sabato 25 aprile 2020

BUON 25 APRILE

Ho scelto questa foto perché in essa vedo l'essenza del 25 aprile, della festa della Liberazione. Una folla felice festeggia la riconquista della libertà; sfila il tricolore, simbolo di un'Italia non più schiava del regime fascista e non più straziata dall'invasore tedesco, sfilano quelli che hanno combattuto, sfilano i bambini che in futuro godranno della libertà così duramente conquistata.

Il 25 aprile del 1945 il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) proclamò l'insurrezione in tutta l'Italia settentrionale e le formazioni partigiane liberarono dai nazifascisti in rotta le principali città. Il sud era stato già in buona parte liberato dall'avanzata alleata. Quattro giorni dopo, il 29 aprile, le truppe tedesche di occupazione si arresero. 
L'Italia era libera!

In Italia, benché molti non se ne rendano conto, il 25 aprile è la festa più importante dell'anno. Festeggiamo infatti la possibilità di poter raccontare, di poterne parlare, di poter vivere le nostre vite e pensare con le nostre teste, senza la paura che qualcuno possa arrestarci o ucciderci per questo.
Dobbiamo festeggiare per le libertà riconquistate e allo stesso tempo onorare coloro che diedero la vita per riprenderle; giovani e vecchi, donne e uomini, settentrionali e meridionali, i quali non accettarono di sottomettersi e combatterono per riavere la libertà che il fascismo gli aveva rubato.
Benché ogni anno si aprano polemiche assurde su questa festa, dobbiamo viverla proprio per ricordare che non è una ricorrenza di sinistra: il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani. Tra i partigiani, gli eroi che combatterono per la libertà, c'erano comunisti, monarchici, cattolici, democristiani, socialisti, liberali. Il 25 aprile ci insegna che per essere antifascisti non serve essere comunisti, basta avere a cuore la libertà, perché il fascismo non è un'idea politica ma una malattia morale. 

Ci ho tenuto a scrivere questo post perché la storia è cultura, e la cultura non può estraniarsi dal mondo contemporaneo. In un momento così difficile e così politicamente agitato, feste come il 25 aprile sono la boccata d'ossigeno che serve a ridarci fiducia nella democrazia. 
Vi dico adesso qual è a mio parere il modo migliore di festeggiare il 25 aprile: leggete un romanzo che racconti la lotta partigiana o le condizioni del popolo durante la guerra (vi consiglio: Il sentiero dei nidi di ragno, La storia e La ciociara), leggete della Resistenza su un libro di storia o vedete qualche documentario, ascoltate e cantate Bella Ciao consapevoli che non è un canto di sinistra ma un canto di libertà. 

Buon 25 aprile.

Francesco Abate

martedì 21 aprile 2020

RECENSIONE DE "LA CIOCIARA" DI ALBERTO MORAVIA

Pubblicato nel 1957, La ciociara è uno dei più importanti romanzi dello scrittore italiano Alberto Moravia; l'opera fu resa celebre anche dall'omonima trasposizione cinematografica del 1960 diretta da Vittorio De Sica.
Da molti considerato un romanzo di guerra, in realtà ha come centro della narrazione lo stupro di Rosetta e per questo va considerato, come dichiarò lo stesso Moravia, un'opera sulla violenza.

Protagoniste de La ciociara sono Cesira, una bottegaia che vive a Roma, e sua figlia Rosetta. 
La guerra imperversa ma non sembra sconvolgere più di tanto Cesira, la quale se ne disinteressa e tira avanti curando gli affari della bottega. Solo quando la situazione del conflitto la tocca direttamente, rendendole impossibile la conduzione della sua attività, decide di lasciare Roma con sua figlia e rifugiarsi dai genitori che vivono in Ciociaria. Il treno per Fondi su cui è in viaggio viene però fermato lungo il tragitto, è perciò costretta a scendere e inizia un lungo periodo da rifugiata sui monti della Ciociaria.  
Il lungo periodo da rifugiata passa lentamente e pone la povera donna in condizioni di disagio sempre più profondo, con la miseria che si fa sempre più pesante e la continua paura di rastrellamenti.
Quando tutto sembra finito, e finalmente Cesira viene scortata dagli americani al paese dei genitori, si consuma il vero dramma; nel paese completamente disabitato, Cesira e Rosetta vengono sorprese da un gruppo di soldati marocchini, i quali le aggrediscono e abusano della ragazza. 
Lo stupro cambia radicalmente il carattere della mite e buona Rosetta; inizia a concedersi con estrema facilità a tutti gli uomini che mostrano interesse per lei. Sconvolta dal cambiamento della figlia, Cesira continua a darsi da fare per riuscire a tornare con lei a Roma.

