martedì 30 gennaio 2018

RECENSIONE DE "IL GIRO DI VITE" DI HENRY JAMES

Il giro di vite di Henry James non è una semplice storia di fantasmi. Nonostante la trama si presenti per niente originale, si tratta infatti della storia di un'istitutrice che si ritrova in una casa infestata da due spettri, il modo in cui è scritta e lo svolgimento della narrazione rendono il romanzo una lettura estremamente particolare.

Come già detto, la storia è molto semplice. Una giovane donna viene assunta come istitutrice da un ricco uomo d'affari, che le affida la cura dei due giovanissimi nipoti, Flora e Miles. I piccoli vivono in una villa dell'Essex, a nord di Londra. Ben presto l'istitutrice scopre che vi sono due presenze demoniache che incombono sui due bambini e inizia la sua lotta per salvarli. 
Lo so che della trama ho detto molto poco, ma svelando di più finirei per smontare tutto il pathos creato dall'autore, il resto dovrete scoprirlo da voi.

A rendere Il giro di vite una lettura interessante e, a suo modo, affascinante, è il modo in cui l'autore narra i fatti. Il romanzo ha infatti una struttura disomogenea e presenta molte ambiguità, così come anche lo stile di scrittura si rivela molto particolare.
L'opera inizia con un capitolo 0, un prologo in cui vediamo un dei giovani che trascorrono insieme la vigilia di Natale e per passare il tempo si raccontano storie dell'orrore attorno al focolare. Uno di questi promette di leggerne loro una terribile e si fa arrivare il diario dell'istitutrice protagonista della vicenda principale. Dal capitolo 1 inizia il racconto della terribile storia vissuta dall'istitutrice, raccontata dalle sue stesse parole contenute nel diario. Fin qui niente di particolare, si tratta di un'espediente narrativo molto comune nella letteratura. La particolarità sta nel fatto che dei ragazzi del capitolo 0 non viene detto più nulla. Essendoci il prologo, in cui i ragazzi iniziano ad ascoltare la storia letta dal loro amico, dovrebbe esserci alla fine un epilogo, in cui vengano descritte le reazioni al racconto stesso. Questo non accade, dopo il capitolo 0 non c'è più traccia dei giovani che ascoltano e di quello che legge, niente si sa più di loro. 
Se la storia "secondaria" rimane sospesa, non spetta diversa sorte a quella principale. Il racconto finisce lasciando il lettore con più domande che risposte, non è nemmeno chiaro se alla fine i fantasmi ci sono davvero o sono solo il frutto dell'immaginazione dell'istitutrice. Confesso di essere rimasto così sorpreso da aver indagato un po', pensando di essere stato io a non capire, ed ho scoperto che tra i tanti lettori e commentatori di James c'è stato un dibattito lunghissimo proprio riguardo la natura delle apparizioni descritte. Per alcuni sono frutto dell'immaginazione dell'istitutrice, che quindi coinvolge nelle sue paranoie due inconsapevoli bambini; per altri sono reali. Nel corso degli anni non sono mancati poi i commentatori che hanno visto dei richiami alle teorie psicanalitiche di Freud nelle apparizioni, vedendole quindi come frutto della psiche disturbata dell'istitutrice. Perfino il comportamento della protagonista nei confronti dei bambini è stato interpretato da molti come frutto di una libido repressa. Tante sono le teorie affascinanti, quel che resta è l'assoluta indeterminatezza del finale.
Non solo la trama del romanzo presenta ambiguità, anche lo stile narrativo si presta a delle riflessioni. Il capitolo 0 è scritto in un linguaggio sciolto e scorrevole, scelta logica da parte di James visto che il narratore è un ragazzo in vacanza. Il diario dell'istitutrice invece, quello che ci racconta la vicenda spaventosa, è scritto in uno stile molto ricercato. Stando alla storia, la protagonista scrive molti anni dopo di fatti spaventosi e tragici, riesce quindi difficile trovare coerente una scrittura ben curata nei termini utilizzati e nello stile. Leggendo le parole e trascurandone il senso, più che leggere le memorie dolorose di una mente ancora sconvolta sembra di trovarsi al cospetto del diario di una calma donna anziana desiderosa di conservare memorie normali, quasi banali. La stessa descrizione fatta dei fantasmi è costruita in modo tale da non comunicare il terrore che, di fronte ad un evento sovrannaturale, ci si aspetterebbe nella protagonista. I fantasmi non hanno un aspetto orribile e non basta nemmeno il ricordo di chi ne ha avuto paura a trasfigurarli, o almeno non sono descritti come in genere si descrive qualcosa di spaventoso. Anche il modo in cui l'istitutrice ricorda nel suo diario gli spettri, evidenziandone particolari estetici banali e per niente mostruosi, avvalora la tesi che li vuole frutto della sua immaginazione.

Il giro di vite è una lettura diversa da tutte le altre, unica nel suo genere. Normalmente si legge un romanzo gotico per intrattenersi con una storia avvincente, che incolli alle pagine e riesca a tenere l'animo in sospeso tra paura e curiosità. Ne Il giro di vite di paura ce n'è ben poca, sia la trama che lo stile, tanto ricercato da risultare a volte pesante, non creano nel lettore alcuno stato di tensione. E' un romanzo che ha però il merito di incuriosire. Dapprima si fa leggere con voglia, pur destando nella mente del lettore qualche perplessità, poi lascia in preda a tante domande. Si tratta di una lettura agrodolce, che comunque consiglio per trascorrere qualche ora quando si ha voglia di leggere qualcosa di più leggero.

