sabato 24 marzo 2018

RECENSIONE DE "IL BARONE RAMPANTE" DI ITALO CALVINO

Scritto nel 1957, Il Barone Rampante fa parte della trilogia araldica di Italo Calvino insieme a Il Visconte Dimezzato (http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/07/recensione-de-il-visconte-dimezzato-di.html) e Il Cavaliere Inesistente (http://culturaincircolo.blogspot.it/2016/09/letteratura-recensione-de-il-cavaliere.html). Come le altre due opere, anche questo romanzo tratta un tema importante pur essendo scritto in modo da apparire leggero. A differenza però degli altri due scritti araldici, questo qui si presenta più oscuro nel suo tema centrale. Mentre risultano evidenti i temi dell'essere e dell'alienazione rispettivamente ne Il Cavaliere Inesistente e Il Visconte Dimezzato, alla fine di questo romanzo si rimane un po' disorientati e senza certezze.
La trama è molto semplice. Nel paesino ligure di Ombrosa, località immaginaria, il dodicenne Cosimo Piovasco di Rondò rifiuta di mangiare una zuppa di lumache e, per protestare contro il padre che vuole imporgli il pasto, si rifugia sugli alberi giurando di non scendere più. Cosimo tiene fede alla sua promessa fino alla fine dei suoi giorni, questo però non gli impedisce di vivere un'esistenza intensa che l'autore ci racconta attraverso le memorie di Biagio, il fratello minore.
Leggendo la trama, e anche il romanzo intero, si ha subito l'impressione che Calvino voglia trattare del desiderio di disobbedire, di separarsi dalle convenzioni della società e vivere per conto proprio. Tale impressione cade però se si tiene conto che Cosimo non rinuncia alle comodità, quando può ne costruisce di proprie sugli alberi, non abbandona educazione e istruzione, continua a studiare prima col precettore e poi per conto proprio, non si stacca dalle vicissitudini politiche, che anzi se arrivano a Ombrosa spesso è proprio per merito suo. Cosimo fugge sugli alberi ma non si stacca dalla gente, continua a interagire e lavorare con loro, a volte li guida, altre volte partecipa con loro. Arriva anche a isolarsi e vivere più come bestia che come uomo, ma solo per periodi limitati di tempo. Cosimo non rinnega la società e gli uomini anzi, si impegna in prima persona per migliorarli. 
Alcuni princìpi umani cadono per il protagonista nel momento in cui si rifugia sugli alberi, infatti per lui non ci sono più confini e può muoversi a proprio piacimento finché trova come appiglio il ramo di un albero. Questa particolare libertà gli permette di uscire dal proprio giardino e conoscere Viola, la giovane vicina di casa, di cui si innamora e con cui conoscerà il vero amore prima e la delusione poi. Sempre la sua assoluta libertà gli permette di sapere tante cose che i suoi paesani ignorano e di vivere tante esperienze che essi mai vivranno. Una chiave di lettura, che appare ancor più valida se tenuto conto delle ultime considerazioni sopra espresse, la fornisce il critico letterario Cesare Cases, che ci aiuta a individuare in Calvino, e in quest'opera soprattutto, il pathos della distanza, concetto introdotto dal filosofo Nietzsche che fu molto caro allo scrittore. Il pathos della distanza Calvino lo aveva espresso già dieci anni prima ne Il Sentiero dei Nidi di Ragno, quando il giovane Pif si accorge che, viste da vicino, le lucciole non sono belle come quando si guardano la lontano. Ne Il Barone Rampante questo concetto è molto più presente, praticamente diventa centrale, perché il protagonista assume una posizione sopraelevata per guardare il mondo da una certa distanza. Per Calvino però questo pathos assume un valore diverso da quello che aveva per il filosofo tedesco, Cases infatti nel barone vede la croce e la delizia dell'intellettuale, il quale può porsi in una condizione distaccata e di superiorità nei confronti delle cose e persone comuni, salvo poi patire il sentimento del distacco e prendere atto dell'impossibilità di adattare le sue idee alla realtà concreta. Cosimo Piovasco guarda il mondo dall'alto e con distacco, eppure è attratto dalla gente e sempre la cerca, sia per lavorare con gli uomini che per amoreggiare con le donne; si istruisce e sviluppa profonde teorie politico-sociali, lavora anche per far entrare i suoi paesani nel clima rivoluzionario del resto d'Europa, muore però con la consapevolezza che la Restaurazione ha vanificato ogni sforzo; l'amore per Viola gli fa sperimentare sulla pelle la differenza tra i suoi ideali e la realtà, egli infatti esprime un concetto dell'amore che la donna non gli permette di vivere. Il Barone Rampante quindi ci mostra il dramma dell'intellettuale, che vorrebbe distaccarsi dal mondo ma non ci riesce, vorrebbe migliorarlo e anche in questo fallisce.
Snocciolato il significato dell'opera, una riflessione merita a mio parere anche l'epoca in cui la vicenda è ambientata. Il romanzo si svolge in un lasso di tempo che va dal ventennio precedente la Rivoluzione francese alla Restaurazione. La scelta di questo periodo secondo me non è casuale, infatti, per mostrare al meglio il dramma dell'intellettuale che non riesce a cambiare il mondo, è funzionale un'epoca di grandi sconvolgimenti politico-sociali raccolti nel giro di pochi anni. Fu quella un'epoca in cui si svilupparono le teorie degli Illuministi, in cui si tentò di rovesciare l'ordine che reggeva l'Europa e in cui le nuove ideologie furono represse duramente dai vecchi imperi. Unica altra epoca così densa di sconvolgimenti fu la prima metà del Novecento, ma Calvino non poteva sceglierla perché avrebbe reso l'opera incompatibile con la trilogia araldica, inoltre un romanzo ambientato durante il Ventennio e la Resistenza avrebbe stimolato una ferita ancora aperta e dolorosa, rimanendo così privo di quella leggerezza tanto cara all'autore. Non dimentichiamo che la Resistenza Calvino la trattò già con Il Sentiero dei Nidi di Ragno e per farlo narrò la storia con gli occhi di un bambino, proprio per privarla della carica retorica propria di altri romanzi sul tema.