Come disse lo stesso Moravia, La ciociara non è un romanzo sulla guerra. Il conflitto è tutto intorno ai personaggi, si respira nell'aria e tiranneggia nei pensieri, ma pochi sono i contatti diretti delle protagoniste con gli eventi bellici. Cesira della guerra capisce poco e inizialmente non se ne interessa, finisce però per rimanerci invischiata e ne scopre gli orrori attraverso le parole di Michele, figlio di un rifugiato, e con i pochi ma tragici contatti diretti.
Non trattando gli eventi di guerra, l'autore si impegna a evidenziarne i tragici effetti sulle persone e sulle loro vite. Cesira, donna semplice e ignorante che pensa solo a lavorare e ad assicurare un buon futuro alla figlia, progressivamente viene resa più povera e alla fine è costretta a vedere la sua amata figlia deturpata nello spirito dallo stupro. Lei scopre cosa comporta davvero quella guerra che prima vedeva come qualcosa di lontano e indefinito, e noi lo capiamo attraverso la sua esperienza.
L'amore in questo romanzo viene coscientemente evitato nella sua forma positiva per essere poi presentato nei suoi lati più sporchi e oscuri. Innamoramenti e scene di sesso non se ne vedono per quasi tutto il romanzo; poi irrompe violentemente lo stupro di Rosetta, e da quel momento la ragazza diventa l'amante di un gruppo di delinquenti. Questo modo di gestire la presenza dell'amore nel romanzo ci permette di vederlo in tutto il suo squallore quando è deturpato.
Moravia sceglie perciò di non raccontarci la storia o il substrato politico da cui si sviluppò; il suo intento è quello di mostrare come la guerra sia un evento capace di deformare le persone, abbattendo ogni legge morale e facendo emergere il lato peggiore di ognuno con un'opera lenta e inesorabile di sfinimento.
Nel romanzo c'è anche un richiamo all'esperienza di fuggiasco vissuta dallo stesso Moravia e dalla moglie Elsa Morante; fuggirono da Roma su un treno per Fondi dopo l'8 settembre 1943, perché lo scrittore era sulla lista degli uomini da arrestare, ma il treno fu fermato a metà strada e dovettero rifugiarsi sulle montagne della Ciociaria.

I personaggi principali del romanzo sono Cesira e Rosetta, ma degni di nota sono anche Michele e suo padre Filippo.
Cesira è una bottegaia ciociara che vive e lavora a Roma. Vedova di un marito mai amato, opera al solo scopo di assicurare un futuro tranquillo a sua figlia. Inizialmente non si cura della guerra e continua a lavorare finché non le diventa impossibile l'approvvigionamento di beni. Nel periodo in cui è rifugiata sulle montagne, conosce l'incertezza e la paura costante generati dalla guerra, e ascoltando Michele impara anche a preoccuparsi di cose al di fuori della semplice sussistenza; scopre che la compagnia costante del dolore e della morte portano le persone a dimenticare le proprie regole morali e lei stessa, che è sempre stata una donna onesta, si spinge a rubare i soldi a un uomo appena morto davanti ai suoi occhi. La storia viene raccontata da lei, infatti il romanzo è scritto in prima persona.
Rosetta è la figlia diciottenne di Cesira. Molto buona, mansueta e sempre ubbidiente, è la luce degli occhi della madre. La sua mitezza e la sua bontà, in cui la madre vede perfezione, sono in realtà principalmente figlie dell'inesperienza e questo le si ritorce contro quando viene stuprata dai soldati marocchini. Dopo l'abuso, inizia a concedersi agli uomini con assurda facilità, come se inconsciamente si arrendesse alla costrizione e facesse ciò che gli aggressori le avevano imposto con la forza al momento della violenza; se prima obbediva solo alla madre palesando quasi una mancanza di volontà, dopo si concede agli uomini con la stessa sottomissione. Solo alla fine, dopo la morte di uno degli amanti, sembra avere una sorta di ravvedimento.
Michele e Filippo sono due personaggi minori la cui importanza è in funzione di Cesira. La bottegaia di inizio romanzo è infatti paragonabile a Filippo, donna di grande senso pratico e concentrata quasi esclusivamente sull'accumulo di merce o denaro, poi lentamente matura e diventa più simile a Michele, acquistando consapevolezza della realtà circostante e dei disordini morali che porta con sé. Michele nel romanzo è l'intellettuale che istruisce Cesira, perdendosi in lunghe riflessioni che lentamente la fanno maturare, ma nonostante la sua avversione per i fascisti e i tedeschi non si comporta mai da eroe; muore salvando prima Rosetta e poi tentando di salvare un gruppo di contadini dalla furia dei nazisti, ma i suoi gesti eroici sono isolati e non programmati, si trova ad agire d'impulso, inoltre non servono a niente (Rosetta subirà violenza in seguito e i contadini vengono lo stesso uccisi).