Francesco Abate 

domenica 28 gennaio 2018

COMMENTO AL CANTO XIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era già fioco.
Il canto XIV si apre con Dante che, per compassione nei confronti del suo concittadino suicida, raccoglie le fronde spezzate e gliele pone vicino. La voce proveniente dal cespuglio è ormai già fioca. 
Compiuta l'opera di carità, il poeta e la sua guida arrivano laddove il secondo girone si divide dal terzo. Si trovano in una zona totalmente priva di vegetazione ("una landa / che dal suo letto ogne pianta rimove"). La selva dei suicidi circonda questo girone così come il Flegetonte circondava la selva stessa ("La dolorosa selva l'è ghirlanda / intorno, come 'l fosso tristo ad essa"). I poeti si fermano rasente la sabbia perché è infuocata. Così Dante ci descrive la sabbia del terzo girone, quello in cui sono puniti i violenti contro Dio: "Lo spazzo era una rena arida e spessa, / non d'altra foggia fatta che colei / che fu' da' piè di Caton già soppressa". Dante ci fa un paragone tra la sabbia arida del terzo girone e quella del deserto libico, la quale fu calpestata da Catone al comando dell'esercito di Pompeo. La descrizione del girone continua poi con un'invocazione: "O vendetta di Dio, quanto tu dei / esser temuta da ciascun che legge / ciò che fu manifesto a li occhi miei!". Rivolgendosi alla vendetta divina, Dante in realtà si rivolge a noi e ci ammonisce dicendoci che quel che lui vede, e che trascrive, deve portarci a temere la vendetta di Dio. Il poeta vede un gran numero di anime nude, tutte piangono, ma ognuno ha una posizione diversa. Dobbiamo ricordare che i violenti contro Dio non sono solo i bestemmiatori, ma anche gli usurai e i sodomiti, cioè coloro che vissero contro natura. I dannati sono quindi divisi in tre gruppi: i bestemmiatori giacciono distesi supini sulla sabbia rovente, gli usurai stanno seduti e raccolti in sé stessi, i sodomiti invece corrono senza sosta ("Supin giacea in terra alcuna gente, / alcuna si sedea tutta raccolta, / e altra andava continuamente"). I sodomiti sono in numero maggiore, meno sono i bestemmiatori che però imprecano per il dolore. Dal cielo cade sui dannati una pioggia di fuoco, idea che può essere stata suggerita a Dante dall'episodio biblico della distruzione di Sodoma e Gomorra. La pioggia che cade non è però violenta è fitta, è lenta, così da permettere alle fiamme di essere più larghe. Per rendere l'idea della lentezza della pioggia di fuoco, Dante fa il paragone con la neve che cade sulle Alpi in assenza di vento. Con questo paragone il poeta, richiamando alla mente il freddo, accentua anche il contrasto con la pena che patiscono i dannati in questo girone. La pioggia infuocata finisce per far ardere anche la sabbia, così che il dolore si raddoppi. Per descrivere come il fuoco faccia ardere la sabbia, Dante rievoca un episodio leggendario riguardante Alessandro Magno. In un'epistola attribuita al grande sovrano macedone e indirizzata ad Aristotele, Alessandro racconta di esser stato sorpreso da una nevicata molto forte, tanto da essere costretto ad ordinare ai suoi uomini di calpestare la neve; successivamente è arrivata una pioggia di fuoco e il re ha ordinato ai suoi soldati di difendersi con le vesti. Questa leggenda nel Medioevo fu stravolta, fondendo i due eventi in uno unico che vedeva i macedoni impegnati a calpestare il fuoco che pioveva dal cielo affinché tante piccole fiamme non si unissero a formare un grosso incendio. Quello che i macedoni evitarono nella leggenda, non possono evitarlo i dannati di questi gironi, che vengono colpiti dalla pioggia di fuoco e contemporaneamente sono arsi dalla sabbia rovente. Il poeta ci narra di come i dannati agitino senza sosta le mani nel vano tentativo di togliersi di dosso le fiamme che li colpiscono.
Guardando i dannati, Dante nota che ce n'è uno che sembra non curarsi del fuoco che lo tormenta e subito chiede spiegazioni a Virgilio ("I' cominciai: << Maestro, tu che vinci / tutte le cose, fuor che ' demon duri / ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci, / che è quel grande che non par che curi / lo 'ncendio e giace dispettoso e torto, / sì che la pioggia non par che 'l marturi? >>"). Da notare che il poeta inizia la sua richiesta magnificando Virgilio, salvo poi evitare di eccedere ricordando l'episodio della porta di Dite, dove la sua guida non ha potuto nulla senza l'intervento divino. Il concetto che viene così ribadito è che anche il grande deve essere umile innanzi a Dio, per l'autore è fondamentale esprimere questa idea laddove sono puniti coloro che non ebbero in vita tale umiltà. Nella sua richiesta va sottolineato come il poeta ribadisca che il dannato "non par" curarsi della pena e "non par" soffrire, indicandoci quindi come sia evidente che egli stia simulando, che si sforzi di tenere un'aria orgogliosa e differente, ma stia in realtà patendo il dolore. Il dannato in questione è Capaneo, personaggio della Tebaide del poeta latino Stazio. Nell'opera Capaneo è uno dei sette re che assedia la città di Tebe per ridare il regno a Polinice e proprio sulle mura della città è abbattuto da un fulmine di Giove, a cui ha lanciato una sfida. Proprio Capaneo risponde a Dante, evitando che sia Virgilio a rispondere, ma piuttosto che rivelare la propria identità si preoccupa di fare un discorso in cui cerca di apparire indifferente alla propria pena, mostrandosi ancora una volta irrispettoso nei confronti di Giove. Esordisce dicendo che, così come fu audace in vita, lo è ora da morto. Mostra poi tutta la sua arroganza dicendo che, anche se Giove usasse tutte le folgori di Vulcano, chiedendo a lui disperatamente aiuto, se anche usasse tutta la sua forza, non riuscirebbe a vederlo umiliato. L'arroganza di Capaneo è senza limiti, nonostante sia stato già sconfitto, dichiara di non temere la furia di Giove e per farlo descrive un episodio immaginario in cui il dio agisce preoccupato e intimorito dal nemico. Sentite le parole di Capaneo, Virgilio interviene con un ardore che mai prima d'ora aveva manifestato, dicendogli che il persistere della sua superbia e della sua rabbia sono la punizione più dura che gli spetta per la sua empietà. Virgilio si rivolge poi a Dante, gli spiega chi sia il dannato, infine gli raccomanda di venirgli dietro senza però mai mettere i piedi sulla sabbia ardente, devono camminare sempre lungo il bosco.
Camminando in silenzio, arrivano in una parte della selva dove dal suolo esce un piccolo fiumicello di colore così rosso da essere raccapricciante. Si tratta di una piccola diramazione del Flegetonte, il fiume di sangue. Per permetterci di avere un'immagine del fiumicello, Dante fa il paragone con il Bulicame, una vena di acqua sulfurea a 65°C che sgorga da una fessura posta sulla sommità di una collina a pochi chilometri da Viterbo. Da questa vena le ortolane ("le pettatrici") tracciavano dei solchi, così da far arrivare l'acqua dove volevano e poterci macerare canapa o lino. Così come si dividevano i solchi dal Bulicame, così quel piccolo ramo del Flegetonte scende e si divide. Il fondo e le pendici del ruscello sono in pietra e Dante si accorge che ci si può camminare senza bruciarsi i piedi. Virgilio a questo punto interrompe il silenzio, dice che tra le tante cose che ha mostrato a Dante, niente è così stupefacente come quel corso d'acqua che col suo vapore spegne le fiamme che piovono dall'alto. Dante, incuriosito, chiede "che mi largisse 'l pasto / di cui largito m'avea il disio", cioè che gli chiarisca ciò che ha appena detto. Virgilio allora spiega che in mezzo al Mediterraneo vi è l'isola di Creta ("un paese guasto", ormai in rovina) che visse l'età dell'oro. Secondo la leggenda, l'età dell'oro fu quella segnata dal regno di Saturno sul mondo, un'era in cui non c'era odio e non c'era bisogno di lavorare per vivere, e terminò con l'avvento di Giove sul trono degli dei. Al centro dell'isola vi è il monte Ida, adesso deserto ma un tempo fertile. Sull'Ida Rea mise al riparo Giove per evitare che Saturno lo divorasse, facendo suonare e cantare le Coribanti affinché coprissero i vagiti del neonato. Sul monte c'è un gran veglio, riferimento alla statua del Veglio di Creta, che tiene le spalle rivolte verso oriente e guarda verso Roma. Questa statua ha la testa d'oro, le braccia e il petto d'argento, l'addome è di bronzo, le gambe di ferro e il piede destro di terracotta. La statua poggia solo sul piede destro, l'altro lo tiene eretto. Le varie parti della statua, eccetto quella d'oro, sono rotte da una fessura da cui sgorgano lacrime. Cadendo al suolo, queste lacrime hanno scavato una grotta e sono arrivate fino all'Inferno, formando l'Acheronte, lo Stige e il Flegetonte; scendendo poi ancor più giù hanno formato il Cocito, che Dante vedrà e di cui ora Virgilio non gli parla. E' necessario rivedere meglio tutta la spiegazione che l'autore dà sull'origine dei fiumi infernali, perché vi è un'allegoria della storia. Creta nella leggenda fu il centro dell'età dell'oro, la statua rappresenta il corso della storia umana: vi è prima l'età dell'oro, poi quella dell'argento (era di uomini stolti che litigavano e non veneravano le divinità, per questo furono eliminati da Giove), successivamente l'età del bronzo (età degli uomini prepotenti e violenti che si estinsero a causa delle continue guerre), poi venne quella del ferro (che dovrebbe essere l'età contemporanea, quella della miseria, in cui l'uomo deve lavorare per vivere). C'è poi il piede di terracotta, che rappresenta il peccato originale ed è quello che ancora l'uomo alla terra, infatti dei due piedi della statua è l'unico a poggiare al suolo. La statua volge le spalle a oriente e guarda a Roma, perché l'impero, quindi la chiave del potere temporale, passa dalla Grecia a Roma. La vecchia natura umana piange attraverso la fessura, queste lacrime formano i fiumi infernali ed il Cocito. La miseria umana è quindi l'origine dei fiumi infernali, così come è origine dell'Inferno stesso. 
Udita la spiegazione di Virgilio, Dante non si spiega l'origine di questo fiumiciattolo. Egli non si è ancora reso conto che si tratta del Flegetonte, lo stesso fiume guadato con l'aiuto di Nesso e custodito dai centauri. Virgilio gli spiega che i cerchi infernali sono concentrici, sono tondi, quindi non deve meravigliarsi che pur avendoli percorsi quasi tutti possa ancora trovare cose nuove. Dante chiede ancora dove siano il Lete, che Virgilio non ha nominato, e il Flegetonte, che è originato dalle lacrime del Veglio di Creta. La guida dice che il rossore di questo corso d'acqua avrebbe dovuto fargli capire di essere in presenza del Flegetonte, il Lete invece sta alla sommità del Purgatorio, "là dove vanno l'anime a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa". Alla fine Virgilio dice che è tempo di lasciare la selva, raccomanda a Dante di seguirlo e di camminare sul sentiero di pietra.

