sabato 31 agosto 2019

I PROTETTORI DI LIBRI

I Protettori di Libri è l'ultimo romanzo che ho scritto ed è stato pubblicato nel giugno di quest'anno dalla casa editrice 0111 Edizioni.
Si tratta di un romanzo distopico sviluppato in alcuni tratti con le modalità di un thriller. Tanti sono i temi che in esso vengono trattati, ma il principale è sicuramente l'importanza della cultura per la singola persona e per l'intera società.

La vicenda si svolge nel 2028. L'Italia è governata da una dittatura che, al fine di tenere saldo il suo controllo sulla popolazione, vieta la cultura. I libri sono il principale bersaglio del Governo, che per trovarli e distruggerli ha sguinzagliato le sue spie; degli sconosciuti e isolati eroi hanno scelto però di dedicare la propria vita alla protezione di quell'inestimabile patrimonio culturale, essi sono i Protettori di Libri.
Il paese è in guerra, alleato con gli Stati Uniti contro la Russia, e questa sembra ben lontana dal finire.
Protagonista è la giovane agente di polizia Giovanna la quale, senza sapere perché, è preda di una costante e opprimente malinconia, che la porta ad avere grossi problemi a relazionarsi con i colleghi e con le persone in generale. Sente che qualcosa non va in lei o nel mondo, non sa però spiegarsi cosa e riesce solo a sperare che la sua vita cambi radicalmente.
Il suo desiderio si realizza quando, nel corso di una retata, viene rapita dal ribelle Francesco. Conoscendo quest'uomo così strano, intelligente e isolato, Giovanna prende lentamente coscienza di sé stessa e delle storture del suo tempo, ritrovandosi quasi inavvertitamente dalla parte dei ribelli.
Nel frattempo la sadica spia Taipan cerca i Protettori di Libri e semina il terrore, mentre i briganti di Peppe 'a ciucciuvettola usano la loro fama di partigiani per derubare la povera gente.

Il tema principale de I Protettori di Libri è la cultura. Nella nostra epoca, in cui essere colti è considerato un disvalore più che un valore, in cui tutti cercano di esprimere opinioni senza però informarsi e conoscere gli argomenti, la cultura è l'antidoto ai mali che guastano il mondo. Grazie a essa si possono creare le opinioni libere, che sostituirebbero quelle pre-confezionate, così il mondo si dividerebbe in tanti gruppi ideologici e si libererebbe degli schiavi, che oggi sono quelli che credono di esercitare la propria libertà mentre vivono la vita che gli ha dettato qualcun altro. 
La cultura non è però un antidoto solo ai mali sociali, anche il singolo si giova di essa e questo nel romanzo si osserva attraverso l'evoluzione di Giovanna. Lei è oppressa da un oscuro sentimento di cui non sa nulla, è infelice e non sa perché; solo nella sua nuova vita, fatta di confronto libero e costruttivo di idee, riesce a sentirsi libera dal peso che aveva dentro. La cultura infatti permette all'uomo di conoscere sé stesso, di scoprire perciò chi è e di conseguenza cosa lo renderebbe davvero felice. Senza cultura è impossibile per l'individuo raggiungere la consapevolezza, perché non ha informazioni sufficienti per comprendere sé stesso e il mondo che lo circonda, quindi non capisce cosa lo renderebbe davvero felice e finisce per accontentarsi dei modelli pre-impostati di felicità, creati dalla società per far girare l'economia e renderci tutti omologati a un unico sistema.
La cultura è la medicina per l'uomo e per la società, a dimostrarlo c'è il comportamento che nei suoi confronti hanno tenuto nel corso dei secoli i governi totalitari: o hanno provato a omologarla, o hanno cercato di distruggerla. Il romanzo per questo motivo ho voluto dedicarlo a Khaled al-Asaad, l'archeologo siriano che preferì essere torturato e decapitato piuttosto che rivelare ai miliziani dell'ISIS dov'erano custoditi i reperti archeologici di Palmira; lui sapeva che quei folli volevano cancellare la memoria storica, sapeva quanto pericolosi per loro fossero quei reperti, e tentò in ogni modo di salvarli.

Attraverso il personaggio di Giovanna, viene sviluppato un po' nel romanzo anche il tema della malinconia. Come ho già accennato sopra, la giovane poliziotta è preda di una costante oppressione di spirito perché non riesce a trovare la felicità nella società superficiale e omologata in cui vive. Quando la sua vita cambia ed entra in contatto con un uomo colto e con la natura, allora lentamente il suo spirito rifiorisce.
La natura ha un ruolo fondamentale nel romanzo. Se la cultura è preziosa per l'umanità, non di meno lo è la bellezza, e nella natura si trova tanta bellezza quanta non se ne può trovare da nessuna parte. Ad aprire gli occhi a Giovanna sulla possibilità di una vita diversa, fuori dagli schemi, ancor prima degli insegnamenti di Francesco ci pensano i suoi bellissimi fiori, gli animali e gli insetti. La natura è un'opera d'arte che coinvolge tutti i sensi e spalanca la mente a tal punto da poterla mettere in contatto con l'infinito. Non è un caso che i migliori artisti nella natura trovano ispirazione.
La storia si svolge durante la guerra e questa ha un ruolo importante. Nel romanzo ho cercato di analizzarla sotto diversi aspetti. A combattere le poche battaglie che descrivo non sono eroi, ma uomini, c'è quindi il coraggioso pieno di fede, il codardo carico di rancore, lo spietato. Ci sono storie, persone di varie estrazioni sociali, diverse concezioni della guerra e diversi modi di vivere. C'è anche, in un capitolo che ho creato apposta, la descrizione di un bombardamento che mostra il confronto tra la leggerezza con cui è vissuto nelle sale dove viene deciso, dove si bada più agli effetti sulla popolarità del presidente che al numero di vittime, e la sua effettiva tragicità, con le tante vite innocenti e cariche di sentimenti che vengono cancellate in pochi secondi. Ho voluto trattare il tema della guerra, e soprattutto ho voluto scrivere questo capitolo, perché sempre più spesso si sente parlare con molta leggerezza di interventi armati e terrorismo; siamo così assuefatti alla violenza da aver dimenticato che essa spezza vite, che esistenze uniche e irripetibili, coi loro carichi di sentimenti e sogni, vengono spazzate via da freddi giochi di potere.