Tante furono le critiche mosse a La ciociara dopo l'uscita. Le principali riguardano la struttura del romanzo, da tutti ritenuto troppo dispersivo e lento nella parte centrale, poi troppo precipitoso nel finale. La parte conclusiva molti critici l'hanno definita posticcia e buonista; secondo loro quel barlume di speranza delle protagoniste è una forzatura inserita per dare un finale più lieto alla storia.
Lo stesso Moravia si pose il problema della parte centrale lenta, ma in una lettera a Bompiani giustificò la sua scelta con l'intenzione di mostrare la lenta e straziante immersione delle protagoniste in un'atmosfera di paura; l'editore gli diede ragione. In effetti è proprio nella lenta fase centrale che Cesira matura e passa dall'essere la bottegaia superficiale e ignorante a essere riflessiva e consapevole della realtà circostante. 
La lentezza della fase centrale crea poi un contrasto con la fase finale veloce, rendendo alla perfezione il precipitare degli eventi che fa crollare il mondo addosso a Cesira e Rosetta. Quando infatti il pericolo sembra passato, le protagoniste vengono colpite al cuore e vedono iniziare il loro vero inferno.
Per quanto mi riguarda, la scelta della lentezza centrale è una scelta azzeccata sia per il contrasto con la parte finale, sia perché ci permette di cogliere la maturazione della protagonista. L'unico modo che Moravia aveva per evitare questa stasi era cominciare il romanzo con un personaggio già consapevole, ma così la storia sarebbe stata completamente diversa e avrebbe perso buona parte della sua forza. Per funzionare, La ciociara doveva mostrarci una persona del popolo, semplice e ignorante, disinteressata e inconsapevole; questo rendeva necessaria la maturazione.
Anche la costruzione del personaggio di Cesira non è stata ottimale secondo i critici; a loro dire non è credibile che la protagonista parli a inizio libro da semplice bottegaia ignorante per poi perdersi in profonde riflessioni sul mondo e sulla psiche della figlia nella parte finale. Effettivamente anch'io ho trovato poco naturale l'evoluzione del linguaggio e del modo di ragionare di Cesira, ma credo che sia un piccolo sacrificio al realismo che permette di cogliere meglio il messaggio lanciato dall'autore; forse l'uso della narrazione in terza persona sarebbe stato preferibile.

De La ciociara si ricorda spesso il film premio oscar, mentre il libro è un po' oscurato dalle critiche che ha ricevuto e dal paragone con il più grande capolavoro di Moravia, Gli indifferenti
Al netto di qualche imperfezione di cui forse lo stesso autore era cosciente, come si evince dalla corrispondenza con l'editore Bompiani, il romanzo merita comunque di essere letto. Si tratta di un libro importante, che illustra la guerra vista dagli occhi di chi la subisce senza nemmeno sapere cosa sia; non c'è la politica, non c'è l'eroismo della Resistenza, ci sono due donne sole che cercano di sopravvivere. Vediamo il disfacimento morale che si verifica nella persona costantemente in preda alla paura, così come è evidente la lenta ma inesorabile morte della speranza. 
Dobbiamo leggere libri come questo e usarli come scudo contro gli ideali malati che ogni tanto nascono nel mondo per giustificare atti di forza o sospensioni della libertà. La ciociara è una lettura fondamentale oggi più che mai.

Francesco Abate


martedì 14 aprile 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI" DI ITALO CALVINO

Il castello dei destini incrociati è un romanzo di Italo Calvino pubblicato per la prima volta nel 1969 all'interno della raccolta Tarocchi, il mazzo visconteo di Bergamo e New York (Franco Maria Ricci editore).
Si tratta di un'opera molto particolare, costruita intorno alle immagini dei tarocchi.

Il romanzo è composto da due parti totalmente distinte: Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati.
In entrambe le parti la trama è identica. Uno sperduto viandante attraversa un bosco di notte e si imbatte nel castello, o nella taverna. All'interno del luogo in cui è giunto ci sono vari ospiti, tutti muti, e anche il protagonista si scopre incapace di parlare. Uniti a tavola, i commensali sentono però il bisogno di raccontare la propria storia; per farlo usano un mazzo di tarocchi, con le cui immagini permettono agli altri di ricostruire la vicenda che vogliono illustrare.
Attraverso le disposizioni delle varie carte, Calvino ricostruisce le storie di questi personaggi senza nome. In mezzo alle vicende inedite, ne scopriamo alcune note, come quella del paladino Orlando che impazzisce per amore.

