figure usate per mensola a sostegno di solai o tetti, chi più e chi meno in base alla pesantezza del masso che porta sulle spalle, con quelli apparentemente più stanchi che sembrano dire di non riuscire più a continuare.

Francesco Abate      

martedì 23 ottobre 2018

COMMENTO AL CANTO IX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

La concubina di Titone antico
già s'imbiancava al balco d'oriente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
e la notte, de' passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov'eravamo,
e 'l terzo già chinava in giuso l'ale;
quand'io, che meco avea di quel d'Adamo,
vinto dal sonno, in su l'erba inchinai
la 've tutti e cinque sedevamo.
Il canto è introdotto da questi versi in cui l'autore ci racconta come, vinto dal sonno, si addormenta nel luogo in cui si era fermato insieme a Virgilio, Sordello, Nino Visconti e Corrado Malaspina. I versi in questione sono molto belli, proiettano il lettore in una dimensione spazio-temporale e in uno stato d'animo propizio al sogno mistico che Dante si accinge a descrivere. L'aurora è definita "la concubina di Titone antico" perché nella mitologia latina Aurora si innamorò di Titone e spinse le divinità a concedergli l'immortalità, all'uomo non fu però donata l'eterna giovinezza e per questo è indicato come "antico". Già il chiarore dell'aurora sorge a oriente, è quindi il momento in cui, secondo la tradizione, i sogni diventano premonitori, quindi l'indicazione del tempo in cui si svolge il fatto non è assolutamente fine a sé stessa. A far da corona all'aurora ci sono le stelle dello Scorpione, il "freddo animale che con la coda percuote la gente". Intanto nel luogo opposto della Terra, dove "eravamo", cioè dove Dante era prima di iniziare il viaggio nell'oltretomba e dove i suoi compagni di viaggio erano prima di morire, la notte è iniziata da più di due ore ed è quasi passata la terza. Questi versi così raffinati hanno il preciso scopo di introdurre il sogno che Dante sta per fare, il lettore viene proiettato in una dimensione in cui prevale la parte mitologica, inoltre l'estrema cura estetica di questa parte del canto ci riporta agli anni giovanili dell'autore in cui, com'era consuetudine all'epoca, si dilettava in sonetti carichi di significati oscuri, ispirandosi principalmente alla poesia trobadorica. Arrivata l'ora dell'aurora Dante, che sente ancora il peso del suo corpo mortale, viene vinto dal sonno. Come già detto sopra, è l'ora in cui i sogni diventano premonitori. Il poeta sogna un'aquila dalle piume d'oro, pronta a calare da un momento all'altro. Gli sembra di essere nella Troade, sul monte Ida, dove Giove rapì Ganimede così da avere sempre un coppiere sul monte Olimpo (il luogo non è scelto a caso, fu sede di un rapimento di natura divina, esattamente ciò che sta per succedere a lui). Nel sogno, Dante ipotizza che l'aquila sia lì "per uso", cioè sia obbligata a prendere in quel luogo le sue prede o disdegni lei di prenderle altrove. L'aquila di colpo piomba su di lui come una folgore e lo afferra, per poi portarlo alla sfera del fuoco, dove diviene così intensa la sensazione di bruciare insieme all'animale che il sonno si interrompe.
Dante si sveglia di soprassalto e si guarda intorno spaesato, così come fece Achille quando si svegliò a Sciro dopo che la madre ce l'aveva portato di notte mentre dormiva. La faccia del poeta si fa smorta come quella di un uomo agghiacciato dallo spavento. Al suo fianco c'è Virgilio, il sole è già sorto da più di due ore e lo sguardo di Dante è rivolto verso il mare. La guida lo rassicura, gli dice di rinvigorirsi perché sono a buon punto, l'entrata del Purgatorio è già visibile poco distante; gli racconta poi che mentre dormiva, santa Lucia è venuta e ha chiesto di poterlo prendere per facilitargli un po' il cammino, poi l'ha preso e lo ha portato per un po' di strada, infine "li occhi suoi belli" (santa Lucia è considerata protettrice della vista) hanno indicato a lui l'entrata del Purgatorio. Il racconto di Virgilio chiarisce anche l'allegoria del sogno di Dante: l'aquila rappresenta santa Lucia che guida il pellegrino fino alla sua meta, quindi nel cielo c'è chi lo protegge e facilita il cammino difficile che sta compiendo.