Il Barone Rampante è il più lungo romanzo della trilogia araldica di Calvino e anche quello che ho gradito meno. L'ho trovato comunque un'ottima lettura e mi ha confermato la grandezza dell'autore, a incidere sul mio gradimento è di sicuro stata la sua minore originalità rispetto agli altri due, inoltre fino all'ultimo mi ha lasciato col dubbio (che ho tutt'ora) riguardo al suo effettivo significato. Resta comunque un ottimo libro che consiglio di leggere e non ridimensiona ai miei occhi la grandezza di Calvino, che con storie in apparenza banali riesce sempre a far riflettere su temi importanti e per niente semplici. Mi restano ancora tanti autori da scoprire e leggere, ma al momento mi sento di dire che Italo Calvino è stato forse il più grande scrittore italiano del Novecento, nonché uno dei più grandi del mondo.

Francesco Abate 


domenica 18 marzo 2018

COMMENTO AL CANTO XX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Di nova pena mi convien far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch'è d'i sommersi.
Arrivato alla quarta bolgia dell'ottavo cerchio, Dante con questi tre versi sembra quasi volersi fare coraggio. Mentre il canto XIX era iniziato con un'invettiva contro Simon mago, un'aspra critica che apriva un canto nel quale il poeta si è poi mostrato molto duro nei confronti dei simoniaci, questo si apre con un'introduzione che sembra quasi fatta per prendere tempo, come chi si accinge a raccontare qualcosa di raccapricciante. Così come nel canto XIX i versi aspri ci introducevano alla visione di un Dante arrabbiato, nel XX questo apparente temporeggiamento ci introduce alla contemplazione di uno spettacolo che colpisce molto il poeta e lo induce a provare pietà. Guardando in basso, Dante vede camminare una schiera di peccatori sul fondo bagnato dalle proprie lacrime. I dannati si muovono con lo stesso passo delle persone in processione per la remissione dei peccati. Il poeta rimane sconvolto quando si accorge che le anime hanno la testa torta all'indietro, con il volto dalla parte della schiena e l'occipite dal lato della pancia. Vista la posizione del loro volto, sono costretti a camminare all'indietro, davanti infatti non possono vedere. Dante ipotizza che essi non parlino perché impossibilitati a causa della posizione della testa, ma non ne è sicuro e lui stesso esclude questa ipotesi. Il poeta si rivolge poi al lettore:
"Se Dio ti lasci, lettore, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com'io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra immagine di presso
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso".
L'autore chiede al lettore di comprendere la tristezza che nasce in lui nel vedere quelle immagini umane così stravolte, modificate al punto da bagnarsi le natiche con le lacrime che cadono dai loro occhi. La richiesta di comprensione è motivata dal fatto che tutto quello che vede nell'Inferno è frutto della giustizia divina, quindi i dannati non meriterebbero compassione, eppure quell'immagine così deturpata del corpo umano scuote la sensibilità del poeta. A questo punto interviene la sapienza, Virgilio, a rimproverare Dante e a spiegargli quanto sia giusto ciò che vede. L'intervento della guida è molto duro ("Ancor se' tu de li altri sciocchi?"), dice che l'unico modo per avere pietà di quelle anime è non averne ("Qui vive la pietà quand'è ben morta") e che nessuno è più scellerato di chi soffre guardando gli effetti della giustizia divina. La ragione ricorda quindi a Dante che, essendo quella punizione un'emanazione della volontà divina, va apprezzata e non sofferta. Per far comprendere meglio al suo protetto quanto quei dannati meritino la pena che stanno patendo, Virgilio inizia a elencare alcuni di loro e a narrarne le gesta. Il primo che indica è Anfiarao, uno dei sette re partecipanti all'assedio di Tebe, con fama di indovino, il quale fu inghiottito dalla terra mentre combatteva sotto le mura della città e finì all'Inferno. Indicando il primo peccatore, la guida ci fa capire che nella quarta bolgia sono puniti gli indovini, e spiega anche il motivo per cui sono condannati a tenere la testa ritorta all'indietro: vollero guardare troppo avanti in vita, cercando di vedere il futuro o la volontà superiore, così ora gli è concesso di guardare solo all'indietro ("Mira ch'a fatto petto de le spalle; / perché volse veder troppo davante, / di retro guarda e fa retroso calle"). Il secondo dannato che Virgilio indica è Tiresia, indovino di Tebe, il quale fu mutato in donna quando impedì a due serpenti di unirsi e ritornò uomo solo quando riuscì a far unire gli stessi due serpenti. Subito dietro Tiresia ("quel ch'al ventre li s'atterga") c'è Aronta, indovino carrarese chiamato a interpretare gli auspici del cielo subito dopo che Cesare ebbe varcato il Rubicone. C'è infine Manto, la figlia di Tiresia, che fuggì da Tebe per non essere colpita dal tiranno Creonte. 