La genesi di questo libro tanto particolare fu molto complessa. Nei tarocchi il significato di ciascuna carta dipende da quelle che la precedono e da quelle che la seguono. Calvino, a cui i significati dati alle carte dalla tradizione erano ignoti, decise di costruire delle storie basandosi sull'ispirazione che gli avrebbero dato le varie immagini poste in successione casuale. Così nacquero le vicende che compongono l'opera.
Inizialmente l'autore usò le carte marsigliesi stampate nel 1761 da Nicolas Convert e iniziò la stesura de La taverna dei destini incrociati. Stava per abbandonarlo, perché incapace di dare una struttura alle storie, quando l'editore Franco Maria Ricci gli chiese un testo per il volume sul mazzo visconteo dei tarocchi dipinto nel 1450 da Bonifacio Bembo. Calvino accettò, ma si trovò davanti alla differenza delle immagini di questo mazzo più antico e raffinato; questa differenza lo portò a scrivere Il castello dei destini incrociati, usando un linguaggio più raffinato e un'ambientazione più adatta al XV secolo, ispirandosi all'Orlando furioso di Ludovico Ariosto. A questa nuova opera più raffinata l'autore riuscì pure a dare uno schema preciso, intrecciando le storie tra loro.
Nel 1969 fu pubblicato Il castello dei destini incrociati, ma Calvino non rinunciò alla lavorazione de La taverna dei destini incrociati; fu sul punto di abbandonare l'impresa sempre perché incapace di trovare uno schema delle storie, poi alla fine lo pubblicò senza risolvere questo problema. La taverna si svolge in un ambiente più rustico ed è narrata con un linguaggio meno raffinato.
Calvino pensò anche a un terzo volume, ambientato nel presente e intitolato Il motel dei destini incrociati. Per soddisfare il requisito della modernità, l'autore aveva pensato di usare le immagini dei fumetti per costruire le storie. Questa terza parte non fu però mai scritta; estenuato da anni di lavoro per la costruzione de La taverna dei destini incrociati, Calvino decise di non continuare l'opera.

Il Castello dei destini incrociati è un romanzo piacevole e facile da leggere, come nello stile di Calvino, e mostra come tante storie assolutamente scollegate tra loro possano incrociarsi, avere delle caratteristiche in comune.
L'opera nasce da un gioco dell'autore e per questo non presenta una grandissima ricchezza di contenuti. Non a caso io che adoro Calvino la ritengo, tra quelle che ho letto, la meno importante. Si tratta di una lettura piacevole, ma lascia poco ed è fine a sé stessa.