Francesco Abate 

lunedì 22 gennaio 2018

RECENSIONE DI "DELITTO E CASTIGO" DI FEDOR DOSTOEVSKIJ

Leggere un romanzo russo vuol dire quasi sempre fare una passeggiata nei punti più oscuri dell'animo umano. Si tratta di un viaggio che può sconvolgere, ma finisce sempre per appassionare ed arricchire il lettore.
Dei tanti romanzi russi celebri, Delitto e Castigo penso si possa considerare uno dei più moderni, nonostante sia stato scritto nel 1865. Viviamo infatti in un'epoca in cui il mondo cambia a grande velocità e i temi che Dostoevskij affronta in questo romanzo sono proprio figli di grandi cambiamenti che investirono la Russia in quegli anni. Negli anni '60 dell'Ottocento infatti vi furono grandi mutamenti socio-culturali in Russia. Il più drammatico fu forse la riforma contadina, che liberò i contadini dallo stato di servitori della gleba, non gli diede però la terra e li spinse a riversarsi tutti in città, arricchendo così le fila del proletariato urbano ed aumentando nelle città la miseria con tutti i fenomeni ad essa connessa (alcolismo, gioco d'azzardo, prostituzione, ecc.). 
Il drammatico cambiamento sociale che ho descritto sopra è mostrato in tutto il suo oscuro squallore nel romanzo. La Pietroburgo in cui si muove il protagonista, il giovane ex studente Raskol'nikov, è quella dei quartieri malfamati, delle bettole piene di ubriaconi e prostitute, di gente che chiede l'elemosina in strada e di un infinito squallore morale.

Come sempre accade nei romanzi di Dostoevskij, ad ispirare il romanzo non furono solo considerazioni sulla società. Delitto e Castigo analizza prima di tutto gli effetti del nichilismo sull'animo umano, per farlo lo porta alle estreme conseguenze e lo mostra senza filtri, aprendo davanti agli occhi del lettore il flusso dei pensieri del protagonista. 
Raskol'nikov, ragazzo molto colto, matura un convincimento estremo: l'uomo di grande valore, quello che si distingue dalla massa, ha il diritto di passare sulla vita delle altre persone, che lui stesso non esita a definire "pidocchi". Il ragionamento che porta il protagonista ad una conclusione tanto forte ha un suo senso: i grandi uomini del passato, oggi celebrati come liberatori, o comunque eroi, spesso sono passati sopra tante vite senza neanche pensarci troppo, eppure la storia non li condanna. Napoleone, grande imperatore citato spesso ad esempio dal protagonista, è giudicato dalla storia un grande uomo e poco importa ai fini di questo giudizio le tante vittime che ha dovuto mietere per compiere la sua ascesa. Mancando le leggi morali che il nichilista disconosce (morale e religione), è corretto dire che per un fine superiore, il grande uomo può scegliere di versare il sangue di un "pidocchio". Raskol'nikov sente di essere destinato a grandi cose, ritiene quindi giusto uccidere una vecchia e avida usuraia per rubarle i soldi necessari per riprendere la carriera universitaria, ricominciando così la sua marcia verso le grandi imprese che sente di poter compiere. L'omicidio non ha però come unico scopo la rapina, è una prova: riuscendo ad uccidere senza intoppi e rimorsi, Raskol'nikov dimostrerebbe a sé stesso di essere un grande uomo, non un "pidocchio". Mai il protagonista si pente per l'omicidio commesso, non ritiene importante l'aver reciso una vita, il suo unico rammarico è non riuscire a gestire la pressione dell'inchiesta a suo carico. La debolezza dei suoi nervi e la sua incapacità di vivere nascondendo senza problemi il delitto lo convincono di essere a sua volta un "pidocchio", un uomo comune privo di alcuna grandezza, soggetto quindi alle leggi umane e morali. La vicenda di Raskol'nikov si conclude con una sorta di rivelazione, infatti la bontà infinita di Sonja e l'amore che scopre di provare per lei, scacciano dal suo animo le convinzioni nichilistiche e lo riportano alla realtà.
Nonostante la decisione tanto radicale, Raskol'nikov è molto simile a chiunque di noi. Egli è sicuro, ma allo stesso tempo è continuamente lacerato dai dubbi. Il suo stesso cognome deriva dal sostantivo russo raskol, che vuol dire "scissione". Decide di fare l'omicidio, poi cambia idea, infine lo fa. Tutte le sue decisioni passano per queste lunghe discussioni con sé stesso e molte volte, nonostante sia sicuro delle sue idee, finisce per agire in preda ad una sorta di delirio, come se forzasse sé stesso all'azione.
Visto lo sviluppo della trama e la maturazione che subisce l'animo di Raskol'nikov, è lecito dire che Dostoevskij con Delitto e Castigo mette in guardia dall'abbracciare teorie nichilistiche troppo radicali, dal rinnegare completamente la morale e le leggi, e come rimedio ultimo all'abbandono di ogni umanità ci indica l'amore incondizionato. A Raskol'nikov questa risposta, questo amore che distrugge l'estremo egoismo, lo mostra Sonja.