Diversi sono i personaggi che partecipano alla storia narrata nel romanzo, ma qui analizzerò soltanto i principali.
Giovanna, la protagonista, è la persona che vive nella società e ne rispetta le regole, eppure sente nel cuore l'indecifrabile vuoto che la vita omologata e priva di sentimenti veri le lascia. Dopo aver conosciuto Francesco, vede un mondo diverso e capisce che un'altra vita è possibile, scopre la complessità della mente e dei sentimenti, la bellezza della natura e il valore di cose che possono apparire insignificanti. La sua esperienza da ribelle la spinge però anche a tirare fuori il suo lato guerriero, trovandosi costretta a proteggere il suo amico dagli attacchi dei briganti e delle spie.
Francesco è il ribelle che Giovanna incontra durante una ricognizione. Vive di agricoltura e allevamento nella casa che fu dei suoi genitori, è molto colto e astuto. Prende con sé Giovanna perché ne intuisce la profondità, si rende conto subito che lei ha qualcosa nell'anima e può essere liberata da quel mondo fasullo. Della ragazza si innamora, ma non è corrisposto ed è costretto ad accettarlo. Nonostante ricorra all'omicidio quando necessario, il suo cuore è pieno di buoni sentimenti ed è retto nella sua guerra dall'incrollabile fede nella sua causa. Piccola curiosità: gli ho dato il mio nome perché è una mia emanazione, è ideologicamente quello che sono.
Taipan è la spia che tenta di stanare i Protettori di Libri. Ho creato questo personaggio per mostrare il male assoluto. Oggi c'è la tendenza nei film, nei cartoni animati e nei libri di creare dei cattivi che hanno una buona ragione per esserlo, hanno nel loro passato un trauma o un torto subito che spiega la loro malvagità; Taipan non è così, è un sadico assassino senza una ragione particolare. Personaggio di una crudeltà estrema, gode nel torturare le persone e fa il suo lavoro solo per poter soddisfare liberamente questo suo piacere. Si tratta di un anti-uomo, assolutamente privo di ideali, sentimenti, o qualsiasi traccia di umanità.
Peppe 'a ciucciuvettola è a sua volta un malvagio senza motivo, uno cattivo e basta. Si tratta di un brigante ignorante e arrogante che semina il terrore sui monti della Campania. Tanto forte è l'eco delle sue gesta, che il Governo arriva a mandare l'esercito per fermarlo. Lui non è particolarmente sveglio o abile, nelle sue scorribande è favorito dalla fama di liberatori che tra la gente povera hanno acquistato immotivatamente i briganti. Il suo personaggio l'ho introdotto per manifestare la mia personale opposizione alla rivalutazione del brigantaggio che oggi si sta cercando di fare, operazione basata su storpiature della storia create da libri con fonti alterate o privi di fonti; la storia è una materia tanto importante quanto delicata, è fondamentale trattarla con la dovuta serietà e senza inquinamenti ideologici.

Il romanzo è scritto con un linguaggio scorrevole e diretto, curato ma non troppo ricercato.
Nello scrivere ho tentato laddove era giusto di creare un senso di attesa e di suspense, inoltre nel romanzo c'è una certa abbondanza di immagini crude. La scelta di mostrare la violenza senza filtri l'ho fatta innanzitutto per mostrare come l'uomo si disumanizzi quando a essa ricorre e poi quanta sofferenza essa arreca alle sue vittime; ho deciso poi di descrivere così esplicitamente queste scene pensando che la presenza di sangue e sofferenza rendesse al meglio l'atmosfera cupa che regna in un paese totalitario impantanato in una guerra. 
C'è anche una scena di sesso piuttosto esplicita, lì mi è servito raccontarla fase per fase perché, man mano che si svolge, analizzo lo stato d'animo di Giovanna e permetto al lettore di capire insieme a lei che non ci sono né amore e né passione in quell'atto, ma solo volontà di trasgredire.
Al di là dei motivi tematici per cui ho scelto di descrivere alcune scene così scabrose, c'è da dire che sono stato anche spinto dalla voglia di cimentarmi in un tipo di scrittura per me insolita.

Con questo post vi ho spiegato in breve il mio terzo romanzo, I Protettori di Libri.

Vi ricordo che potete acquistare il romanzo ai link che trovate sulla pagina I PROTETTORI DI LIBRI.

Potete seguire la mia attività sulla pagina Facebook "Francesco Abate, lo scrittore battipagliese", e su Twitter "@FrancescoAbate3".

Grazie mille e buona lettura.