Francesco Abate   

lunedì 6 aprile 2020

COMMENTO AL CANTO XXXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
L'ultimo canto della Divina Commedia inizia con la preghiera che san Bernardo rivolge alla Vergine Maria, affinché consenta a Dante di vedere Dio; alla preghiera sono dedicati i primi 39 versi. 
I primi 12 versi compongono un inno di lode e sottolineano il dogma della verginità e quello della maternità di Maria. San Bernardo la chiama appunto Vergine Madre, figlia e madre di Dio (figlia del tuo figlio), donna allo stesso tempo umile e più alta di tutte le altre creature, punto fisso della volontà di Dio perché centro della salvezza e della storia; le dice che ha nobilitato così tanto la natura umana, la quale era stata degradata dal peccato originale, che Dio non ha disdegnato di reincarnarsi attraverso lei. Nel ventre di Maria, continua il santo, si è riacceso l'amore tra Dio e le sue creature, quell'amore la cui conoscenza ha permesso agli uomini di diventare beati, facendo germogliare la Candida Rosa. La Vergine è per i beati una fiaccola che arde di carità con la stessa intensità del sole di mezzogiorno (se' a noi meridiana face di caritate), mentre giù tra i mortali è una viva fonte di speranza.
San Bernardo nei versi dal 12 al 39 passa alla richiesta della grazia. Si rivolge alla Vergine chiamandola Donna (che significa Signora, perché deriva dal latino domina) e dice che tanta è la sua grandezza da permettergli di paragonare a una persona che vuole volare senza ali colui che vuole una grazia e non ricorre a lei. Tanto è benigna che non si limita a soccorrere chi chiede il suo aiuto, ma spesso anticipa la preghiera. In lei si riuniscono misericordia, pietà, magnificenza, e tutta la bontà che può esserci in una creatura. Spiega che adesso Dante (Or questi) la supplica di concedergli la virtù sufficiente per osservare Dio (l'ultima salute), questo dopo aver viaggiato dall'Inferno (l'infima lacuna) fin lì e aver visto la condizione delle anime (le vite spirituali) dopo la morte. San Bernardo desidera che Dante veda Dio più di quanto abbia mai desiderato vederlo lui stesso, la prega perciò, e spera che le sue preghiere siano sufficienti, affinché Maria con la sua intercessione liberi gli occhi del poeta dai limiti dovuti alla sua condizione di mortale (ogne nube... di sua mortalità), così che possa godere del sommo bene (sommo piacer). Il santo chiede poi alla regina, la quale può ciò che vuole, che Dante dopo la visione conservi i suoi sentimenti (affetti) immuni dal male (sani); non è importante solo che il poeta s'immerga nella somma visione, ma la Vergine deve aiutarlo anche a perseverare nella grazia che ha ottenuto dal viaggio nell'aldilà una volta che questo sarà finito. San Bernardo conclude la preghiera con l'auspicio che la protezione di Maria possa vincere le tentazioni che insidiano l'uomo, infine dà forza alla sua richiesta dicendole che anche Beatrice e gli altri beati stanno pregando con lui ("Vinca la tua guardia i movimenti umani: / vedi Beatrice con quanti beati / per li miei preghi ti chiudon le mani!").
Lo sguardo di Maria fisso negli occhi di san Bernardo dimostra che la sua preghiera le è gradita; una volta che il santo ha finito di parlare (indi), lei fissa lo sguardo nella luce di Dio, dove non si deve credere che un'altra creatura possa far entrare lo sguardo tanto dentro quanto può lei ("indi a l'eterno lume si drizzaro, / nel qual non si dèe creder che s'invii / per creatura l'occhio tanto chiaro"). 
Dante sente avvicinarsi il momento finale del viaggio e, così come si conviene, porta l'ardore del suo desiderio al più alto grado d'intensità. Alcuni critici interpretano il verso 48 (l'ardor del desiderio in me finii) in modo diverso, ritenendo che il poeta, sentendosi vicino al traguardo, smetta di desiderare; altri invece leggono finii come portai a compimento, e io sono d'accordo con questa seconda interpretazione. 
San Bernardo, intuendo che la sua preghiera è stata accolta, sorride e fa cenno al poeta di guardare in alto, ma lui lo sta già facendo e la sua vista, che diventa più limpida, penetra sempre di più nel raggio della luce di Dio (l'alta luce che da sé è vera). Da questo momento la vista del poeta è superiore (maggio) a quello che la parola può esprimere: ciò che vede non può essere descritto a parole e nemmeno ricordato (cede la memoria a tanto oltraggio). Il poeta si paragona a colui che vede delle cose in sogno, poi quando si sveglia non ricorda le immagini, ma nell'animo gli restano le impressioni; il suo viaggio nell'oltretomba è quasi finito, ma ancora nel cuore conserva la dolcezza nata da ciò che ha visto. Il ricordo delle immagini si perde come si scioglie la neve al sole, e come si disperdevano nel vento i responsi della Sibilla cumana scritti sulle foglie (l'episodio è descritto nell'Eneide). L'autore si rivolge perciò alla