La visione di Manto dà a Virgilio l'occasione di parlare a Dante delle origini di Mantova. Nei canti precedenti ci è stata già presentata l'origine di Firenze, adesso il mantovano Virgilio narra della nascita della sua città. Il discorso della guida è molto ricco di riferimenti geografici e storici. Dopo la morte di Tiresia e con la caduta di Tebe sotto Creonte, Manto fuggì e iniziò a girare per il mondo. Per descrivere il luogo in cui Manto si stabilì, Virgilio ricorre a una lunga descrizione che parte dal lago di Garda, passa per i fiumi Mencio e Po, finisce in una "lama" di terra paludosa che è il luogo dove oggi sorge Mantova. In questa palude si rifugiò Manto, con l'intenzione di stare lontana dalla gente, e trascorse la sua vita tra gli spiriti maligni e i sortilegi. Nel luogo dove lei visse e morì si trasferì poi della gente, senza nessun fine se non quello di avere un posto sicuro in cui vivere, e nacque la città che dall'indovina prese solo il nome. Il racconto la guida lo conclude citando un fatto storico, cioè la cacciata di Pinamonte de' Bonacolsi, signore della città. Virgilio infine invita il suo allievo a diffidare delle altre storie che circolano circa la fondazione di Mantova (una leggenda la voleva fondata da un figlio di Manto, un'altra dalla stessa indovina). Dante rassicura il maestro, gli dice che dopo aver ascoltato la sua versione quelle degli altri per lui possono essere solo "carboni spenti", gli chiede poi di indicargli altri dannati perché la sua mente gli ripropone sempre quel pensiero. Virgilio gli indica Euripilo, indovino dell'antica Grecia che, insieme a Calcante, indicò alle navi il momento opportuno per salpare. Dalle parole di Virgilio si evince che Dante conoscesse Euripilo grazie all'Eneide, infatti la guida dice: "Euripilo ebbe nome, e così 'l canta / l'alta mia tragedia in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta". Degli indovini che Virgilio mostra, Euripilo è l'ultimo della mitologia antica. La guida passa a mostrare quelli più recenti, perché astrologi e indovini erano molto in voga anche all'epoca di Dante (lo sono tutt'ora, a dire il vero). Passa Michele Scotto, medico e astrologo scozzese, il quale servì alla corte di Federico II; c'è poi Guido Bonatti, astrologo di Forlì, il quale servì diversi signori e il sovrano Federico II; poi arriva Asdente, soprannome dato in vita a un maestro calzolaio parmense di nome Benvenuto, che divenne però famoso come indovino. Indicando l'Asdente, Virgilio si lascia andare a un commento del tutto privo di pietà, ribadendo quanto un sentimento del genere non sia adatto a quelle anime: "vedi Asdente, / ch'avere intesto al cuoio e a lo spago / ora vorrebbe, ma tardi si pente". Indicando le donne che in vita furono dedite alle arti divinatorie, Virgilio commenta così: "Vedi le triste che lasciaron l'ago, / la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine; / fecer malie con erbe e con imago". Alla fine la guida incita Dante a continuare il cammino, perché la Luna è già sull'orizzonte. Nell'indicare la Luna, fa riferimento alla leggenda che ravvisava nelle macchie lunari l'immagine di Caino, condannato a portare un fascio di spine sulle spalle per l'eternità ("Ma vienne ormai, ché già tiene 'l confine / d'amenue li emisperi e tocca l'onda / sotto Sobilia Caino e le spine"). Il riferimento alla Luna conferisce all'ambiente un tocco di magia che ben si abbina ai maghi e agli indovini ospitati nella bolgia. Dante, come molti uomini della sua epoca, subisce il fascino mitologico degli indovini e degli astrologi. Vediamo da un lato la durezza della ragione, rappresentata dall'intransigente Virgilio, dall'altro il magico fascino della Luna, che non abbandona il poeta nemmeno nel suo viaggio infernale.