Compreso il significato del sogno, Dante si rinvigorisce; Virgilio se ne accorge e riprende il cammino. L'autore a questo punto fa notare al lettore come la materia del canto diventi sempre più elevata, si sta infatti per entrare nel Purgatorio, e lo invita a non meravigliarsi se lui rinforzerà l'argomento con la sua arte. Si avvicinano e là dove sembrava essere interrotta la strada, vedono una porta sotto la quale ci sono tre gradini di colore diverso l'uno dall'altro e un angelo guardiano che resta in silenzio. L'angelo siede sulla soglia, tanto è luminoso il suo viso da risultare insopportabile per la vista del poeta, in mano ha una spada che riflette i raggi di luce verso lui e la sua guida, così da rendere impossibile guardarlo. Il silenzio è rotto dal guardiano che chiede ai pellegrini per quale ragione siano lì e dove sia la guida che li ha condotti, gli raccomanda poi di fare in modo che salire i gradini non gli arrechi un danno, quindi li invita a non sfidare le leggi divine. Virgilio spiega che a condurli lì è stata santa Lucia, l'angelo li invita allora a procedere e augura loro che Lucia guidi ancora in modo retto i loro passi. Si avvicinano ai gradini: il primo è bianco come il marmo e tanto pulito da riflettere l'immagine del poeta; il secondo è nero e presenta una spaccatura sia nel senso della lunghezza che in quello della larghezza; il terzo è di porfido rosso come il sangue che schizza da una vena aperta. Anche il colore dei gradini non è scelto a caso: il primo è bianco e lucido come uno specchio, rappresenta la chiarezza con cui bisogna guardare in sé stessi per leggere a fondo nella propria coscienza; il secondo è nero come il peccato e le spaccature rappresentano il dolore e il danno che i peccati arrecano all'anima; il terzo è rosso, rappresenta la carità di Dio e la voglia di ricongiungersi a Lui, che sono elementi indispensabili per la Redenzione. Sopra al terzo gradino poggiano i piedi dell'angelo seduto sulla soglia, la quale sembra fatta di diamante. Virgilio accompagna Dante sui gradini, poi gli dice di chiedere all'angelo che apra la porta ("... << Chiedi / umilemente che 'l serrame scioglia >> "). Il poeta si butta ai piedi dell'angelo, si batte tre volte il petto e chiede all'angelo di aprire. L'angelo con la punta della spada traccia sette P sulla sua fronte e gli raccomanda di curare queste ferite nel suo cammino dentro il Purgatorio. Da sotto il suo abito grigio (colore che rappresenta l'umiltà) l'angelo estrae due chiavi, una d'oro e l'altra d'argento, ed esaudisce il desiderio del poeta aprendo la porta. L'angelo spiega infine che se solo una delle due chiavi fallisce, la porta non si apre; una delle due è più cara, ma l'altra necessita di arte e d'ingegno perché è quella che scioglie il nodo del peccato; fu san Pietro a dargliele e a raccomandargli che è meglio sbagliare per eccesso di misericordia, quindi aprire la porta della Redenzione qualche volta di troppo, che non per eccesso di rigore, quindi tenerla chiusa più volte del dovuto, purché ovviamente il peccatore chieda umilmente misericordia. La simbologia delle chiavi è molto importante per comprendere l'idea dantesca della teologia. Le due chiavi rappresentano l'autorità che il confessore riceve da Dio (quella d'oro) e la capacità del confessore stesso di essere medico delle anime (quella d'argento): la prima è la più importante, ma senza un buon confessore è impossibile introdurre le anime alla Redenzione, quindi ci vuole da parte della guida spirituale la conoscenza delle Scritture (arte) e l'ingegno. Bellissima è anche la presa di posizione dell'autore circa i difetti o gli eccessi di misericordia, infatti per bocca dell'angelo sostiene che è meglio perdonare più del dovuto piuttosto che essere troppo zelanti nel condannare, prendendo così una posizione forte contro l'abuso di scomuniche (spesso emanate per ragioni più politiche che religiose). Dopo aver raccontato delle chiavi, l'angelo spalanca la porta del Purgatorio e invita i due a entrare, mettendoli però in guardia dall'abbandonarsi alla tentazione di guardarsi indietro, cosa che potrebbe farli finire di nuovo fuori (la penitenza necessita di perseveranza). I cardini della porta fanno lo stesso rumore che fece la rupe Tarpea nel momento in cui Cesare allontanò il tribuno Cecilio Metello per impadronirsi del pubblico erario. Il primo suono che raggiunge Dante è una voce che intona il Te Deum, un inno di ringraziamento, e il cui suono si alterna a quella che sembra essere la melodia di un organo.