Francesco Abate 

domenica 25 agosto 2019

COMMENTO AL CANTO X DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Guardando nel suo Figlio con l'Amore
che l'uno e l'altro eternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore,
quanto per mente e per loco si gira
con tant' ordine fe', ch'esser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira.
Il canto X del Paradiso si apre con una considerazione di Dante circa la perfezione del movimento degli astri. Dio (lo primo e ineffabile Valore), guardando nel Figlio, e con lo Spirito Santo (l'Amore) che procede dall'uno e dall'altro, creò tutto ciò che si muove per virtù delle intelligenze angeliche (per mente) e nello spazio in un ordine così perfetto da destare l'infinita ammirazione di chi lo contempla. Fatta questa considerazione, invita il lettore a concentrare la propria attenzione al cielo, in quel punto dove il moto diurno dei pianeti si incontra con quello annuale, incontro che avviene agli equinozi; gli chiede di cominciare a ragionare sull'opera di Dio, colui il quale non distoglie mai l'occhio dall'universo, quindi non solo è creatore ma anche conservatore dell'ordine. La scelta di indicare i punti d'incrocio degli equinozi come punto di attenzione non è casuale, l'astronomia dell'epoca infatti dagli equinozi faceva cominciare il cammino del sole nello zodiaco, quindi è un po' come se ci invitasse a osservare il moto dell'astro principale del cielo dal suo inizio; dobbiamo cominciare a conoscere dal principio. L'autore chiede al lettore di osservare come l'eclittica, la linea lungo quale si muove il sole e che attraversa l'intero zodiaco, sia posta in modo obliquo, in modo tale che la Terra possa essere soddisfatta sia dal sole che dagli influssi dei pianeti; se l'eclittica si muovesse dritta in linea con l'orizzonte, molti dei benefici degli astri non arriverebbero al nostro pianeta, e l'ordine delle cose sarebbe gravemente sconvolto anche se essa fosse più o meno inclinata rispetto all'orizzonte di quanto effettivamente sia. Dal punto di vista astronomico, è facile immaginare quali sarebbero le conseguenze di una disposizione diversa dell'eclittica; se essa fosse dritta e congiunta all'equatore, il sole illuminerebbe sempre alcune zone e mai delle altre, quindi avremmo un'eterna estate in alcune zone e un eterno inverno in altre, con conseguenze facilmente immaginabili; la diversa inclinazione invece causerebbe grossi sconvolgimenti ai venti, alle nubi, alla luce e alle tenebre, con anch'essa conseguenze drastiche. Ovviamente Dante non prende in considerazione solo il punto di vista scientifico, anche le influenze che gli astri hanno sulle vicende umane risulterebbero alterate da una diversa disposizione dell'eclittica; per questa ragione egli vede la straordinarietà dell'opera di Dio. Il poeta conclude la sua spiegazione incitando il lettore a meditare su queste cose e approfondirne la conoscenza partendo da queste basi; lui ha lasciato il cibo sul banco, ora sta al lettore cibarsene per conto proprio. Lui, conclude, non può più concentrarsi su questo tema perché preso dalla sua missione di comprendere e raccontare il Paradiso ("Or ti riman, lettor, sovra 'l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s'esser vuoi lieto assai prima che stanco. / Messo t'ho innanzi: omai per te ti ciba; / ché a sé torce tutta la mia cura / quella materia ond' io son fatto scriba").
D'improvviso Dante si accorge di essere nel cielo del Sole, l'astro più importante della natura, che diffonde il suo benefico calore sulla Terra e viene anche usato dagli uomini per misurare il tempo. L'astro, congiunto nel punto dell'equinozio di primavera con la costellazione dell'Ariete, gira percorrendo una spirale tra il Tropico del Cancro e quello del Capricorno, percorso in cui i giorni si allungano e il sole nasce più presto. Il poeta non si era accorto dell'ascesa, se ne rende conto come quando ci si trova improvvisamente immersi in un pensiero; è Beatrice che lo guida da un cielo all'alto con tanta rapidità da non essere misurabile col tempo umano ("E' Beatrice quella che sì scorge / di bene in meglio sì subitamente, / che l'atto suo per tempo non si sporge"). 
Il poeta vede le anime dentro al sole e si meraviglia del loro splendore, riesce infatti a distinguerle non perché di colore diverso, ma perché più luminose ("Quant'esser convenìa da sé lucente / quel ch'era dentro al sol dov'io entra'mi, / non per color, ma per lume parvente!"). Per quanto possa far ricorso al proprio ingegno e alla propria arte, sa che non riuscirebbe mai a descrivere adeguatamente ciò che vede, così come una tale scena non può essere nemmeno immaginata: è necessario che il lettore gli creda e desideri vederla di persona. Non c'è da meravigliarsi che la nostra mente non sia in grado di comprendere certe cose, osserva, infatti manca a suo sostegno l'esperienza sensoriale, dato che non c'è nel mondo una luce più intensa di quella solare. Lì nel Sole ci sono le anime degli spiriti sapienti, che Dio gratifica mostrandogli come è generato il Figlio e come procede lo Spirito Santo ("Tal era quivi la quarta famiglia / de l'alto Padre, che sempre la sazia, / mostrando come spira e come figlia"). Beatrice gli dice di ringraziare il Sole degli angeli, cioè Dio, che lo ha elevato in quel cielo non per un suo merito, ma per grazia. Mai, dice l'autore, il cuore di un uomo mortale fu così lieto di rivolgersi devoto a Dio come il suo in quel momento; Dante rivolge al Signore tutto il suo amore, finendo perfino per dimenticare Beatrice, la quale non se ne dispiace anzi, ne ride così da aumentare lo splendore dei suoi occhi, spingendo la mente del suo protetto a dividersi tra la devozione a Dio e il godimento di quella luce ("Non le dispiacque, ma sì se ne rise, / che lo splendor de li occhi suoi ridenti / mia mente unita in più cose divise"). Le anime circondano Dante, formando