Seppur centrale, la vicenda del delitto di Raskol'nikov non è l'unica del romanzo. Essa si intreccia con quelle della sua famiglia e di quella di Sonja. 
Sua sorella Dunja è fidanzata con il ricco avvocato Luzin, il quale però si mostra un villano. Luzin è a suo modo il contrario di Raskol'nikov, egli infatti abbraccia in pieno le leggi morali del suo tempo, lo fa però per convenienza, in realtà non ha alcuno scrupolo e non esita ad accanirsi sui più deboli pur di raggiungere i propri scopi. Liberatasi di Luzin, è poi insidiata da Svidrigajlov, un nobiluomo per cui ha lavorato in passato e per causa di cui fu coinvolta in uno scandalo. Svidrigajlov è un depravato privo di alcuna morale, non esita ad abusare del suo potere e ad usarlo su donne e ragazzine, finisce però divorato dal senso di colpa.
Per quanto concerne la famiglia di Sonja, essa vive una vicenda di miseria nera. Sua madre, Katerina Ivanovna, ha sposato in seconde nozze un funzionario alcolista e perdigiorno. Katerina continua a vivere nel passato, ricordando di esser stata una nobildonna istruita e ben vista in società, ma la sua vita scivola malinconicamente in una lurida miseria. Sonja per aiutare la sua famiglia è costretta a prostituirsi. Nonostante viva una condizione misera e ingiusta, Sonja mantiene una incredibile bontà ed è sempre pronta a sacrificarsi per gli altri. La sua bontà d'animo ed il suo amore incondizionato per il prossimo, mai corrotti dal lavoro meschino che è costretta a fare, si riveleranno la cura per l'animo malato di Raskol'nikov.

Oltre alle considerazioni di carattere sociale ed umano contenute nel romanzo, non mancano degli spunti considerabili autobiografici.
Il carattere della vecchia usuraia, che accumula ricchezze per lasciarle in eredità ad un monastero affinché le dicano messe in suffragio, richiama ad una vecchia zia dell'autore. In condizioni di miseria, Dostoevskij contava molto su tale eredità, salvo poi ricevere la sgradita sorpresa.
La morte di tisi di Katerina Ivanovna rimanda alla stessa sorte che toccò a sua moglie. Anche la deportazione e i lavori forzati furono un destino ben noto a Dostoevskij, che vi fu condannato per associazione sovversiva. 

Per concludere, io ho iniziato ad amare Dostoevskij dopo aver letto L'idiota e adesso posso dire di adorarlo. Lo scrittore russo riesce a trattare temi straordinariamente complessi con una scrittura scorrevole, la lettura è sempre piacevole e non stanca mai. Riesce a tenere anche il lettore sulle spine. Leggere Dostoevskij è sempre tempo ben speso, riesce infatti a regalare ore piacevoli ma non sprecate, impegnando in piacevoli riflessioni su questioni morali che oggi sono più attuali che mai.