Il canto IX è molto ricco di metafore e di passaggi dai versi molto poetici e lirici. Le tematiche trattate diventano sempre più importanti e questo canto ci mostra l'ingresso del Purgatorio, quindi ci fa vedere come il pentimento conduce alla grazia divina. Dante spiega i suoi argomenti e le sue idee con un'allegoria molto fine, non semplice da comprendere ma molto bella da leggere.

Francesco Abate

domenica 14 ottobre 2018

COMMENTO AL CANTO VIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Era già l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d'amore
punge, se ode squilla da lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand'io incominciai a render vano
l'udire e a mirare una de l'alme
surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
Il canto inizia con l'indicazione del momento della giornata. Il sole sta tramontando, è il momento in cui colui che è in navigazione sente intenerirsi il cuore e ripensa a tutte le persone care che ha dovuto lasciare; è anche l'ora in cui lo squillo delle campane accende la nostalgia nell'uomo che ha appena intrapreso un viaggio. Dante inizia a non curarsi più di ciò che sente quando vede una delle anime alzarsi e chiedere attenzione con i gesti di una mano. L'anima giunge le mani e le tende al cielo, volge lo sguardo verso oriente, come se volesse far capire a Dio che non le interessa altro che pregare ("come dicesse a Dio: << D'altro non calme >>"). Lo spirito inizia a intonare l'ultimo inno della Compieta, che è l'ora canonica con cui termina l'ufficio divino. L'inno è così soave nella musica e nelle parole da mandare in estasi il poeta; le altre anime si associano al canto e lo fanno guardando verso le sfere celesti ("e l'altre poi dolcemente e devote / seguitar lei per tutto l'inno intero, / avendo li occhi a le superne rote"). 
Dante si rivolge adesso direttamente al lettore, chiedendogli di aguzzare l'ingegno e cogliere il significato della simbologia contenuta nei versi del canto, dicendogli che adesso non è difficile farlo e che non c'è quindi da cercare un senso tanto diverso da quello più evidente ("Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / ché 'l velo è ora ben tanto sottile, / certo che 'l trapassar dentro è leggiero"). Il poeta vede le anime nobili dei principi, "quello essercito gentile", guardare silenziosamente verso l'alto, aspettando spaventate qualcosa di imminente. Dall'alto scendono due angeli brandenti spade infuocate, tronche e prive della punta. Gli angeli sono vestiti con abiti verdi come foglie e hanno dietro le spalle ali dello stesso colore. Non è casuale la scelta del colore della speranza, sono infatti creature divine che portano alle anime la speranza che serve per continuare la lunghissima penitenza. Uno dei due rimane poco sopra la posizione dove sostano Dante, Virgilio e Sordello; l'altro scende dalla parte opposta; in mezzo alle due creature celesti stanno raccolte le anime dei principi. Il poeta riesce dalla sua posizione a vedere che gli angeli hanno i capelli biondi, ma non riesce a riconoscerne i lineamenti del viso a causa dello splendore eccessivo che irradiano, così come non si riesce a sostenere la vista diretta del sole. Non è casuale nemmeno questo riferimento allo splendore dei volti: la virtù celeste è tanto straordinaria da non essere percepibile coi soli mezzi sensibili, così l'occhio non può cogliere il divino. Sordello spiega che entrambi