una corona di cui lui e Beatrice sono il centro, e la dolcezza del loro canto è perfino superiore all'intensità della loro luce; la corona che si forma è simile a quella che nelle notti molto umide vediamo intorno alla Luna (la figlia di Latona). Il Paradiso è pieno di meravigliosi gioielli che da lì non si possono portar via e il canto di quelle anime, osserva Dante, è uno di questi; chi non riesce a innalzarsi sulle ali della spiritualità fino a simili concezioni, cercando di immaginare il coro attraverso le parole del poeta è paragonabile a chi aspetta notizie da un muto. Le anime, cantando, girano intorno a Dante e Beatrice tre volte con un movimento paragonabile a quello delle stelle vicine ai poli, poi sembrano fermarsi come quelle donne che, durante la danza, prendono solo un attimo di pausa in attesa di cogliere il ritmo delle note successive ("Poi, sì cantando, quelli ardenti soli / sì fuor girati intorno a noi tre volte, / come stelle vicine a' fermi poli, / donne mi parver, non da ballo sciolte, / ma che s'arrestin tacite, ascoltando / fin che le nove note hanno ricolte"). 
Una delle anime improvvisamente comincia a parlare. Inizialmente nota che il raggio della grazia di Dio, che nell'anima accende l'amore di Dio e si accresce quanto più la persona ama Lui, risplende tanto in Dante da condurlo nei cieli del Paradiso, dove risale chiunque c'è salito una volta; in queste parole, che sono una constatazione, c'è anche un augurio per il poeta, quello appunto di tornare all'eterna beatitudine. Lo spirito aggiunge che qualora gli negasse la risposta alla sua curiosità circa la loro identità, agirebbe contro natura, come l'acqua che non scende dal monte verso il mare ("E dentro a l'un senti' cominciar: <<Quando / lo raio de la grazia, onde s'accende / verace amore e che poi cresce amando, / multiplicato in te tanto resplende, / che ti conduce su per quella scala / u' senza risalir nessun discende / qual ti negasse il vin de la sua fiala / per la tua sete, in libertà non fora / se non com' acqua ch'al mar non si cala / Tu vuo' saper di quai piante s'infiora / questa ghirlanda che 'ntorno vagheggia / la bella donna ch'al ciel t'avvalora"). Dice di essere stato uno degli agnelli del gregge di san Domenico, un pastore che conduce sul cammino che arricchisce di beni spirituali, a patto di non farsi distrarre da quelli materiali; alla sua destra c'è il suo fratello e maestro Alberto di Colonia (Alberto Magno) e lui è Tommaso d'Aquino (autore, dopo sant'Agostino, del lavoro più sistematico e ampio intorno alla teologia). Tommaso invita il poeta a seguire le sue descrizioni, così conoscerà tutte le anime che sono lì intorno: l'altra luce fiammeggiante è prodotta da Graziano da Chiusi, che è stato ammesso in Paradiso per aver ordinato sia il diritto civile che quello ecclesiastico; l'altro fu Pietro Lombardo, che donò il suo tesoro alla Santa Chiesa (riferimento al prologo del suo Magister sententiarum, in cui scrisse di voler dare al Signore il suo modesto contributo di conoscenze) così come la vedovella nel Vangelo di Luca, lodata da Gesù perché aveva donato tutto ciò che aveva, anche se questo consisteva in due sole monete; la quinta luce, che è tra tutte la più intensa, esprime tanto amore (riferimento al Cantico dei cantici, quinto dei sette libri didattici della Bibbia) che ancora oggi la gente disputa circa il suo destino (il personaggio in questione è re Salomone: i teologi disputavano se fosse salvo o dannato perché, benché fosse un personaggio virtuoso e giusto nella Bibbia, macchiò la sua vita con l'idolatria e la lussuria), e dentro la sua mente ci fu così tanto sapere che ancora non è nato un saggio suo pari; subito dopo c'è la luce di colui che da vivo vide più dentro le gerarchie angeliche rispetto agli altri (riferimento a Dionigi l'Areopagita e al suo De coelesti hierarchia, in cui trattò la divisione degli angeli in tre gerarchie ciascuna di tre ordini); nell'altra piccola luce c'è quell'avvocato dei tempi cristiani della cui opera si avvalse sant'Agostino (riferimento probabilmente a Paolo Orosio, prete spagnolo autore dell'Historiarum adversus Paganos libri, scritto per desiderio di sant'Agostino e da quest'ultimo usato per la polemica contro i pagani); l'ottavo spirito è quello di Severino Boezio, che rivela l'inganno del mondo sensibile a chi sa comprendere la sua lezione (incarcerato e condannato a morte, scrisse il De consolatione philosophiae, in cui spiegò come la filosofia portasse conforto nella sventura; Dante lo citò spesso e ne trasse la soluzione del periodo più difficile della sua esistenza, quello dell'esilio); oltre si vedono splendere lo spirito ardente di Isidoro di Siviglia, del Venerabile Beda e di Riccardo di San Vittore, il quale per la via ascetica e mistica perseguita negli scritti e nella vita fu più un angelo che un uomo; l'ultimo, che sta subito prima di Tommaso, fu Sigieri di Brabante, tanto perseguitato per la sua dottrina da fargli sentire che la morte aveva impiegato troppo per arrivare.
Finito il discorso di san Tommaso, le anime riprendono la loro danza e il loro canto con una dolcezza che può essere colta solo lì in Paradiso. La ripresa del loro movimento Dante la paragona al meccanismo della sveglia che al mattino (l'ora del mattutino) sveglia la sposa (la Chiesa) affinché possa dichiarare il suo amore allo sposo (Dio): una ruota gira e tira a sé l'altra, producendo il movimento che causa il dolce suono che riempie di carità lo spirito pieno d'amore ("Indi, come orologio che ne chiami / ne l'ora de la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l'ami, / che l'una parte e l'altra tira e urge, / tin tin sonando con sì dolce nota, / che 'l ben disposto spirito d'amor turge; / così vid'io la gloriosa rota / muoversi e render voce a voce in tempra / ed in dolcezza ch'esser non pò nota / se non colà dove gioir s'insempra").