somma luce di Dio, che tanto si innalza al di sopra delle facoltà dei mortali: le chiede di restituire alla sua memoria un po' di quello che gli ha fatto vedere e di dare abbastanza forza alla sua capacità di scrivere, così che possa lasciare ai posteri un poco (una favilla) della sua gloria, in modo che sia più comprensibile il trionfo di Dio. Tanto è intenso il raggio di luce da convincere l'autore che si sarebbe smarrito nella sua ascesa se avesse distolto lo sguardo da esso. Dante è più coraggioso nel sostenere la vista di quella luce così intensa, tanto da riuscire a congiungersi con Dio (valore infinito). A questo punto l'autore loda l'abbondante grazia che gli ha dato l'ardire di guardare la luce di Dio e gli ha permesso di farlo senza perdere la vista. 
All'interno della luce di Dio vede unito in un unico volume tenuto insieme dall'amore quello che normalmente vediamo disperso per l'universo (ciò che per l'universo si squaderna): sostanze (ciò che esiste in ragione di sé stesso) e accidenti (la qualità delle sostanze), e le loro relazioni (lor costume), quasi fusi insieme in modo da rendere le sue parole solo un modesto accenno (secondo la metafisica aristotelica-tomistica, ogni individuo ha la sua sostanza, che è sempre divisa dagli accidenti). Crede di vedere la forma universale di questa unità (nodo), perché mentre ne parla sente crescere la gioia. L'attimo della visione porta il poeta a dimenticare più di quanto i venticinque secoli trascorsi abbiano fatto dimenticare l'impresa degli Argonauti ("Un punto solo m'è maggior letargo / che venticinque secoli a la 'mpresa, / che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo"). Come Nettuno ammirò la nave Argo che solcava i mari, così la mente di Dante resta assorta e ammira fissa, immobile e attenta. Guardando quella luce diventa impossibile volgere lo sguardo altrove, perché il bene, che è l'obiettivo della volontà, è tutto concentrato in essa e fuori di essa ciò che è perfetto diventa difettoso. 
Ormai, confessa l'autore, le sue parole saranno più brevi, anche per quel che ricorda, e saranno inadeguate come il balbettio di un bambino che ancora succhia il latte dal seno materno. Non è che nella luce di Dio vi sia più d'una immagine, perché essa è fissa e immutabile, ma è lui che cambia e la sua vista acquista potenza, così quell'unico aspetto si trasforma ai suoi occhi. Nella sostanza eterna luminosa e profonda della luce gli appaiono tre cerchi di diversi colori e uguale dimensione (d'una contenenza); sembra un arcobaleno riflesso da un altro arcobaleno, e il terzo sembra un fuoco emesso dai due arcobaleni (l'allegoria rappresenta il Figlio riflesso del Padre e lo Spirito Santo che spira da entrambi). L'autore si lamenta dell'insufficienza del suo linguaggio per esprimere quella visione; è tanto quel che ha visto da non rendere ciò che ha riportato adatto nemmeno a essere definito "poco" ("Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch' i' vidi, / è tanto, che non basta a dicer <<poco>>"). Si produce il poeta in una nuova invocazione, così da renderci partecipi dell'emozione suscitata in lui dalla visione; si rivolge alla luce eterna, la sola che in sé stessa riposa (sidi, dal latino sidere), la sola che intende la propria essenza e nell'intendersi si ama e si arride. Quel cerchio, che sembra generato (concetta) dal primo come una luce riflessa, guardato tutto intorno dal poeta, gli sembra contenere una figura umana (nostra effige) dello stesso colore della luce (questo cerchio rappresenta il Figlio, quindi siamo in presenza di un riferimento alla sua duplice natura umana e divina); il suo sguardo è completamente rivolto a questo secondo cerchio, perché è con l'Incarnazione che all'uomo è stato consentito di comprendere il valore delle cose create. 
Di fronte a quella nuova visione, Dante fa come lo studioso di geometria che cerca di risolvere il problema della quadratura del cerchio e pensa senza riuscire a trovare quell'elemento di cui ha bisogno (indige), e si cimenta invano nell'impresa di capire come l'immagine umana si fosse collocata all'interno del secondo cerchio (in pratica vuole capire come sia riuscito Dio a farsi uomo pur rimanendo Dio); le sue ali non sono adatte a questo volo (l'uomo non può trovare una spiegazione razionale), ma la grazia gli rende nota la verità con una folgorazione. A questo punto mancano le forze alla sua immaginazione, ma il suo desiderio e le sue azioni sono mossi insieme, come una ruota che gira uniformemente, dall'amore che muove il sole e le altre stelle, cioè dalla volontà di Dio.
I versi conclusivi dell'opera, essendo l'intera sintesi di tutto il poema, meritano di essere riportati:
Qual è 'l geometra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l'alta fantasia qui mancò possa:
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move il sole e l'altre stelle.