Francesco Abate   

mercoledì 14 marzo 2018

RECENSIONE DE "STORIA DELLA COLONNA INFAME" DI ALESSANDRO MANZONI

Inizialmente pensato per far parte della prima stesura di Fermo e Lucia, Storia della Colonna Infame è un saggio storico attraverso il quale Manzoni ci mostra come, in preda al furore, il buon senso possa venire a mancare e la legge cessi di essere giustizia.
Manzoni nel saggio analizza una vicenda giuridica del 1630. Accusati di aver unto i muri di alcune abitazioni di Milano, Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora subirono un'atrocissima condanna. Furono prima torturati con ferri roventi, poi con la ruota, infine appesi sei ore e poi sgozzati. I loro cadaveri furono bruciati e le ceneri disperse nel fiume. La bottega di Mora, dove si riteneva essersi stretto il patto scellerato che portò al crimine, fu rasa al suolo e al suo posto fu eretta la "Colonna infame", che avrebbe dovuto ricordare ai posteri l'infamia degli untori condannati e la vittoria della legge contro di loro.
Lo scrittore non si limita a raccontare la vicenda, la usa come spunto per delle importanti riflessioni. Già altri scrittori prima di lui, su tutti Pietro Verri (filosofo, economista, storico e scrittore del Settecento), avevano ampiamente analizzato la vicenda. Verri, colui che aveva approfondito la storia più di tutti, si era però limitato all'aspetto giuridico, evidenziando l'abuso che si era fatto della tortura in quel procedimento. Manzoni, pur sottolineando le forzature fatte dai giudici per estorcere le confessioni a Piazza e Mora, cerca di cogliere maggiormente il lato umano della questione. All'autore della Storia della Colonna Infame preme infatti mostrarci come i giudici, che dovrebbero lavorare per assicurare la giustizia, nella foga di punire qualcuno per un crimine temuto e odioso (nel Seicento la peste mieté numerose vittime, generando quindi un vero terrore), finirono per costruire un'accusa inverosimile e la portarono avanti violando continuamente le procedure, abusando della tortura negli interrogatori. Il buon senso cedette il passo alla furia, questo Manzoni lo sottolinea più volte, trasformando gli uomini di legge in aguzzini. 
La storia che ci narra l'autore ci mostra poi il dramma dei miserabili, infatti Piazza e Mora finirono condannati all'atroce pena che ho descritto sopra, mentre il cavalier Padilla, potendosi permettere una difesa e non dovendo contare su quella d'ufficio, riuscì a mostrare l'infondatezza delle accuse e ad essere assolto. I due condannati dovettero aspettare il secolo successivo per essere assolti dalla storia: nel 1778 la Colonna, ormai divenuta simbolo dell'iniquità dei giudici, fu abbattuta e oggi ne è conservata solo la lapide nel Castello Sforzesco.