Francesco Abate     

giovedì 22 agosto 2019

RECENSIONE DE "IL PLURALE DI POI" DI MAURIZIO PETRAGLIA

Il Plurale di Poi è il romanzo d'esordio dello scrittore Maurizio Petraglia.
Si tratta di un romanzo parzialmente autobiografico in cui l'autore analizza l'animo umano e i segni che su di esso possono lasciare il tempo e gli eventi.

Il protagonista del romanzo è Diego Del Principe, un uomo realizzato sia professionalmente che umanamente, manager a Parigi di un'importante azienda, stimato marito e padre di famiglia nella sua casa di Como.
La sua esistenza perfetta è però sconvolta da una notizia tremenda, che lo spinge a lasciare tutto e intraprendere un viaggio alla ricerca di persone e luoghi che non vede più da tempo. In questo viaggio non incontra solo vecchi amici, ma ha modo di trovarsi faccia a faccia con fantasmi del passato che da sempre lo tormentano, rivangando anche una tragedia avvenuta quando aveva vent'anni: la morte del suo amico Nicola.

Il Plurale di Poi è un romanzo incentrato sul viaggio del protagonista. Si tratta, come accade nei viaggi veri, quelli non vissuti solo attraverso gli smartphone come oggi capita, di un viaggio che il protagonista fa sia nel mondo che dentro sé stesso.
Il viaggio effettivo, quello che Diego fa a bordo della sua moto, lo porta a incontrare i vecchi amici persi di vista da tanti anni e a ricercare un vecchio amore a cui ha rinunciato molti anni prima. Questi incontri, uniti ai ricordi che fanno rivivere, portano Diego a compiere un intenso viaggio spirituale, ad affrontare i dolori del passato e i rimpianti del presente, ma anche a fargli rivivere dei momenti piacevoli appartenenti alla sua gioventù.
Attraverso il viaggio che il protagonista fa dentro di sé, Petraglia analizza il dolore e i suoi effetti sull'animo umano. Ognuno vive e gestisce il dolore a modo proprio, questo l'autore ce lo mostra attraverso il protagonista e gli amici che man mano rivede dopo tanti anni, ma non lo si supera mai davvero; restano sempre delle cicatrici nell'anima che prima o poi riprendono a far male.
Se il tema principale del romanzo è il dolore, anche all'amicizia spetta un ruolo di rilievo. L'amicizia che ci mostra l'autore è un sentimento privo della disillusione che spesso ci porta a considerarla solo in modo utilitaristico; quella che unisce i personaggi del romanzo, benché siano tutti adulti, è molto simile al sentimento che si vive da ragazzi, un'amicizia pura e disinteressata in cui si ripongono volentieri tutte le energie e le speranze. 

Molto interessante nell'ottica del romanzo è la panchina su cui i quattro amici da giovani fecero una promessa, quella che diventa il propulsore del viaggio di Diego.
La panchina nel romanzo finisce per diventare contemporaneamente un altare e un simbolo: un altare su cui vengono mostrati senza alcun filtro i segni che il tempo e gli eventi hanno lasciato sulle persone; un simbolo delle illusioni giovanili e della resistenza che la vera amicizia sa offrire al tempo e alla mancata frequentazione.

Da sottolineare lo stile con cui Petraglia scrive il suo romanzo. Per far sviluppare contemporaneamente il viaggio interiore e quello esteriore del protagonista, fa un uso abbondante dei flashback, riuscendo però a farlo senza compromettere la leggibilità e la comprensibilità del romanzo.
Nel modo di usare questi flashback e di mostrarli al lettore in modo da creare anche una certa suspense, lo stile dell'autore ricorda molto quello dei giallisti italiani contemporanei e riesce a creare una certa attesa nel lettore.

Il Plurale di Poi è un romanzo che tratta temi molto delicati e racconta una storia molto triste, l'autore ha però il merito di usare un linguaggio molto semplice e diretto, riuscendo così a trattare del dolore senza mai sfociare nel patetico e dell'amore senza mai diventare troppo sdolcinato. Il risultato è un libro godibile che si legge con leggerezza ma lascia qualcosa al lettore, non è assolutamente una lettura fine a sé stessa.

Francesco Abate  

lunedì 19 agosto 2019

PRESENTAZIONE DEL ROMANZO "I PROTETTORI DI LIBRI" A BATTIPAGLIA (SA)

Ho il piacere di annunciarvi che martedì 3 settembre alle ore 18 presenterò il mio ultimo romanzo, I Protettori di Libri
L'evento si svolgerà presso la Biblioteca comunale di Battipaglia, a piazza Amendola, nell'ambito della manifestazione "Martedì Letterari" organizzata dall'Associazione Rinascita Commercianti Battipaglia.
Sarà una buona occasione per conoscerci di persona e parlare della cultura, argomento principale del mio romanzo.
Ingresso libero.

Non mancate.