 Francesco Abate

COMMENTO AL CANTO XIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
Il canto XIII inizia con i poeti che si ritrovano dentro un bosco. Nesso, il centauro che li ha aiutati a guadare il Flegetonte, non ha ancora ripercorso all'indietro il suo cammino che i due sono già immersi nell'oscura vegetazione. Non ci sono sentieri. La descrizione del bosco contrappone in ogni verso un elemento di natura viva ad uno di natura morta, che in quel luogo infernale regna. Non ci sono foglie, ma solo rami spogli; i rami non sono dritti, ma nodosi e storti; non ci sono frutti, solo spine velenose. Si tratta di un bosco dove regna la morte. Per rendere l'idea del luogo in cui si trova, Dante dice che i nidi delle bestie selvagge che vivono tra Cecina e Corneto non hanno sterpi così folti. Tra questa vegetazione morta e nodosa hanno il nido le Arpie, creature mitologiche già presenti in Omero, aventi volto di donna e corpo d'uccello. Nell'Eneide viene narrato come queste predissero ai Troiani, approdati sulle isole Strofadi (isole greche poste nel mar Ionio), future sventure e Dante nei suoi versi cita questo episodio nel momento in cui le presenta al lettore ("Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, / che cacciar de le Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno"). Virgilio spiega a Dante che sono finiti nel secondo girone (dove sono puniti i suicidi e gli scialacquatori) e lo sarà finché non arriverà "ne l'orribil sabbione", cioè nel terzo girone, dove c'è un'immensa distesa di sabbia su cui piovono fiamme. La guida invita poi Dante a guardare bene ciò che c'è intorno, così vedrà cose tanto orribili da non poter essere descritte con le parole. 
Dante si accorge di sentire lamenti venire da ogni parte, non vede però persone e non capisce chi sia ad emetterli. Confuso, si ferma. Virgilio crede che Dante sia convinto che vi siano persone nascoste tra la vegetazione e questo viene raccontato dal poeta con l'uso di un poliptoto: "Cred'io ch'ei credette ch'io credesse / che tante voci uscisser ...". Per mostrare a Dante che si sbaglia, Virgilio lo invita a rompere un pezzo di ramo. Senza farselo ripete, il poeta spezza un piccolo rametto da una grande pianta. Nel racconto della scena, al fine di aumentare la drammaticità del momento, l'autore riporta ogni minimo gesto compiuto. Non si limita a scrivere che spezzò un rametto, scrive: "Allor porsi la mano un poco avante / e colsi un ramicel da un gran pruno;". Nel momento in cui spezza il ramo, accade l'impensabile, il tronco grida "Perché mi schiante?" e inizia a perdere sangue. Dal momento in cui inizia a perdere sangue, il tronco riprende a parlare: "Perché mi scerpi? / non hai tu spirito di pietade alcuno? / Uomini fummo, e or siamo fatti sterpi: / ben dovrebb' esser la tua man più pia, / se state fossimo anime di serpi". Il tronco in pratica accusa Dante di essere crudele, lo informa che quelle sono anime mutate in piante e non semplici vegetali, alla fine lo rimprovera dicendogli che dovrebbe mostrare più pietà perfino se si trattasse di anime appartenute ad animali ripugnanti. Sentendo quelle parole uscire dalla ferita insieme al sangue, come il fischio emesso dal ramo che arde ("Come d'un stizzo verde ch'arso sia / da l'un de' capi, che da l'altro geme / e cigola per vento che va via, / sì de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue"), il poeta si spaventa e lascia cadere il pezzo di ramo che ha spezzato. Subito interviene Virgilio a discolparlo, spiega all'anima ferita che mai Dante le avrebbe fatto del male se lui non glielo avesse chiesto, gli dice poi che a malincuore lo ha spinto a spezzare quel ramo, ma aveva bisogno di mostrargli quale meraviglia celava quel bosco. Data questa spiegazione, la guida invita l'anima a rivelare la propria identità, così che Dante, al quale è concesso di tornare tra i vivi, possa farsi perdonare facendo rivivere il suo ricordo. L'anima in questione è quella di Pier della Vigna, fu giudice di corte a Palermo e Federico II di Svevia lo creò gran cancelliere imperiale. Nel 1246 fu nominato protonotaro e luogotenente di Federico II, con la facoltà di sostituire lo stesso imperatore nei giudizi. Oltre ad essere grande uomo di legge, fu un famoso poeta della scuola siciliana. Fu accusato di tradimento e arrestato, per questo si uccise nell'aprile del 1249. Secondo alcuni critici, tra cui Boccaccio, fu liberato dal carcere ma si uccise ugualmente a causa del disprezzo in cui era caduto. Pier della Vigna, convinto dalle parole di Virgilio, racconta la sua vita: dice di essere stato uomo di fiducia dell'imperatore Federico II e di essergli stato tanto vicino da escludere dalle decisioni supreme quasi tutti gli altri uomini ("Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e disserrando, sì soavi, / che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi"); ha dedicato alla sua mansione tanto impegno da perderci la tranquillità e la vita stessa, si presenta quindi come ucciso a causa del suo operato. Molto belli sono i versi con cui l'anima descrive la drammatica fase finale della sua vita: 
La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che lieti onor tornaro in tristi lutti.
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede.
Pier della Vigna inizia paragonando l'invidia ad una prostituta che non toglie mai gli occhi dall'impero. Fu questa invidia a mettergli tutti contro, questi cospiratori con false accuse gli misero contro l'imperatore e trasformarono la sua onorevole vita in un supplizio. Lo sdegno prodotto dalle false accuse lo portarono poi ad uccidersi. Il dannato conclude giurando di essere innocente e chiedendo a Dante di riabilitare la sua memoria nel mondo dei vivi. Finito il racconto, Pier della Vigna resta in silenzio. Virgilio invita Dante a chiedere ciò che vuole, ma questi gli chiede di far lui le domande che reputa possano interessare al suo allievo, infatti è troppo commosso per parlare. Virgilio allora chiede al dannato di descrivere come il corpo di un suicida finisca per mutarsi in vegetazione. Pier della Vigna inizia a soffiare dal tronco e quest'aria diventa parole, spiega che nel momento in cui l'anima è separata dal corpo a causa del suicidio, Minosse la destina al settimo cerchio. L'anima cade nella selva in un punto casuale e lì germoglia "come gran di spelta", cioè come il seme di una varietà di farro la cui caratteristica principale è quella di germogliare molto rapidamente. L'anima diventa così una pianta e le Arpie si cibano delle sue foglie, provocandole ferite e dolori. Pier della Vigna spiega poi che come le altre anime essi recupereranno il corpo mortale dopo il Giudizio Universale, ma non potranno rivestirsene perché "non è giusto aver ciò ch'om si toglie", lo trascineranno fin dentro la selva e questo sarà appeso sui rami della loro anima mutata in vegetale.
Dante e Virgilio stanno ancora ascoltando Pier della Vigna, convinti che abbia altro da aggiungere, quando sono attratti da un rumore. Vedono due anime correre per la selva, nude e graffiate, rompendo ogni ramo e ogni cespuglio. La scena richiama la caccia al cinghiale, con la preda che corre tra frasche e cespugli, rompendoli e graffiandosi. Stiamo per assistere alla pena a cui sono destinati gli scialacquatori, coloro che sperperarono i propri patrimoni e facendolo distrussero sé stessi. L'anima che sta più avanti invoca la morte perché consapevole del supplizio che sta per patire. Quella che sta più dietro invece gli fa notare, quasi schernendolo, che non fu così veloce nel fuggire quando lo uccisero alla Pieve del Toppo. I riferimenti sono pochi per stabilire a chi appartenga la prima anima, comunque i critici sostengono che si tratti di Lano senese, un giovane molto ricco che insieme ad alcuni suoi pari dissipò tutto il proprio patrimonio. Fu costretto per mantenersi a far parte di un gruppo di militari senesi mandati in aiuto ai fiorentini contro gli aretini e fu ucciso alla Pieve del Toppo, un contado di Arezzo. L'altro invece è Giacomo da Sant'Andrea, ricco ereditiere che dissipò il proprio patrimonio in modo sfrenato (si dice che per ritardare l'arrivo di certi ospiti, non essendo ancora pronto il sontuoso banchetto, fece incendiare alcune sue case lungo il tragitto che questi percorrevano) e fu a sua volta ucciso. I due fuggitivi, forse perché stanchi, smettono di fuggire e si mettono al riparo in un cespuglio. Intanto arriva una muta di cani feroci che li assale e li sbrana.
Virgilio avvicina Dante al cespuglio ferito da Giacomo da Sant'Andrea, qui il poeta lo sente chiedere all'anima appena dilaniata a cosa sia servito usarlo come riparo e che colpa ha lui della sua vita da dissipatore di beni. Virgilio chiede al cespuglio chi sia e questi, dopo aver chiesto loro di raccogliere ai suoi piedi le fronde spezzate, risponde. Si tratta di un anonimo cittadino fiorentino colpevole del peccato di suicidio. Molto belli sono i versi con cui l'anonimo fiorentino spiega la sua provenienza, accennando anche al destino di Firenze, città perennemente in guerra:
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo
sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Secondo l'anonimo fiorentino, Firenze è destinata ad essere sempre scossa dalle guerre perché, con l'avvento del Cristianesimo, scelse come proprio protettore san Giovanni Battista, mentre prima era il dio Marte. Firenze sarebbe già stata distrutta di nuovo (il fiorentino richiama una tradizione errata che voleva in passato la città distrutta da Attila, in realtà a distruggerla fu il re degli Ostrogoti, Totila) se non fosse rimasta in piedi vicino l'Arno una statua del dio Marte. A mio parere, sia la citazione errata di un episodio storico (che riprende una diceria esistente all'epoca, seppur errata) che l'importanza data all'ira di una divinità pagana, ci indica che il personaggio non sia un tipo particolarmente colto.

Francesco Abate

domenica 14 gennaio 2018

RECENSIONE DI "QUEL CHE RESTA DEL GIORNO" DI KAZUO ISHIGURO

Quel che resta del giorno è il romanzo più famoso dello scrittore britannico di origini giapponesi Kazuo Ishiguro. Dal libro è stato tratto anche il film omonimo nel 1993.
Confesso che non conoscevo lo scrittore ed è stata la recente attribuzione del premio Nobel per la letteratura a farmelo scoprire. Visto il riconoscimento che gli è stato assegnato, ho pensato fosse giusto fare la sua conoscenza. Per cominciare, ho fatto la scelta più sicura, scegliendo quello che è considerato il suo capolavoro.

Quel che resta del giorno è il diario di viaggio di Mr. Stevens, un vecchio maggiordomo inglese che, per la prima volta dopo tanti anni, intraprende un viaggio di piacere. Tanto è legato al suo lavoro, che cerca sempre di svolgere in modo impeccabile, da creare una giustificazione professionale ad un viaggio di piacere propostogli dallo stesso datore di lavoro. A Mr. Stevens non sarebbe mai venuto in mente di lasciare, anche solo per un breve periodo, la sua mansione presso Darlington Hall, l'idea è del suo nuovo datore di lavoro, un ricco americano che abita la magione al posto di Lord Darlington, Mr. Farraday. Mr. Stevens accetta l'idea solo quando riesce a giustificarla a sé stesso, prima ancora che a Mr. Farraday, con l'intenzione di ritrovare la vecchia governante Miss Kenton e sondare la sua disponibilità a tornare a lavorare a Darlington Hall. 
Il viaggio di piacere e di lavoro di Mr. Stevens diventa però una lunga esplorazione nel suo animo, forse la prima che abbia mai fatto nella sua vita. Il vecchio maggiordomo ha dedicato tutta la sua vita alla propria professione, a svolgerla nel miglior modo possibile, e sicuramente è riuscito nel suo intento. Quell'escursione fuori dalla sua routine gli permette però di rivedere la sua lunga vita sotto una luce diversa. Si rende così conto, soprattutto dopo aver ritrovato Miss Kenton, di essere stato così concentrato sulla sua professione da essersi annullato come individuo. Lord Darlington fu molto attivo nella politica tra le due guerre mondiali, convinto che i tedeschi fossero trattati troppo duramente e deciso a convincere gli alleati a concedere loro un trattamento più umano. Nonostante i protagonisti della storia europea entrassero e uscissero da Darlington Hall, Mr. Stevens si è preoccupato solo di fare al meglio il proprio lavoro, mai ha nemmeno provato a capire cosa stesse accadendo. Il maggiordomo ha quindi vissuto ai margini della storia senza mai viverla davvero. Anche i sentimenti sono passati in secondo piano, il protagonista nemmeno si è fermato a piangere la morte del padre e in nome dell'etica professionale ha ignorato quello che sarebbe potuto essere il grande amore della sua vita. Il romanzo si conclude con il raggiungimento da parte del protagonista della consapevolezza di aver sprecato la propria esistenza, ma un incontro fortuito gli fa capire che può ancora godersi ciò che gli resta da vivere. 