Ogni volta che leggo un classico, mi piace trovare la ragione per cui valga la pena leggerlo ancora oggi, nell'epoca in cui tutto ciò che non procura denaro viene considerato inutile. Come ho scritto sopra, Manzoni ha voluto raccontarci questa storia per mostrarci come la paura di un male oscuro, e la furia che essa genera, possano alterare le capacità di giudizio e trasformare la giustizia in ingiustizia. Per capire quanto sia attuale il messaggio di Manzoni, ci basti ricordare delle gogne mediatiche create dai giornalisti all'indomani di un delitto che ha fatto scalpore, dell'odio che spesso finiamo per provare nei confronti di una persona che nemmeno è ufficialmente accusata del delitto, e che magari alla fine ne è estranea. Ogni volta in cui noi giudichiamo senza obiettività, solo sulla base dell'emotività, commettiamo un crimine simile a quello commesso contro Piazza e Mora nel 1630. 

Francesco Abate

mercoledì 7 marzo 2018

VI RACCONTO LA MIA POESIA "PER OGNI STELLA"

Per ogni stella è l'ultima poesia che ho pubblicato su Spillwords.com.
Con questo brevissimo componimento ho voluto evidenziare come ogni fine implichi un nuovo inizio. Spesso quello che di nuovo nasce è conseguenza diretta del vecchio che è scomparso, come la sinfonia della vita che si alza Per ogni stella stanca che muore.

Qualora lo vogliate, potete leggere la poesia al link: http://spillwords.com/per-ogni-stella/.

Grazie e buona lettura.