Francesco Abate

sabato 17 agosto 2019

COMMENTO AL CANTO IX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
m'ebbe chiarito, mi narrò li 'nganni
che ricever dovea la sua semenza;
ma disse: <<Taci e lascia muover li anni>>;
sì ch'io non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni.
Il canto inizia con l'autore che si rivolge a Clemenza, moglie di Carlo Martello, e le dice che questi gli ha rivelato gli inganni che subirà il loro erede diretto, il figlio Carlo Roberto; le rivela anche che lui stesso gli ha ordinato di non farne parola e lasciare che tutto si compia, visto che questi atti saranno giustamente puniti da Dio. Circa l'identità di Clemenza, occorre dire che anche la figlia di Carlo Martello si chiamava così, quindi è incerto se Dante si rivolga alla consorte o alla figlia; tenendo conto che il poeta usa l'espressione "Carlo tuo", sembra più plausibile l'ipotesi che si rivolga alla moglie. Fatta la profezia, Carlo Martello (quel lume santo) si rivolge a Dio (al Sol che la riempie), cioè a quell'amore che è capace di riempire a sufficienza ogni cosa. ("E già la vita di quel lume santo / rivolta s'era al Sol che la riempie, / come quel ben ch'a ogne cosa è tanto").
Segue una terzina in cui l'autore lancia un'invettiva contro le anime che distolgono il cuore da Dio per inseguire i beni terreni (Ahi anime ingannate e fatture empie, / che da sì fatto ben torcete i cori, / drizzando in vanità le vostre tempie!).
Si avvicina un'altra anima a Dante, la quale palesa il suo desiderio di accontentarlo accentuando la propria luminosità. Gli occhi di Beatrice, che sono ancora puntati sul suo protetto, gli danno la certezza di poter soddisfare il suo desiderio di parlare con la nuova anima. Il poeta chiede alla nuova arrivata di esaudire subito il suo desiderio e provargli che essa può vedere ciò che lui pensa, quindi già conosce ciò che vuole sapere. Come abbiamo avuto modo di vedere in precedenza, le anime beate vedono ogni cosa in Dio, quindi conoscono in anticipo i pensieri di Dante; egli perciò chiede all'anima di rispondere direttamente alle sue domande senza aspettare che vengano poste ("<<Deh, metti al mio voler tosto compenso, / beato spirito>>, dissi, <<e fammi prova / ch'i' possa in te refletter quel ch'io penso!>>"). L'anima di cui ancora non conosce l'identità (la luce che m'era ancor nova), che fino a poco prima cantava l'Osanna immersa nella propria luce, risponde senza indugio come colui a cui piace compiere un'azione che arreca gioia a qualcun altro. Spiega di essere originaria di una parte di quella malvagia (terra prava) penisola italica situata tra Venezia (che indica col nome della sua isola maggiore, Rialto) e due fiumi, il Brenta e il Piave (è perciò originaria della Marca Trevigiana), dove si leva un piccolo colle (il colle di Romano, presso Bassano del Grappa) da cui discese una fiaccola ardente (una facella) che assaltò la contrada. La fiaccola nominata dall'anima è un riferimento ad Ezzelino III, che per lo storico Giovanni Villani fu il più crudele tiranno mai esistito fra i Cristiani; l'immagine nasce dalla leggenda secondo cui la madre, prossima a partorirlo, sognò una fiaccola che incendiava la Marca Trevigiana. L'anima rivela di essere la sorella di Ezzelino (D'una radice nacqui e io ed ella) e di essersi chiamata in vita Cunizza; la sua luce splende nel cielo di Venere perché si lasciò dominare dall'influsso dell'astro, quindi si concesse troppo liberamente l'amore carnale (ebbe diversi mariti e svariati amanti). Nonostante la sua mancanza, lietamente si perdona (le sue colpe infatti sono state cancellate con la penitenza), cosa che è difficile da capire per le persone che sono fuori dalla vita spirituale ("Ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro volgo"). Circa la collocazione di Cunizza in Paradiso, il poeta Ugo Foscolo ebbe da ridire; come detto, la donna ebbe diversi mariti e amanti, tra cui anche il trovatore Sordello, ma Dante la colloca in Paradiso probabilmente in virtù delle voci sulla sua conversione in tarda età. Collocare tra i beati una donna che non fu per niente un esempio di virtù, è servito al poeta per sottolineare il concetto del pentimento e della misericordia di Dio.
Cunizza indica a Dante l'anima a lei più prossima, un gioiello luminoso e prezioso (luculenta e cara gioia) la cui fama sulla Terra durerà per altri cinquecento anni. Invita il poeta a vedere come l'uomo debba fare il bene per poter lasciare un esempio che guidi altri sulla retta via; invece il popolo che abita ora la Marca Trevigiana non se ne preoccupa neanche quando incassa delle sconfitte. Fa poi una serie di profezie: presto i padovani col loro sangue cambieranno il colore delle acque che bagnano Vicenza (le paludi del Bacchiglione) a causa della loro ribellione all'Impero; a Treviso (dove si congiungono le acque del Sile e del Cagnano) è già ordito il complotto per uccidere Rizzardo da Camino, tiranno che regna con superbia; la gente di Feltre piangerà la colpa del proprio empio vescovo, Alessandro Novello, così odiosa che nessuno fu mai imprigionato per un delitto simile. I tre episodi a cui fa riferimento Cunizza sono rispettivamente: la ribellione dei guelfi padovani all'imperatore Arrigo VII nel 1311 e la conseguente sconfitta presso Vicenza; l'uccisione del tiranno Rizzardo da Camino nel 1312; il crimine del vescovo Alessandro Novello, il quale accolse alcuni membri della famiglia Della Fontana come rifugiati, ma li fece poi decapitare per mostrarsi alleato del vicario angioino. Cunizza commenta l'atroce tradimento del vescovo, che sarcasticamente chiama prete cortese, dicendo che sarebbe troppo larga la bigoncia necessaria a contenere il sangue delle vittime e che sarebbe stancante per una persona pesarlo. Conclude affermando che doni così terribili sono conformi ai costumi di quella zona. Ricorda alla fine che nell'Empireo vi sono i Troni, che gli uomini chiamano specchi, i quali mostrano ai beati il giudizio di Dio, così che questi giudizi così duri a essi in realtà appaiono nella loro bontà ("Sù sono specchi, voi dicete Troni, / onde refulge a noi Dio giudicante; / sì che questi parlar ne paion boni"). Cunizza tace e torna alla danza in cui sono impegnate le anime del cielo.
L'altra anima, che prima a Dante era stata presentata da Cunizza, si avvicina e splende come un rubino colpito dal sole. Osserva l'autore che nel Paradiso l'anima si illumina quando è lieta, così come sulla Terra il riso manifesta la gioia; sempre sulla Terra però, quando una persona è triste, la figura perde luce e vigore ("Per letiziar là sù fulgor s'acquista, / sì come riso qui; ma giù s'abbuia / l'ombra di fuor, come la mente è trista"). Il poeta si rivolge all'anima, osserva che nessuna voglia può essergli oscura perché si manifesta in Dio, quindi gli chiede perché la sua voce, che ora trastulla il cielo unendosi al canto dei Serafini, che si ammantano con le sei ali, non risponde alle sue domande. Per esprimere il concetto della penetrazione di un pensiero nella mente di qualcun altro, o dello spirito di Dio nel beato, Dante inventa dei neologismi: il beato si inluia, cioè entra dentro Lui; nell'ultimo verso troviamo anche intuassi e inmii.
L'anima per spiegare le sue origini parte con una descrizione molto ampia, richiamando alla mente il Mediterraneo, la più ampia rientranza dell'oceano, che comprende le sue acque tra l'Europa, l'Africa e l'Asia; lui nacque nella valle compresa tra l'Ebro, fiume della Spagna, e il Magra, che divide (parte) la Liguria dalla Toscana; hanno lo stesso meridiano la città algerina di Buggea e la sua città natale, Marsiglia, la quale fu conquistata per conto di Cesare da Bruto con un grande spargimento di sangue. Fu chiamato Folco e ora risiede nel cielo di Venere perché in vita arse d'amore più di Didone (figlia di Belo), il cui innamoramento fece soffrire Sicheo e Creusa (defunto marito della regina il primo e moglie di Enea la seconda), più di Rodopeia, che fu abbandonata da Demofoonte, più di Ercole (Alcide) quando chiuse Iole nel suo cuore; secondo alcuni critici, la citazione dei tre amori mitologici serve a richiamare le tre donne che Folco amò nella sua vita. Nel cielo di Venere però non si ci pente del peccato commesso, che non si ricorda, bensì si gioisce della bontà divina che ha permesso il male per poi trarne il bene attraverso la penitenza; qui si ammirano gli effetti del disegno divino e si scorgono i vantaggi del rapporto tra gli influssi celesti e la vita terrena ("Non però qui si pente, ma si ride, / non de la colpa, ch'a mente non torna, / ma del valor ch'ordinò e provide. / Qui si rimira ne l'arte ch'adorna / cotanto affetto, e discernesi 'l bene / per che 'l mondo di su quel di giù torna"). Folco dice poi che Dante vuole sapere chi sia l'anima che brilla vicino a lui come un raggio di sole riflesso dall'acqua limpida, gli spiega che è Raab, la quale è l'anima più luminosa e fa splendere tutto il cielo di Venere, e fu la prima a essere redenta e accolta in Paradiso da Gesù Cristo. Parlando del cielo di Venere, Folco lo definisce il cielo in cui l'ombra s'appunta che 'l vostro mondo face, perché secondo una teoria dell'epoca la Terra emette un cono d'ombra che arriva fino al cielo di Venere. Folco afferma che è giusto che Raab rappresenti la vittoria di Cristo e la redenzione ottenuta con la crocifissione, infatti favorì la prima vittoria di Giosuè in Terra Santa (la sconfitta di Gerico, avvenuta secondo la Bibbia grazie a Raab, che accolse e nascose gli esploratori di Giosuè nella città), evento che il papa poco ricorda. Firenze, spiega ancora l'anima, è un'emanazione di Lucifero, colui che per primo voltò le spalle a Dio e che per invidia dell'uomo lo spinse al peccato originale; la città ha coniato e diffuso il fiorino (il maladetto fiore), la moneta che ha sviato i fedeli (le pecore e gli agnelli) e ha trasformato i lupi in pastori. Per questa corruzione dei pastori vengono trascurati i testi biblici e i Padri della Chiesa, portando l'attenzione solo sui testi del diritto canonico (i Decretali), come è evidenziato dai loro margini sgualciti. I cardinali e il papa pensano solo al diritto canonico, non pensano a Nazaret, dove l'arcangelo Gabriele aprì le ali e annunciò la venuta di Cristo. Il Vaticano e gli altri luoghi sacri di Roma, che hanno visto il martirio dei primi seguaci di Pietro, presto saranno liberati da questo adulterio ("Ma Vaticano e l'altre parti elette / di Roma che son state cimitero / a la milizia che Pietro seguette,/ tosto libere fien de l'avoltero").