Io credo che con Quel che resta del giorno Ishiguro abbia voluto mostrarci quanto sia pericoloso dedicare la propria intera esistenza, tutto il proprio essere, ad un ideale. Gli esempi che ci porta per spiegarci questa lezione sono Mr. Stevens e Lord Darligton.
Il primo è un fanatico del lavoro, una figura quindi molto comune nella nostra realtà contemporanea. Alla fine Mr. Stevens è soddisfatto delle sue prestazioni lavorative, impeccabili, ma ha perso tutto il resto. Non ha avuto una vita al di fuori del lavoro, non ha una famiglia e non ha amici. Mr. Stevens è anziano, ma non ha mai vissuto. Scopre tutto quello che avrebbe dovuto imparare nel corso della vita nella settimana che trascorre in viaggio. Per la prima volta vede dei panorami che non sono illustrati nei libri, scoprendo la bellezza di ciò che non è appariscente. Per la prima volta scopre, attraverso la chiacchierata con Miss Kenton, il contrasto di sentimenti che può vivere chi ha una famiglia a cui vuole bene. Solo con queste scoperte capisce di aver sprecato la propria esistenza, di essersi tanto concentrato sul lavoro da farsi sfuggire tutto il resto. La conclusione amara gli riserva però un lieto fine, un incontro apparentemente senza peso gli fa capire che non è ancora finita, può ancora godersi gli ultimi anni di vita.
Anche Lord Darlington butta via la propria vita in nome di un ideale. Egli mette anima e corpo nella politica perché trova ingiusto il trattamento riservato ai tedeschi dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Se all'inizio il nobiluomo è lungimirante, perché fu proprio il pugno duro degli alleati una delle cause dell'ascesa del nazismo in Germania, successivamente si rivela ingenuo e viene usato dai tedeschi. Finisce perfino per avere simpatia dei nazisti, di cui non capisce la reale pericolosità. Egli sviluppa la sua idea iniziale, la compassione per i maltrattati tedeschi, e la porta avanti con un'ostinazione così ottusa da non accorgersi del mutamento politico che avviene in Germania, finendo per fare il gioco dei futuri nemici in guerra. La sua ottusità gli costa cara, infatti viene additato come amico dei nazisti e muore praticamente isolato.
Miss Kenton è l'antagonista di Mr. Stevens, almeno nel modo di ragionare. Lei è molto brava nel suo lavoro di governante, però si lascia trasportare dalle passioni e ad un certo punto sceglie di dare la priorità ai sentimenti, lasciando il lavoro per farsi una famiglia. Una sua lettera e l'incontro alla fine del viaggio servono ad aprire definitivamente a Mr. Stevens le porte della comprensione, gli mostra una scelta di vita totalmente diversa, facendogli vedere cosa si è perso. In un certo senso si può considerare alternativa anche a Lord Darlington, infatti lei è passionale ma cambia idea spesso sul modo d'agire, non resta ferma sulla sua posizione di partenza.

Quel che resta del giorno è nel complesso un buon romanzo, si legge con una certa facilità e non è mai pesante, se si esclude nelle pagine iniziali una lunga riflessione sulle qualità di un buon maggiordomo. Anche la parte un po' più dura da digerire ha però il suo senso, è importante per farci conoscere il modo di ragionare del protagonista, completamente concentrato sul lavoro.
Fondamentale è l'insegnamento che l'autore vuole darci attraverso la vicenda di Mr. Stevens. Sacrificare la propria esistenza per un ideale, che sia professionale o politico, è una scelta pericolosa: si rischia di avere grossi rimpianti. Se anche però si ci dovesse accorgere di aver sprecato parte della propria vita, non bisogna perdere il resto del tempo a piangersi addosso, bisogna invece godersi il tempo che resta.