discendono "dal grembo di Maria" e su questa espressione ci sono diverse interpretazioni: alcuni credono intenda che essi discendono dalla protezione di Maria; altri sostengono che discendono dal Paradiso, dove risiede la Vergine; altri ancora leggono in questi versi che gli angeli discendono da Gesù, il frutto del grembo di Maria. Vengono a guardia della valle, spiega ancora Sordello, per proteggere le anime dal serpente che arriverà tra poco. Dante, non sapendo da quale direzione arriverà questo serpente, si accosta spaventato al corpo di Virgilio. 
Sordello invita i due pellegrini a scendere nella valle tra i principi e parlare con loro, che di certo gradiranno molto. Scendono solo di tre passi e si trovano nella valle; subito il poeta vede una delle anime che lo osserva come se volesse fare la sua conoscenza. La notte sta già scendendo, ma non è ancora così scuro da impedire ai due di vedere, così vicini, ciò che prima gli era nascosto dalla distanza. Si avvicinano l'uno all'altro e l'autore descrive la scena con un verso che rende una straordinaria trepidazione ("Ver' me si fece, e io ver' lui mi fei"), infatti l'anima è quella di Nino Visconti, un suo amico, e si rallegra nel constatare che non sia finito all'Inferno. I due si salutano, poi Nino chiede all'amico quando sia morto, credendo che sia lì appunto come anima del Purgatorio. Dante gli spiega che è arrivato lì passando per l'Inferno e vive ancora la sua esistenza terrena, percorrendo un viaggio che gli permetterà di guadagnarsi quella eterna. Sentita la risposta, sia Sordello che Nino si sorprendono e si spostano un po' all'indietro, quasi spaventate dalla straordinarietà dell'evento a cui stanno assistendo. Il primo poi si volge verso Virgilio, l'altro invece si gira verso un'anima, quella di Corrado Malaspina, e lo incita a venire a vedere quale prodigio divino si sta manifestando. Nino si rivolge poi nuovamente a Dante e gli chiede, in nome del prodigio voluto da Dio, colui di cui non si conosce e non si può conoscere il fine delle azioni, di chiedere alla figlioletta Giovanna (che nel 1300 aveva nove anni) di chiamarlo laddove gli innocenti trovano risposta, cioè di pregare per lui. Amaramente il Visconti dice di non credere che la madre di Giovanna, sua moglie, lo ami più, visto che ha contratto un nuovo matrimonio: lei è la dimostrazione di quanto poco duri l'amore di una donna quando non è acceso dal contatto diretto col marito. Sua moglie non avrà però una degna sepoltura, conclude, visto che sul sepolcro si troverà lo stemma del nuovo marito, una vipera con un fanciullo in bocca, invece che il gallo di Gallura, stemma dei Visconti di Pisa. Nelle parole che il poeta fa rivolgere a Nino contro sua moglie non c'è solo l'amarezza del marito che vede la propria donna sposare un altro uomo, c'è anche un risentimento politico che probabilmente apparteneva allo stesso Dante: Nino Visconti fu un guelfo morto in esilio, il nuovo marito di sua moglie invece fu un Visconti di Milano, capo dei ghibellini di Lombardia. Nino dice queste cose esprimendo nell'aspetto quello zelo legittimo che gli avvampa nel cuore.