Il personaggio di Folchetto va necessariamente approfondito. Con la modestia propria dei beati egli parla solo delle sue origini e dei suoi amori, fu in realtà un celebre trovatore, monaco cistercense e vescovo di Tolosa.
La qualità di religioso del personaggio e il pretesto narrativo della presenza di Raab portano ad un discorso contro il disinteresse del Vaticano per la Terra Santa. Quando Dante scrisse la Commedia, il Vaticano faticava ad arrestare l'avanzata islamica, il Regno latino di Gerusalemme era caduto pochi anni prima e le conquiste fatte con le Crociate erano state quasi tutte perdute. Vediamo perciò nelle parole di Folchetto la preoccupazione del Dante cristiano, il quale vedeva le gerarchie ecclesiastiche interessate ad accumulare ricchezza e potere mentre le terre sacre della cristianità erano nelle mani degli infedeli.

Francesco Abate 
  
  

domenica 11 agosto 2019

COMMENTO AL CANTO VIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei facieno onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l'antico errore
Il canto VIII del Paradiso inizia con un'introduzione dell'autore al cerchio di Venere, il terzo del regno celeste. Nell'era in cui il mondo era preda dell'errore del Paganesimo, si credeva che Venere (di cui Ciprigna era uno dei soprannomi, poiché si considerava nata nelle acque intorno all'isola di Cipro), ruotando nel terzo epiciclo (secondo il sistema tolemaico, i pianeti ruotavano lungo un'orbita circolare il cui centro era l'orbita - detta deferente - che percorrevano intorno alla Terra), raggiasse nella sua luce l'amore sensuale (il folle amore); essi non solo l'adoravano con sacrifici, ma addirittura veneravano sua madre Dione e suo figlio Cupido, il quale credevano addirittura che sedette sul grembo di Didone. Quello relativo a Cupido è un episodio ripreso dall'Eneide in cui il dio, prese le sembianze di Ascanio, figlio di Enea, ferì Didone con una freccia e la fece innamorare dell'eroe troiano. Da questa dea di cui ha appena parlato (e da costei ond'io principio piglio) essi diedero il nome al pianeta che è corteggiato dal sole sia dalla faccia posteriore che da quella anteriore (or da coppa or da ciglio), quindi dall'astro è sempre seguito come da un corteggiatore. 
Dante non si accorge di salire verso il terzo cielo, ma si rende conto di averlo raggiunto perché vede Beatrice splendere di una bellezza più intensa. Il poeta distingue nella luce del pianeta altre luci che si muovono con diverse velocità, probabilmente specchio del maggiore e minore grado di beatitudine delle anime; le distingue come nella fiamma si distingue la scintilla, o come in un coro si riesce a distinguere la voce modulante da quella ferma ("E come in fiamma favilla si vede, / e come in voce voce si discerne, / quand'una è ferma e altra va e riede, / vid'io in essa luce altre lucerne / muoversi in giro più e men correnti, / al modo, credo, di lor viste interne"). Le anime si accorgono di Dante e Beatrice e si muovono verso di loro, con una velocità così elevata da far apparire lenti i venti visibili (bufere) e invisibili (quelli di una giornata serena); per raggiungerli, esse interrompono la danza che stavano facendo, quella iniziata nel primo mobile presieduto dai Serafini. I primi spiriti, quelli più vicini al poeta, cantano Osanna in modo tanto celestiale da far nascere in lui il desiderio di riascoltare quelle note. 
Un'anima si avvicina di più e dice a Dante che tutti loro sono pronti a dargli gioia; gli spiega che danzano col coro angelico dei Principati, di cui hanno in comune lo spazio (d'un giro), il tempo (d'un girare) e la sete di Dio (d'una sete), quel coro ai quali lui ha cantato "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete" (canzone contenuta nelle Rime e commentata nel Convivio); gli dice alla fine che sono tanto pieni d'amore da non dispiacersi di abbandonare per un po' la danza per fargli piacere. Dante volge lo sguardo a Beatrice, la quale ricambia con un sorriso e un cenno d'assenso, facendo i suoi occhi contenti e certi. Ottenuta l'autorizzazione della sua guida, si rivolge all'anima e gli chiede chi sia. Si accorge, nel momento in cui le parla, che la luce diventa più grande e luminosa, segno dell'allegria che aumenta. 
L'anima risponde dicendo di essere stata al mondo poco tempo, se ne avesse avuto di più non ci sarebbero nel mondo i mali che ci sono. Tanta è la sua beatitudine da essere avvolto dalla luce così come il baco lo è dalla seta ("La mia letizia mi ti tien celato / che mi raggia d'intorno e mi nasconde / quasi animal di sua seta fasciato"). Da Dante fu molto amato, dice, e fu giusto così, perché se fosse stato ancora vivo avrebbe concretizzato ciò che il poeta aveva sperato. La regione alla sinistra del Rodano, dove le sue acque si mischiano con il Sorga (la Provenza), l'avrebbero avuto per Signore, così come la penisola italiana con le sue città fortificate, tra cui cita Bari, Gaeta e Catona. Già aveva ereditato dalla madre il trono d'Ungheria, quella terra attraversata dal Danubio che sta oltre i confini della Germania. La bella Sicilia, che si sporca di caligine tra Pachino e Peloro per i fumi dell'Etna, che è battuta dallo scirocco non per causa di Tifeo (come racconta Ovidio), ma per lo zolfo che esce dal sottosuolo, avrebbe ancora suoi sovrani, nati attraverso lui da Carlo e Rodolfo, perché il malgoverno non avrebbe scatenato a Palermo la guerra del vespro siciliano. Se suo fratello Roberto tenesse a mente la lezione di Palermo, sostiene sempre l'anima, si guarderebbe bene dal circondarsi di funzionari catalani, che con la loro avarizia, unita alla sua, governano male il popolo; bisognerebbe provvedere che alla sua barca, già carica della sua avarizia, non venga aggiunto altro carico, cioè l'avarizia dei funzionari; lui discende da una dinastia liberale, è però nato avaro e avrebbe bisogno di collaboratori non preoccupati solo di accumulare ricchezze nei forzieri. A fare questo discorso è Carlo Martello, principe angioino vissuto tra il 1271 e il 1295, che Dante aveva conosciuto a Firenze; egli fu erede di vasti possedimenti (Provenza, Italia meridionale, Sicilia e Ungheria) e si distinse per capacità e liberalità nel governo di Napoli; le speranze che portava con sé si spensero però presto, infatti morì di peste a soli ventiquattro anni. Nelle sue parole Dante mostra tutte le speranze che in lui aveva riposte e le usa per introdurre l'argomento dei versi successivi, il motivo per cui da un buon padre possa nascere un cattivo figlio.
Dante manifesta la propria gioia nel sapere che Carlo Martello possa vedere in Dio la letizia procuratagli dal suo discorso, inoltre manifesta il piacere di saperlo tra i beati; fatta questa premessa, gli chiede come possa da un buon padre nascere un cattivo figlio (com' esser può di dolce seme amaro). Carlo gli risponde che, riuscendo a mostrargli una verità fondamentale, riuscirà a fargli capire ciò che vuole sapere, così lui avrà il viso rivolto dove ora è la schiena (quindi non darà più le spalle alla verità). Fatta la premessa, gli spiega che Dio, il Bene che governa tutto il Paradiso, fa in modo che dagli astri discenda una virtù influente sulle creature; nella Sua mente non sono determinate solo le varie nature, ma anche i loro fini, così come la freccia è scoccata verso un bersaglio preciso; se così non fosse, gli astri coi loro effetti non produrrebbero cose fatte con sapienza (arti), ma disastri (ruine), e questo non può essere perché significherebbe che le intelligenze dei vari cieli sono imperfette, presupponendo l'imperfezione dell'intelligenza prima, quindi di Dio. Data questa prima spiegazione fondamentale, Carlo chiede a Dante se vuole ulteriori chiarimenti sulla questione. Il poeta dice di no, è infatti evidente che la natura non possa fallire in ciò che è necessario. L'anima a questo punto gli chiede se fosse peggio per l'uomo non vivere in società ("Ond'elli ancora: <<Or dì: sarebbe il peggio / per l'omo in terra, se non fosse cive?>>"). Il poeta sostiene di sì e dichiara di non aver bisogno di chiedere ragioni, tanto è sicuro della cosa. A questo punto Carlo dice che sarebbe impossibile per l'uomo vivere in società se non ci fossero sulla Terra persone con diverse inclinazioni, a meno che Aristotele non abbia scritto cose sbagliate, per questo è necessario che i figli siano diversi dai padri, che uno nasca Solone e l'altro Serse, un altro Melchisedech (sacerdote e re di Salem) e un altro Dedalo; i cieli esercitano le loro influenze senza tenere conto della famiglia e del casato, per questo i gemelli Esaù e Giacobbe poterono essere così diversi, o Romolo poté essere nato da un ignoto plebeo e non da Marte, come invece sostenevano i Romani; se non fosse per il volere divino, i figli seguirebbero lo stesso cammino dei padri. Dopo aver chiarito a Dante il suo dubbio, Carlo gli dimostra di gradire la sua presenza donandogli un'ulteriore informazione: la natura, se si trova in un ambiente sfavorevole, dà un cattivo frutto, così come il seme che cade su un terreno a lui poco adatto, perciò se il mondo seguisse l'inclinazione naturale delle persone, invece di forzarle, avrebbe le persone giuste al posto giusto; ma gli uomini torcono sempre le cose, forzando alla vita religiosa chi è nato per combattere e facendo re chi è portato per la religione, per questo il loro cammino ha deviato dalla giusta strada.