Dal primo all'ultimo verso, in questo canto assistiamo a un crescendo continuo. Abbiamo cominciato con la preghiera alla Vergine Maria, poi Dante ha contemplato nella luce divina prima la struttura dell'universo, poi è andato più in là e ha visto la Trinità, ne ha compreso il sovrumano mistero con una folgorazione, infine è diventato un tutt'uno con la volontà di Dio.

Francesco Abate

sabato 4 aprile 2020

I PROTETTORI DI LIBRI E IL RESTARE A CASA

Una delle magie di cui sono capaci i libri è quella di creare delle realtà che poi ritroviamo nella nostra vita in tempi diversi e in modi più o meno simili.
In questo periodo siamo costretti a restare in casa per sfuggire a un nemico crudele e invisibile, il coronavirus, perciò ho pensato di non regalarvi il solito estratto del romanzo come faccio ogni mese, ma di presentarvi un protagonista del romanzo che per ragioni diverse dalle nostre è costretto a restare in casa.
Il personaggio di cui parlo è Francesco, un misterioso ribelle che vive in una casa isolata costruita nel bel mezzo di una campagna resa deserta dai bombardamenti. Lo conosciamo grazie a una perlustrazione di Giovanna e Orlando, due agenti di polizia; proprio alla ragazza la scoperta di questo ribelle cambierà drasticamente la vita, trasformando lei stessa in una sovversiva.
Francesco vive isolato per sfuggire ai soldati americani e italiani, alla polizia e alle spie; deve nascondere la sua attività di sovversivo. Coltiva la terra e alleva gli animali, quindi la sua giornata è sempre piena di occupazioni, e si reca in città raramente per barattare i suoi prodotti con quelli dei contrabbandieri.
Nonostante viva da solo e lontano dal mondo, riesce a far scoprire la vera vita alla cittadina Giovanna; le mostra la bellezza della natura, il fascino della cultura e il dolce sapore della libertà. Proprio il suo isolamento gli permette di vivere davvero, mentre nelle città tutti sono burattini del Governo. In questo periodo ci insegna che non sono la compagnia e il rumore di altre voci a sollevarci verso la felicità; spesso una solitudine costruttiva, operosa e abbinata a serie riflessioni, può darci molto di più della vuota compagnia.
Francesco è molto intelligente, furbo e sicuro di sé; ma se lui cambierà la vita di Giovanna, anche lei finirà per diventare fondamentale per lui e per la sua lotta.

***

Qual è la grande missione a cui si dedica Francesco nella sua isolata casa di campagna? Riuscirà a compierla o sarà scoperto dagli agenti del Governo? Cosa succederà tra lui e Giovanna?
Per avere risposta a queste domande, non vi resta che acquistare I Protettori di Libri in uno dei link che trovate in questa pagina. Il romanzo è disponibile in formato cartaceo ed elettronico. 

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

mercoledì 1 aprile 2020

RECENSIONE DEL ROMANZO "BAUDOLINO" DI UMBERTO ECO

Pubblicato nel 2000, Baudolino è un romanzo storico scritto dal grande autore italiano Umberto Eco.
Il romanzo è denso di riferimenti storici, teologici e filosofici, come avviene in tutti i romanzi di Eco, ma si differenzia dagli altri per l'ironia con cui tali temi vengono trattati.

Nel libro leggiamo la storia di Baudolino, un ragazzo povero e quasi analfabeta che cresce nella campagna piemontese nel XII secolo. Un giorno si imbatte in un uomo misterioso proveniente dalla Germania il quale, affascinato dall'abilità di mentire del ragazzo, convince i genitori ad affidarglielo affinché possa dargli un'istruzione. Baudolino scopre che il misterioso cavaliere teutonico è Federico I detto Barbarossa, e alla sua corte cresce e viene educato.
La vicenda di Baudolino parte dall'incontro col Barbarossa e si sviluppa negli anni mostrandoci i principali avvenimenti storici, dalle guerre dell'imperatore contro i Comuni alle crociate. Il protagonista incontra e si confronta con i più importanti personaggi dell'epoca, finendo per avere un ruolo di primo piano in diversi avvenimenti cruciali, e viaggia quasi per tutto il mondo conosciuto, imbattendosi in personaggi mitologici e in bugiardi più capaci di lui.
Al centro di tutte queste vicende, e dell'intera vita di Baudolino, c'è la ricerca del fantastico regno del Prete Giovanni. Dapprima cerca questo regno leggendario per accrescere la gloria del suo padre adottivo ma, quando questo muore, continua per raggiungere quello che è diventato il solo scopo della sua intera esistenza.
Tutta questa vicenda la scopriamo dalla voce dello stesso Baudolino, il quale la racconta a Niceta, un politico bizantino salvato dalla furia dei crociati durante l'assedio di Costantinopoli del 1204.

Benché dotato di una forte impronta ironica che gli conferisce originalità, in Baudolino troviamo un tema che già Eco aveva sviluppato anni prima ne Il pendolo di Foucault: la fabbricazione della verità, la menzogna che si mischia alla realtà e diventa indistinguibile.
Ne Il pendolo di Foucault i protagonisti costruiscono una leggenda e ci si immedesimano tanto da renderla reale, così come fa continuamente Baudolino. Il protagonista di questo romanzo è infatti molto bravo nell'inventare bugie credibili; usa questa sua capacità prima solo per il proprio vantaggio poi, a seconda delle circostanze, anche per quello altrui, finendo per rimanere però così invischiato nelle proprie menzogne da farle diventare il centro di tutta la sua esistenza. 
Nelle pagine del romanzo Baudolino prima inventa il regno del Prete Giovanni, dando consistenza a una leggenda, poi decide di cercarlo davvero e addirittura arriva vicino a trovarlo, senza però riuscire a diradare del tutto la nebbia delle bugie e vederlo nella sua realtà. Alla fine resta imprigionato nel castello di menzogne da lui stesso costruito.