Francesco Abate

COMMENTO AL CANTO XII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

I poeti iniziano la discesa lungo il dirupo che conduce verso il settimo cerchio. Si tratta di una discesa molto ripida, per rendere l'idea Dante la paragona agli Slavini di Marco, una grande frana del monte Zugna, in Trentino, che si trova tra Serravalle e Lizzana, sulla sinistra del fiume Adige. "Qual è quella ruina che nel fianco / di qua da Trento l'Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco, / che da cima del monte, onde si mosse, / al piano è sì la roccia discoscesa, / ch'alcuna via darebbe a chi su fosse: / cotal di quel burrato era la scesa". Lungo la discesa, i poeti si imbattono nel Minotauro, che se ne sta disteso su una sporgenza della roccia. Il Minotauro è una creatura della mitologia greca, concepita dall'amore mostruoso della regina di Creta, Pasife, per un toro bianco. Pasife, innamorata del toro, si fece chiudere in una vacca di legno in modo da essere posseduta dalla bestia. Da questo rapporto sessuale anomalo nacque il Minotauro, un mostro con il corpo di uomo e la testa di toro. Nel raccontare l'incontro con il mostro, Dante lo definisce "l'infamia di Creti ... che fu concetta ne la falsa vacca". Non appena li vede, il Minotauro si infuria al punto da mordere sé stesso. Come sempre, nei canti dell'Inferno il comportamento dei demoni ha sempre un carattere bestiale. Inoltre i prossimi dannati che Dante incontrerà sono quelli che furono violenti contro il prossimo, quindi il Minotauro rappresenta anche la violenza bestiale a cui essi si prestarono. Subito Virgilio interviene, spiega alla bestia che il viaggiatore che ha davanti non arrecherà danno a nessuno, a differenza del "duca d'Atene" Teseo che lo uccise, ma procede solo per vedere la condizione dei dannati. Alle parole della guida, il Minotauro reagisce come il toro che ha ricevuto il colpo mortale, iniziando a saltellare da una parte all'altra ("Qual è quel toro che si slaccia in quella / ch'a ricevuto già 'l colpo mortale, / che gir non sa, ma qua e là saltella, / vid'io lo Minotauro far cotale"). Virgilio, approfittando della distrazione della bestia, urla a Dante di calarsi, così i due riprendono la discesa lungo il dirupo.
Lungo la discesa, Virgilio anticipa la domanda di Dante e gli spiega l'origine della frana. Prima di tutto gli dice che nella sua precedente discesa nella città di Dite questa non c'era, poi racconta che fu generata dal violento terremoto che anticipò di poco la discesa di Gesù nel Limbo, quando il Redentore scese a recuperare le anime dei patriarchi dell'Antico Testamento. Il riferimento è chiaramente al terremoto che seguì la morte di Gesù, documentato nel Vangelo di Matteo. Dopo la morte di Cristo, quindi, vi fu una scossa tellurica tanto violenta da causare una frana anche nelle profondità dell'Inferno. Nello spiegare la potenza del terremoto, Virgilio dice: "tremò sì, ch'i pensai che l'universo / sentisse amor, per lo qual è chi creda / più volte il mondo in caòsso converso". La frase è un riferimento al pensiero del filosofo greco Empedocle, il quale riteneva che il mondo si reggesse sulla discordia degli atomi e che, qualora questa fosse cessata, lo stesso sarebbe tornato al caos primordiale. Per Virgilio il terremoto fu tanto forte da fargli pensare che il mondo stesse tornando al caos primordiale a causa della raggiunta concordia degli atomi. 
Virgilio termina la spiegazione circa l'origine della frana mostrando a Dante il fiume di sangue in cui sono immersi i dannati. Nel primo girone del settimo cerchio sono puniti i violenti contro il prossimo, essi sono immersi in un fiume di sangue bollente, il Flegetonte. A guardia di questi dannati vi sono i centauri, creature mitologiche dal corpo di cavallo nella metà inferiore e umano in quella superiore. I centauri corrono lungo la riva del fiume, che è ad arco, e scoccano frecce contro i dannati. Così Dante descrive la scena: "Io vidi un'ampia fossa in arco torta, / come quella che tutto 'l piano abbraccia, / secondo ch'avea detto la mia scorta; / e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia / corrien centauri, armati di saette, / come solien nel mondo andare a caccia". Vedendo i due poeti, tre centauri si spostano dal gruppo con in mano gli archi e le frecce. Uno dei centauri chiede a quale pena siano essi destinati e minaccia di colpirli con la freccia qualora non dovessero rispondergli. Virgilio ribatte che risponderà a Chirone, facendo poi un riferimento a quella che fu la vicenda mitologica del centauro che ha parlato. I tre centauri che si sono avvicinati sono Nesso, Chirone e Folo. A parlare è stato Nesso, il quale fu ucciso da Ercole con una freccia avvelenata perché aveva tentato di rapirne la moglie. La sua vicenda spiega il commento di Virgilio riguardo la "voglia sempre sì tosta" di Nesso. Il poeta chiede di parlare con Chirone perché nella mitologia greca questi fu un grande saggio, studioso ed educatore di grandi eroi (tra cui Achille). Mentre i centauri erano quasi sempre associati a leggende poco edificanti, come Folo che tentò di violentare Ippodamia il giorno del suo matrimonio o come Nesso, Chirone è una figura positiva e per questo gode nel poema della stima e della considerazione dei poeti. A Dante è la guida a svelare l'identità dei tre centauri che gli sono venuti incontro. Virgilio spiega anche che i centauri corrono lungo la riva del Flegetonte e colpiscono con le frecce quelle anime che tentano di emergere. Ogni anima infatti è più o meno immersa nel sangue bollente a seconda della gravità della sua colpa, i centauri badano che nessuna violi quest'ordine. Durante il dialogo tra Dante e Virgilio, Chirone si accorge che Dante non è una semplice anima, così lo fa notare anche ai centauri chiedendo: "Siete voi accorti / che quel di retro move ciò ch'el tocca? / Così non soglion far li piè d'i morti". Dei tre centauri era ovvio che questa osservazione arrivasse da Chirone, il più saggio della sua specie. Virgilio si avvicina a lui e gli dice che Dante è vivo ed è giusto che gli si permetta di vedere l'Inferno, spiega poi che dal Paradiso un'anima è scesa ad affidargli la guida del poeta e che nessuno dei due è un brigante ("non è ladron, né io anima fuia"). Spiegate le ragioni del viaggio, Virgilio chiede a Chirone che gli affidi uno dei centauri come guida, affinché mostri loro dove sia possibile guadare il Flegetonte e lo guadi con Dante in groppa, dato che il poeta non è una semplice anima e non può volare. Chirone si rivolge a Nesso, dicendogli di guidarli dall'altra parte del fiume. La scelta si spiega sempre con la mitologia, secondo la quale Nesso era abilissimo nel guadare i fiumi.
Accompagnati da Nesso, Dante e Virgilio iniziano a camminare lungo il Flegetonte. Dante vede dei dannati immersi fino agli occhi nel sangue bollente, Nesso gli spiega che sono le anime dei tiranni che uccisero e spogliarono la gente della propria roba ("che dier nel sangue e ne l'aver di piglio"). A questo punto il centauro indica alcuni dei dannati che si vedono da quella posizione. C'è Alessandro Magno, re della Macedonia, e Dionisio. Riguardo la figura di Dionisio, la critica non sa stabilire se si tratta del famoso tiranno di Siracusa, che non solo depredava le persone, ma anche i templi dedicati alle divinità, o del figlio, ugualmente crudele. Lo stesso Boccaccio ammise che "non appar di quale l'autor si voglia dire". C'è poi Ezzelino III, genero di Federico II e capo dei ghibellini italiani, nonché tiranno di Padova e di gran parte della Lombardia. La figura del tiranno Ezzelino III è ornata da molte leggende poco edificanti, come quella secondo cui privò dei propri possessi alcuni cittadini di Padova; un'altra racconta che fece bruciare più di undicimila persone. C'è Obizzo II d'Este, marchese di Ferrara e della Marca d'Ancona, ucciso dal figliastro. Dei nomi indicati sopra, il centauro cita solo l'episodio relativo a Obizzo II, forse perché della notizia all'epoca circolarono diverse versioni. La versione di Nesso è confermata da Virgilio, vista la sorpresa che mostra Dante alla notizia del parricidio. Nesso si ferma dove sono delle anime immerse fino alla gola. Il centauro stavolta indica una sola anima, "Colui fesse in grembo a Dio / lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola". Il riferimento è a Guido di Montfort, che uccise in chiesa Arrigo di Cornovaglia per vendicare la morte del padre avvenuta ad opera del re d'Inghilterra, cugino di Arrigo. Durante la messa, Guido di Monfort assalì Arrigo e costui tentò di difendersi avvinghiandosi al sacerdote, che fu a sua volta ucciso dalle pugnalate dell'assalitore. Il cuore di Arrigo fu collocato in una coppa d'oro, nella mano di una statua eretta presso l'abbazia di Westminster. La vicenda di Guido di Monfort ci fa capire che, mentre ai tiranni spetta di restare immersi fino agli occhi, a coloro che uccisero per vendetta tocca stare immersi fino alla gola. Proseguendo, il poeta vede persone che hanno la testa fuori dal sangue bollente, altre anche il torace, altre ancora si scottano solo i piedi. Il fiume è sempre meno profondo, così i poeti e il centauro arrivano al guado. Mentre guadano il fiume, Nesso spiega a Dante che se dalla parte da cui sono giunti il fiume è ormai poco profondo, dall'altra raggiunge di nuovo la massima profondità, in cui è giusto che siano immersi i tiranni, coloro che meritano la punizione più grave. Nesso cita alcuni tiranni immersi dall'altro lato. C'è Attila, il re degli Unni. Poi c'è Pirro, non sappiamo però se il riferimento è al figlio di Achille, che infierì sui Troiani, o al re dell'Epiro, che mosse guerra a Roma. Viene poi indicato Sesto, il figlio di Pompeo, il quale visse da corsaro. Ci sono poi Riniero da Corneto, un famoso assassino dell'epoca di Dante, e Riniero Pazzi, nobile fiorentino che uccise il vescovo Silvanese Spagordo. Finito questo discorso, Nesso lascia i poeti e torna dal lato del Flegetonte da cui sono venuti.