Francesco Abate 

domenica 4 agosto 2019

COMMENTO AL CANTO VII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

<<Osanna, sanctus Deus sabaoth,
superillustrans claritate tua
felices ignes horum malacoth!>>
Il canto VII inizia con questi versi, intonati dalle anime del cielo di Mercurio, i quali sono in latino ma contengono anche due parole ebraiche, sabaoth e malacoth; è un inno frutto dell'invenzione del poeta, ma si ispira al Sanctus della Messa. Il significato del canto intonato dalle anime è: <<Osanna, o santo Dio degli eserciti, che illumini dall'alto con la tua chiara luce i beati splendori di questi regni>>. Giustiniano gira su se stesso al ritmo del proprio canto e su di lui si congiunge una doppia luce. Circa la natura di questa doppia luce, ci sono due diverse interpretazioni: quella più comunemente accettata vuole che siano la luce propria dell'anima e quella che da Dio è donata a ciascuno spirito affinché possa sostenere la visione beatifica; secondo un'altra interpretazione, è invece un riferimento alla doppia gloria dell'imperatore, che fu virtuoso nelle leggi e nelle armi. Tutte le anime danzando si allontanano velocemente, seguendo il ritmo della danza di Giustiniano. 
Viste andar via le anime, Dante resta in preda a un dubbio. Dentro di sé una voce lo sprona a chiedere chiarimenti a Beatrice, la guida che placa la sua sete di sapere, ma il profondo rispetto che per lei prova lo spinge a chinare il capo, come farebbe un uomo che si appisola, solo al sentire una parte del suo nome ("Io dubitava, e dicea <<Dille, dille!>> / fra me, <<dille>> dicea, <<a la mia donna / che mi disseta con le dolci stille>>; / ma quella reverenza che s'indonna / di tutto me, pur per Be e per ice, / mi richinava come l'om ch'assonna"). Beatrice sopporta per poco di vedere Dante in preda al dubbio e all'indecisione, quindi lo illumina con un sorriso che renderebbe felice un uomo tra le fiamme e gli risponde senza che lui chieda.
Il dubbio che ha Dante, che Beatrice scorge senza timore di sbagliare perché vede tutto in Dio, riguarda il fatto che sia considerata giusta la punizione di un atto considerato a sua volta giusto; in pratica il poeta non capisce perché, se fu giusto che Gesù morisse in croce, fu anche giusto che gli Ebrei fossero puniti per averlo ucciso. Beatrice esprime questo dubbio al posto del suo protetto e lo invita ad ascoltare le sue parole, che gli riveleranno una grande verità. Gli spiega che Adamo, l'uomo che non nacque, per non tollerare la limitazione vantaggiosa della sua libera volontà, dannò sé stesso e tutta la sua discendenza, per questo l'umanità giacque spiritualmente inferma per secoli, immersa nell'oscurità ("Per non soffrire a la virtù che vole / freno a suo prode, quell'uom che non nacque, / dannando sé, dannò tutta sua prole; / onde l'umana specie inferma giacque / giù per secoli molti in grande errore"). Questa condizione di smarrimento spirituale durò finché non scese sulla Terra Gesù, generato per opera dello Spirito Santo (etterno amore), il quale unì in sé la natura divina e quella umana, che si era allontanata da Dio. Beatrice spiega che la natura umana fu creata senza vizio e fu cacciata dall'Eden perché col peccato originale si era allontanata dalla strada della grazia; essa, unita alla natura divina, così com'era in Cristo, tornò alla sua purezza. Se si giudica perciò la pena della croce rispetto alla natura assunta, cioè quella umana, nessuna pena fu mai più giusta; se si guarda invece alla persona a cui essa fu inflitta, cioè a Gesù, allora non poteva essere più ingiusta. Dalla stessa azione, la crocifissione di Cristo, scaturirono due effetti diversi: essa piacque a Dio, che vide soddisfatta la sua giustizia, e piacque ai Giudei, che sfogarono il loro odio contro Gesù. Per l'orrore suscitato da questo delitto, la terra tremò, ma contemporaneamente vi fu la redenzione dell'umanità  (e 'l ciel s'aperse). Non deve perciò sorprendersi, conclude Beatrice, se si dice che la giusta vendetta fu giustamente punita da un giusto tribunale.
Soddisfatto il dubbio di Dante, Beatrice si rende subito conto che ne è nato un altro e glielo fa notare. Il poeta si chiede perché Dio abbia voluto redimere l'uomo in questo modo, col sacrificio di suo Figlio ("Ma io veggi' or la tua mente ristretta / di pensiero in pensier dentro ad un nodo, / del qual con gran disio solver s'aspetta. / Tu dici: "Ben discerno ciò ch'i' odo; / ma perché Dio volesse, m'è occulto, / a nostra redenzion pur questo modo""). Gli spiega la donna che la spiegazione di questo enigma, che è uno dei principali misteri della fede, non può essere compresa da chi si affida solo all'ingegno umano e non sa affidarsi alla viva fede (la fiamma d'amor). Nonostante l'inadeguatezza del poeta (il Veramente con cui si apre il verso 61 significa tuttavia, dal latino verumtamen), lei gli spiegherà perché quello fu il modo più giusto. La divina bontà, che da sé rigetta ogni livore, ardendo nella sua infinità carità, risplende e manifesta le bellezze eterne; ciò che da essa è direttamente creato, è eterno, perché la sua impronta non si cancella; ciò che da essa è direttamente creato, è libero, perché non soggiace alle influenze dei cieli. Più la cosa creata somiglia a Dio e più gli piace, perché in essa risplende maggiormente la virtù creatrice. L'uomo si avvantaggia di tutte e tre le prerogative delle cose create direttamente da Dio: eternità, libertà e somiglianza a Dio; se una delle doti viene meno, egli decade dalla sua condizione di nobiltà ("Di tutte queste dote s'avvantaggia / l'umana creatura, e, s'una manca, / di sua nobiltà conven che caggia"). Solo il peccato ha il potere di privare l'uomo della libertà (la disfranca), rendendolo diverso da Dio perché del Suo lume risplende poco. L'uomo non recupera la dignità perduta se non riempie il vuoto creato dalla colpa pagando una giusta pena ("Solo il peccato è quel che la disfranca, / e falla dissimile al sommo bene, / per che del lume suo poco s'imbianca; / ed in sua dignità mai non rivene, / se non riempie, dove colpa vota, / contra mal dilettar con giuste pene"). Quando Adamo peccò, lo fece tutta l'umanità, e per questo fu cacciata dal Paradiso terrestre e perse la sua dignità. Per l'umanità non era possibile recuperare ciò che aveva perduto senza passare per una di queste due strade: o che Dio per misericordia perdonasse il peccato commesso, o che l'uomo con le sue forze riuscisse a riparare. Essendo un ragionamento difficile da seguire, Beatrice lo interrompe un attimo per esortare Dante a seguirla attentamente e ficcare lo sguardo dentro al mistero divino ("Ficca mo l'occhio per entro l'abisso / de l'eterno consiglio, quanto poi / al mio parlar distrettamente fisso"). Riprende poi la spiegazione, dicendo che l'uomo nella sua piccolezza non avrebbe mai potuto rimediare a una colpa commessa nei confronti di Dio, mai avrebbe potuto umiliarsi tanto da compensare l'arroganza che lo aveva portato al peccato originale; quindi l'uomo non poteva rimediare con le proprie forze. Essendo impossibile all'uomo rimediare, l'unica possibilità di redenzione derivava da Dio, che poteva donarla o attraverso la giustizia, o attraverso la misericordia, o con entrambe insieme. Siccome un'opera è tanto più gradita quanto più rivela la bontà di chi la compie, Dio fu contento di redimere l'umanità usando entrambe le sue vie, quindi sia giustizia che misericordia. Dal giorno della creazione a quello del giudizio universale, non ci fu e non ci sarà un'azione divina così magnifica né per la giustizia né per la misericordia; Dio fu più misericordioso dando sé stesso per redimere l'uomo di quanto sarebbe stato se l'avesse semplicemente perdonato; e nessuna azione di giustizia sarebbe stata sufficiente alla redenzione se il Figlio di Dio non si fosse incarnato.
Terminata la spiegazione circa la via della redenzione, Beatrice previene un'obiezione di Dante. Lei ha detto che tutto ciò che è creato direttamente da Dio è eterno, ma il poeta, ragionando con l'intelletto umano, a questo punto potrebbe chiedersi perché i quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) e tutto ciò che generano si corrompe e svanisce, mentre stando alle parole della donna dovrebbero essere eterni. Beatrice gli spiega che gli angeli e i corpi celesti si possono dire creati nell'interezza del loro essere direttamente da Dio, invece gli elementi del mondo sensibile sono una creazione indiretta, in quanto ricevono il loro principio formale dall'influsso dei cieli: solo la loro materia prima fu direttamente creata, così come la virtù informale degli astri. L'anima vegetativa e sensitiva, proprie di ogni bestia e ogni vegetale, ricevono la vita dall'influsso degli astri; gli uomini invece hanno anche l'anima intellettiva, che gli viene infusa direttamente dal sommo bene, che la fa innamorare di sé al punto da farle desiderare ardentemente il ricongiungimento ("L'anima d'ogne bruto e de le piante / di complession potenziata tira / lo raggio e 'l moto de le luci sante; / ma vostra vita sanza mezzo spira / la somma beninanza, e la innamora / di sé sì che poi sempre la disira").
In base alle ultime rivelazioni, conclude Beatrice, Dante può dedurre come sia possibile la resurrezione dei corpi. Gli basta pensare come furono creati Adamo ed Eva (li primi parenti), i quali furono creati direttamente da Dio e dopo la Passione di Cristo riacquistarono la prerogativa dell'eternità.

Francesco Abate