Gli occhi di Dante, fortemente desiderosi di vedere, si alzano verso il polo del cielo, là dove le stelle percorrono un cerchio meno ampio che all'equatore. Virgilio lo nota e gli chiede cosa stia guardando, lui risponde che sta osservando le tre stelle che sembrano far ardere tutto il polo celeste. La guida gli spiega che le quattro stelle che ha visto al mattino sono adesso basse sull'orizzonte e si sono levate le tre che adesso sta guardando. In questa spiegazione è espresso un concetto molto importante ai fini del raggiungimento della beatitudine eterna: le virtù cardinali arrivati a questo punto del cammino non bastano più, perché si possa arrivare alla contemplazione dell'Eterno è necessario avvalersi dell'aiuto di Dio, di quelle virtù (teologali) che hanno origine direttamente dall'Onnipotente; l'uomo non può farcela più coi suoi soli mezzi, deve per forza avvalersi dell'aiuto della grazia divina. 
Mentre Virgilio spiega a Dante delle virtù teologali, Sordello si ritrae e indica ai due una biscia, forse quella che porse a Eva il frutto del peccato originale. Il serpente striscia tra l'erba e i fiori, perché la tentazione si fa strada tra le cose belle. Dante non si accorge del momento in cui si alzano in volo, ma gli angeli iniziano a sbattere le ali e il solo fruscio di queste basta a scacciare la bestia, poi tornano ai loro posti. 
L'anima che si era avvicinata a Nino Visconti quando l'aveva chiamata non smette di guardare Dante mentre gli angeli scacciano il serpente. Questa si rivolge al poeta e gli augura che la grazia divina dia alla sua volontà tanta forza da condurlo alla sommità del monte, gli chiede poi di riferirgli, qualora ne abbia, notizie della Lunigiana (Val di Magra) o della zona circostante; dichiara di essere Corrado Malaspina, discendente di Corrado I marchese di Mulazzo, che amò la sua famiglia di un amore che adesso si sta liberando delle caratteristiche terrene. Dante dice di non essere mai stato nei suoi possedimenti, ma la fama della liberalità dei Malaspina è viva in tutta Europa (diversi trovatori provenzali l'avevano celebrata), così le qualità di quella gente è nota anche a chi non è mai stato in quelle terre. Incassata la lode del poeta, Corrado ne predice l'esilio, anticipandogli l'ospitalità che proprio nelle sue terre troverà: il sole non sarà ancora tornato sette volte nell'ariete, quindi non passeranno sette anni, che la buona opinione di Dante sarà rafforzata dai fatti, come se venisse attaccata alla sua testa con dei chiodi, a meno che non muti nel frattempo il giudizio divino.

A differenza dei precedenti, questo canto abbandona la politica e torna a dedicarsi alla religione. Le anime dei principi passano in secondo piano, buona parte del canto ci dimostra come non bastino per giungere alla beatitudine le virtù dell'uomo retto (virtù cardinali), ma servano anche quelle che discendono direttamente da Dio (fede, speranza e carità). A rafforzare il concetto, oltre che l'immagine delle stelle, c'è la scena degli angeli e della biscia: anche in mezzo all'apparente quiete dell'anima può sorgere la tentazione (la biscia) e solo il diretto intervento di Dio attraverso la speranza (gli angeli vestiti di verde) può scacciarla e impedire alle anime di deviare dalla retta via. Gli angeli hanno armi spuntate, basta infatti la sola presenza di Dio per cacciare via la tentazione, non c'è bisogno di combattere.
In questo canto sembra quasi stonare l'inserimento di Corrado Malaspina, che riporta il poema su un piano meno teologico. Questa presenza si spiega con il bisogno del poeta di ringraziare coloro che lo ospitarono nel periodo dell'esilio, quindi usò il suo poema per tessere le lodi della famiglia.

Francesco Abate