Francesco Abate

domenica 7 gennaio 2018

COMMENTO AL CANTO XI DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Il canto inizia coi due poeti intenti a scendere verso il settimo cerchio. Si trovano su un'alta rupe formata dalle pietre rotte di cui è piena la città di Dite. Mentre le mura che la separano dal resto dell'Inferno sono solide e integre, l'interno della città è pieno di pietre distrutte, è una città in rovina. Tale distruzione è dovuta al fortissimo terremoto che precedette la venuta di Cristo nel Limbo (Virgilio lo spiegherà nel canto XII). Sotto di loro vi è già una nuova schiera di dannati, ma la terribile puzza che arriva dal settimo cerchio costringe Dante e Virgilio a fermarsi ed a ripararsi dietro ad una tomba su cui è scritto: "Anastasio papa guardo, / lo qual trasse Fotin de la via dritta". Nella tomba in questione vi è dunque l'anima di papa Anastasio II, collocato dall'autore del poema nel cerchio degli eretici. Anastasio II fu pontefice nel periodo in cui rifiorì l'eresia monofisita, la quale sosteneva che in Gesù Cristo vi fosse solo la natura umana e non quella divina. Nel tentativo di ricucire lo strappo con la chiesa d'oriente, Anastasio II accolse a Roma il diacono Fotino. Tale azione però fu compiuta all'insaputa dei vescovi e dei chierici romani e destò molti sospetti, Fotino infatti era molto vicino ad Acacio, vescovo di Costantinopoli e sostenitore del monofisismo. I sospetti generati dalla condotta di Anastasio II ebbero una tale eco da affibbiargli per tutto il medioevo la fama di eretico, così si spiega la decisione di Dante di collocarlo nel sesto cerchio dell'Inferno. Di Anastasio II vi è comunque solo la citazione che ho riportato sopra, il poeta non dice altro.
Riparati dietro la tomba di Anastasio II, i due poeti sostano nell'attesa di abituarsi alla puzza che sale dal cerchio inferiore. Lo stesso Virgilio ritiene opportuna questa sosta. Dante propone di capitalizzare il tempo dedicato a quel riposo forzato, la sua guida in verità ci aveva già pensato, infatti gli spiega la topografia dell'Inferno. Dentro la città di Dite gli restano da visitare "tre cerchietti / di grado in grado, come que' che lassi", cioè vi sono altri tre cerchi dal diametro sempre minore man mano che si scende, come quelli che il poeta ha già visitato. Virgilio poi, onde evitare di doverglielo spiegare dopo, gli spiega anche la logica secondo la quale sono assegnate le anime nei due cerchi sottostanti. Ogni violazione ha come fine quello di commettere un'ingiustizia che si realizza o con la violenza o con l'inganno ("frode"). L'inganno è un peccato proprio dell'essere umano, nonostante ciò dispiace a Dio più della violenza perché si realizza attraverso un uso distorto della ragione, è quindi un peccato più grave. Secondo questa logica, nel primo cerchio sotto di loro (il settimo dell'Inferno) sono puniti i violenti. Il settimo cerchio è diviso in tre gironi, perché "si fa forza a tre persone", cioè si può usare la forza contro il prossimo, contro sé stessi o contro Dio. Nel primo girone sono puniti i violenti verso il prossimo: "Morte per forza e ferute dogliose / nel prossimo si danno, e nel suo avere / ruine, incendi e tollette dannose; / onde omicide e ciascun che ma fiere, / guastatori e predon, tutti tormenta / lo giron primo per diverse schiere". Nel secondo girone sono invece puniti i violenti contro sé stessi, cioè coloro che si sono suicidati o che hanno dissipato i loro averi. Nel terzo invece trovano l'eterna pena coloro che hanno usato violenza contro Dio, cioè i bestemmiatori, e anche i sodomiti e i caorsini (nel medioevo venivano indicati con questo termine, derivante dalla terribile fama dei banchieri della città francese di Cahors, gli usurai), che Dante indica citando i nomi delle città di Sodoma e Caorsa. Virgilio poi continua passando al peccato di frode: "La frode, ond'ogne coscienza è morsa, / può l'omo usare in colui che 'n lui fida / e in quel che fidanza non imborsa". La guida spiega a Dante che la frode è un peccato commesso sempre con premeditazione, si può ingannare sia chi ha fiducia che chi non ne ha. Coloro che hanno ingannato chi di loro non si fidava ("ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura"), sono puniti nell'ottavo cerchio. Per quanto riguarda coloro che ingannarono chi di loro si fidava, essi hanno commesso un peccato ben più grave perché hanno spezzato dei legami d'amore generati dalla natura, quindi sono puniti nel cerchio posto più in basso, che termina tra le fauci di Lucifero. Nel nono cerchio, l'ultimo dell'Inferno, sono puniti coloro che tradirono i parenti, la patria, gli amici, i benefattori e Dio. 
Ascoltata la spiegazione di Virgilio, Dante è assalito da un dubbio, chiede infatti perché i dannati collocati fuori alle mura (lussuriosi, iracondi, golosi, ecc.) non siano puniti all'interno della città di Dite come i violenti e i fraudolenti ("Ma dimmi: quei de la palude pingue, / che mena il vento, e che batte la pioggia, / e che s'incontran con sì aspre lingue, / perché non dentro da la città roggia / sono ei puniti, se Dio li ha in ira?"). Virgilio non fornisce una risposta diretta a questo quesito, si limita a richiamare alla mente di Dante l'Etica aristotelica e la divisione dei peccati in incontinenza, malizia e matta bestialitade. I peccatori posti al di fuori della città di Dite sono gli incontinenti, cioè coloro che cedettero ad una passione finendo nel peccato. A differenza dei violenti e dei fraudolenti, che compiono l'azione peccaminosa consapevolmente e con un fine preciso, l'incontinente è travolto dalla passione e cede ad un moto naturale del suo animo. In pratica l'incontinenza è un peccato che offende meno Dio perché è compiuto quasi inconsapevolmente, è come se il peccatore venisse indotto all'errore, a differenza della violenza e della frode. A questo punto Dante chiede perché gli usurai sono puniti come violenti verso Dio. Virgilio fa un nuovo richiamo alla filosofia, spiega che la natura discende da Dio e l'uomo dovrebbe vivere solo della natura e del lavoro che da essa deriva (arte). L'usuraio non segue questo precetto, esso vive del ricavato dei prestiti e vende più volte la stessa merce, quindi agisce contro la natura e contro Dio (da cui la natura stessa discende), ponendosi sullo stesso livello di chi bestemmia. 
Terminata l'ultima spiegazione, Virgilio esorta Dante a riprendere il cammino e a scendere verso il settimo cerchio: "Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace; / ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta, / e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace, / e 'l balzo via là oltra si dismonta".

Francesco Abate