Francesco Abate

COMMENTO AL CANTO XIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Il canto XIX si apre con un'invettiva contro Simon mago, personaggio la cui vicenda è narrata negli Atti degli Apostoli: battezzato da Filippo, chiese poi a Pietro e Giovanni di ricevere il dono di conferire lo Spirito Santo, offrendo in cambio un compenso in denaro. Per il Cristianesimo, Simon mago fu il primo eretico e da lui prende il nome il peccato di simonìa, cioè il commercio di cose sacre o anche di beni terreni che abbiano acquisito carattere sacro (ad esempio i benefici ecclesiastici). L'incipit del canto ci fa capire che i poeti sono arrivati nella terza bolgia dell'ottavo cerchio, dove sono appunto puniti i simoniaci. Già da questi primi versi è inoltre comprensibile come tale peccato sia per l'autore particolarmente odioso, infatti inizia subito attaccando il primo che lo commise.
Dante e Virgilio sono arrivati proprio sopra la terza bolgia e Dante vede come sono puniti i simoniaci. Lo spettacolo non impressiona e non muove a pietà il poeta, come capitato in altre occasioni, semplicemente produce nel suo animo una lode alla giustizia divina: "O somma sapienza, quanta è l'arte / che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, / e quanto giusto tua virtù comparte!". Il fondo e le pareti della bolgia presentano delle buche circolari e di uguale grandezza. Per rendere l'idea di come appaiano le buche, Dante le paragona ai pozzetti che erano presenti nella Battistero di San Giovanni a Firenze e che servivano per permettere di conferire più battesimi allo stesso tempo, fungevano quindi da fonti battesimali in cui erano immersi i bambini. Nella sua descrizione, l'autore cita anche un episodio che lo riguarda, accaduto qualche anno prima della stesura della Commedia: dovette romperne uno per salvare un bambino, identificato dai critici come Antonio Baldinaccio dei Cavicciuoli, che vi stava annegando. Il riferimento al salvataggio non è motivato dalla voglia di essere lodato, il poeta infatti lo scrive per cancellare un equivoco, per smentire chi credeva che l'avesse fatto in segno di disprezzo ("e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni"). Dalle buche della bolgia escono fuori i piedi e i polpacci dei peccatori che vi sono infissi, il resto del corpo è invece all'interno e non si vede. Sui piedi arde il fuoco, a causa del dolore le gambe guizzano così forte che potrebbero spezzare funi e corde ("Fuor de la bocca a ciascun soperchiava / d'un peccator li piedi e de le gambe / infino al grosso, e l'altro dentro stava. / Le piante erano a tutti accese intrambe; / per che sì forte guizzavan le giunte, / che spezzate averien ritorte e strambe"). 
Osservando il tormento dei simoniaci, Dante nota due gambe che si agitano più di quelle degli altri peccatori, arse da un fuoco più rosso degli altri. Chiede spiegazioni a Virgilio, il quale si offre di farlo avvicinare al dannato così da poterci parlare. La guida dice che farà avvicinare Dante qualora lo voglia, il discepolo dal canto suo si affida totalmente al maestro e gli dice che lo farà solo se quest'ultimo lo ritiene necessario ("Tanto m'è bel, quanto a te piace"). I due pellegrini scendono sul fondo della bolgia e subito arrivano vicini al dannato che ha attirato il loro interesse. Dante chiede al peccatore di parlare, di raccontare la sua storia, ma anche adesso nelle sue parole non c'è pietà, sembra farsi beffe della sua condizione, evidenziando come sia infisso nel terreno come un palo e a testa in giù ("<< O qual che se' che 'l di sù tien di sotto, / anima trista come pal commessa >>, / comincia' io a dir, << se puoi, fa motto. >>"). Il poeta si china per ascoltare il dannato e paragona la sua posizione a quella dei sacerdoti chiamati alla confessione in extremis di un condannato a essere sepolto vivo. Il dannato in questione è papa Niccolò III, che Dante colloca tra i simoniaci perché nell'unica elezione di cardinali da lui fatta, tre cardinali su nove furono scelti tra la sua famiglia, gli Orsini. Sentendo le parole di Dante, Niccolò III crede sia Bonifacio VIII ad essere caduto nella bolgia e si meraviglia di come ciò sia successo in anticipo rispetto a ciò che lui sapeva, papa Bonifacio VIII morì infatti nel 1303, tre anni dopo l'anno in cui si svolge il viaggio dantesco. Il dannato continua con un'invettiva nei confronti di quello che crede essere Bonifacio, accusandolo di aver preso con inganno la bella donna (la Chiesa) per poi distruggerla. Dante è confuso, non capisce e non sa cosa rispondere, Virgilio perciò lo esorta a dire di non essere chi il dannato crede. Il poeta esegue l'ordine, il dannato allora sospira (probabilmente deluso) e inizia a raccontare la sua storia. Racconta di essere stato papa ("fui vestito del gran manto"), di appartenere alla casata degli Orsini e di essere lì per aver favorito i suoi nipoti ("cupido sì per avanzar gli orsatti, / che su l'avere e qui me misi in borsa"). Rivela che sotto la sua testa vi sono i papi che prima di lui commisero il peccato di simonìa, li può vedere dalle fessure della pietra, e che presto lui scivolerà sotto perché in quella buca cadrà Bonifacio VIII. Niccolò III fa poi un'altra profezia: dopo Bonifacio VIII verrà in quella buca un altro papa ancora, un pastor sanza legge. Si riferisce a Clemente V, il papa che spostò la sede apostolica ad Avignone, quindi vendette la chiesa. Niccolò III conclude il suo discorso paragonando Clemente V al Giasone di cui è scritto nel libro dei Maccabei, che comprò il sacerdozio dal re di Siria, insinuando che il pontefice comprò la carica papale dal re di Francia. Alle parole di Niccolò III, Dante non risponde con pietà o rispetto, come ha fatto in precedenza con altri, bensì con un discorso carico di rabbia:
"Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro".
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria.
Però ti sta, ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch'ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu marte,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
Dante si rivolge a Niccolò III, ma di fatto se la prende con tutta la Chiesa. Inizia ricordando che Dio non volle ricchezze da Pietro, gli chiese solo la fede, e che gli apostoli accolsero Mattia senza pretendere alcuna donazione in denaro. Dice poi al pontefice che quella punizione è giusta, con disprezzo lo invita a tenere d'occhio il denaro accumulato con le decime e usato per osteggiare le politiche di Carlo d'Angiò. L'invettiva è rabbiosa, addirittura dice che se il dannato non fosse stato capo della Chiesa in vita, userebbe parole ancor più aspre, perché l'avarizia di quei capi corrotti favorisce l'iniquità. Cita poi l'episodio dell'Apocalisse in cui Giovanni Evangelista vede la meretrice che si concede ai re, quindi la chiesa che si vende ai sovrani. Le sette teste con cui nacque la meretrice, quindi la Chiesa, rappresentano i sacramenti, mentre le dieci corna sono i dieci comandamenti. Egli accusa poi i pontefici di essere degli idolatri, con la differenza che per ogni idolo adorato dall'idolatro semplice loro ne adorano cento, si sono fatti un Dio d'oro e d'argento. L'invettiva si conclude poi con un richiamo a Costantino, il cui male non fu la conversione, ma la donazione fatta a papa Silvestro con cui gli conferì le prime ricchezze terrene (il famoso documento della "Donazione di Costantino" che poi si è rivelato un falso). Il pensiero di Dante riguardo la corruzione della Chiesa diventa chiarissimo con questa invettiva: i papi corrotti non meritano alcun perdono e hanno ridotto qualcosa di sacro a un triste scambio di favori.
Anche la descrizione del modo in cui pronuncia l'invettiva ("forte spingava con ambo le piotte") ci mostra la rabbia con cui Dante parla. Il poeta è convinto che alla sua guida piaccia il suo parlare, perché si tratta di cose vere. Virgilio comunque, come per riportare in sé il suo protetto e fargli svanire la rabbia, lo prende e lo stringe al petto. Insieme riprendono il cammino e giungono sopra la quarta bolgia.