Leggendo Baudolino ci si imbatte in numerosi eventi e personaggi storici del XII e del XIII secolo.
Baudolino stesso può essere considerato un'allegoria di san Baudolino, santo protettore di Alessandria. Si può fare questo accostamento non solo per l'omonimia, ma anche perché il santo è ritenuto autore di miracoli, così come Baudolino si distingue per la sua capacità di fabbricare miracoli, come i finti re Magi o i finti Graal. Entrambi sono poi legati al comune piemontese, infatti nel romanzo leggiamo di Alessandria costruita sotto gli occhi del protagonista, il quale poi con uno stratagemma la salverà dall'assedio mosso dall'esercito imperiale.
Nella storia poi troviamo Federico I Barbarossa e attraverso le parole del protagonista leggiamo dei suoi continui scontri coi Comuni italiani e coi nobili tedeschi, degli attriti col papa e della sua morte durante la spedizione in Terrasanta. Il protagonista ce lo presenta come un uomo forte e determinato che col tempo viene indebolito dai continui dissidi, mostrandocelo poi debole e invecchiato dopo la sconfitta patita dalla Lega lombarda.
Ad educare Baudolino e ad avviarlo alla ricerca del leggendario regno del Prete Giovanni troviamo il vescovo Ottone di Frisinga, lo storico autore delle Gesta Friderici I imperatoris. Ottone è in qualche modo colui che raffina il protagonista nell'arte della menzogna, spiegandogli che non deve testimoniare il falso ma testimoniare falsamente ciò che crede vero, insegnandogli che così funziona la narrazione della storia. 
Anche il Niceta a cui Baudolino racconta la sua storia non è un personaggio inventato, si tratta infatti di Niceta Coniate, politico e storico bizantino.
Nel gruppo che accompagna Baudolino nella ricerca del Prete Giovanni ci sono anche Borone e Kyot, i quali alla fine lo abbandonano per andare alla ricerca del Graal; per il primo la sacra reliquia è la coppa che raccolse il sangue di Gesù, per il secondo invece una pietra preziosa. Questi due personaggi rappresentano chiaramente Robert de Boron e Guiot de Provins: il primo fu un poeta francese autore di poemi sul Graal e su Merlino; il secondo è indicato come fonte nel poema di Wolfram von Eschenbach, in cui la reliquia è una pietra caduta dalla corona di Lucifero.

Nel romanzo vediamo il protagonista raccontare una storia e più volte sottolineare il bisogno che ha di farlo. Baudolino dice a Niceta: "Penso che chi racconta storie deve sempre avere qualcuno a cui le racconta e solo così può raccontarle a sé stesso". 
In questa riflessione è spiegato bene il bisogno che muove lo scrittore, il quale inventa le sue storie e le trasferisce su carta per poterle condividere con altre persone e, così facendo, riviverle egli stesso. L'autore ha perciò bisogno del lettore così come ha bisogno di scrivere; come disse lo stesso Umberto Eco, l'unica cosa che si scrive per sé stessi è la lista della spesa.

Baudolino vive anche un paio di intense storie d'amore. 
Il sentimento amoroso non occupa un ruolo di primo piano nel romanzo, ma c'è una citazione che voglio riportarvi perché ritengo si debba imparare a memoria. "...mi sono convinto che l'amore perfetto non lascia spazio alla gelosia. La gelosia è sospetto, timore e calunnia tra amante e amata, e San Giovanni ha detto che il perfetto amore caccia ogni timore", queste parole Baudolino rivolge a Niceta parlandogli della donna di cui si era innamorato. 
Ritengo francamente che questa riflessione sul ruolo della gelosia nell'amore dovremmo imprimercela a fuoco tutti nella mente. L'argomento è ampio e non voglio approfondirlo oltre perché non fa parte del romanzo, mi andava solo di condividere questa riflessione con voi.

In Baudolino troviamo gli ingredienti tipici di un romanzo di Umberto Eco: una trama avvincente, ricchezza di riferimenti storici e filosofici, temi importanti. A differenza delle altre opere dell'autore, questo romanzo è scritto con un linguaggio molto più semplice e si legge in modo molto più scorrevole, infatti a narrare è Baudolino in prima persona il quale ha origini semplici. Non mancano anche le pagine che strappano più di un sorriso. 
Nel complesso, credo che quest'opera sia ben lontana dalla grandezza de Il nome della rosa, ma abbia il pregio di trattare un tema complesso come quello della costruzione delle verità in modo molto semplice. Si tratta di un libro che regala ore piacevoli e trasferisce contenuti validi. Una buona lettura.

Francesco Abate