Voglio concludere il commento con una riflessione. Considerando le critiche che spesso oggi si muovono alle istituzioni religiose, non parlo solo di quelle cristiane, appare lampante l'attualità del pensiero e dell'opera dantesca. Dante è un credente del Trecento, eppure già soffre nel vedere una Chiesa corrotta e attenta solo all'accumulo di ricchezze, gestita come un regno più che come una guida spirituale. 
Se il pensiero dantesco è attuale, una considerazione va fatta circa gli insegnamenti che esso ci può dare. Dante è un credente inquieto e, per certi versi, deluso. Non è però un credente passivo, non esita a criticare anche in termini molto aspri i pontefici. La sua però non è una critica sterile e rabbiosa, come quelle a cui siamo abituati oggi in tutti gli ambiti, egli infatti spiega cosa c'è che a suo modo di vedere non funziona e in altre sue opere ragiona anche circa il modo in cui la situazione andrebbe corretta. 
Ho voluto sottolineare questi aspetti perché credo siano un insegnamento fondamentale per noi che viviamo nell'epoca dell'urlo, dell'invettiva e dell'offesa sostituita alla critica. Dante può ancora insegnarci che ci può essere una terza via tra l'accettazione passiva della realtà e l'esplosione di rabbia, ci può essere la critica ragionata. Mi è piaciuto sottolineare questo aspetto. Questa riflessione è poi la migliore risposta che si possa dare a chi chiede quale sia l'utilità di studiare Dante o i classici in generale: certe opere immortali possono svegliarci e insegnarci di nuovo a pensare.

Francesco Abate