domenica 14 gennaio 2018

COMMENTO AL CANTO XII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

I poeti iniziano la discesa lungo il dirupo che conduce verso il settimo cerchio. Si tratta di una discesa molto ripida, per rendere l'idea Dante la paragona agli Slavini di Marco, una grande frana del monte Zugna, in Trentino, che si trova tra Serravalle e Lizzana, sulla sinistra del fiume Adige. "Qual è quella ruina che nel fianco / di qua da Trento l'Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco, / che da cima del monte, onde si mosse, / al piano è sì la roccia discoscesa, / ch'alcuna via darebbe a chi su fosse: / cotal di quel burrato era la scesa". Lungo la discesa, i poeti si imbattono nel Minotauro, che se ne sta disteso su una sporgenza della roccia. Il Minotauro è una creatura della mitologia greca, concepita dall'amore mostruoso della regina di Creta, Pasife, per un toro bianco. Pasife, innamorata del toro, si fece chiudere in una vacca di legno in modo da essere posseduta dalla bestia. Da questo rapporto sessuale anomalo nacque il Minotauro, un mostro con il corpo di uomo e la testa di toro. Nel raccontare l'incontro con il mostro, Dante lo definisce "l'infamia di Creti ... che fu concetta ne la falsa vacca". Non appena li vede, il Minotauro si infuria al punto da mordere sé stesso. Come sempre, nei canti dell'Inferno il comportamento dei demoni ha sempre un carattere bestiale. Inoltre i prossimi dannati che Dante incontrerà sono quelli che furono violenti contro il prossimo, quindi il Minotauro rappresenta anche la violenza bestiale a cui essi si prestarono. Subito Virgilio interviene, spiega alla bestia che il viaggiatore che ha davanti non arrecherà danno a nessuno, a differenza del "duca d'Atene" Teseo che lo uccise, ma procede solo per vedere la condizione dei dannati. Alle parole della guida, il Minotauro reagisce come il toro che ha ricevuto il colpo mortale, iniziando a saltellare da una parte all'altra ("Qual è quel toro che si slaccia in quella / ch'a ricevuto già 'l colpo mortale, / che gir non sa, ma qua e là saltella, / vid'io lo Minotauro far cotale"). Virgilio, approfittando della distrazione della bestia, urla a Dante di calarsi, così i due riprendono la discesa lungo il dirupo.
Lungo la discesa, Virgilio anticipa la domanda di Dante e gli spiega l'origine della frana. Prima di tutto gli dice che nella sua precedente discesa nella città di Dite questa non c'era, poi racconta che fu generata dal violento terremoto che anticipò di poco la discesa di Gesù nel Limbo, quando il Redentore scese a recuperare le anime dei patriarchi dell'Antico Testamento. Il riferimento è chiaramente al terremoto che seguì la morte di Gesù, documentato nel Vangelo di Matteo. Dopo la morte di Cristo, quindi, vi fu una scossa tellurica tanto violenta da causare una frana anche nelle profondità dell'Inferno. Nello spiegare la potenza del terremoto, Virgilio dice: "tremò sì, ch'i pensai che l'universo / sentisse amor, per lo qual è chi creda / più volte il mondo in caòsso converso". La frase è un riferimento al pensiero del filosofo greco Empedocle, il quale riteneva che il mondo si reggesse sulla discordia degli atomi e che, qualora questa fosse cessata, lo stesso sarebbe tornato al caos primordiale. Per Virgilio il terremoto fu tanto forte da fargli pensare che il mondo stesse tornando al caos primordiale a causa della raggiunta concordia degli atomi. 
Virgilio termina la spiegazione circa l'origine della frana mostrando a Dante il fiume di sangue in cui sono immersi i dannati. Nel primo girone del settimo cerchio sono puniti i violenti contro il prossimo, essi sono immersi in un fiume di sangue bollente, il Flegetonte. A guardia di questi dannati vi sono i centauri, creature mitologiche dal corpo di cavallo nella metà inferiore e umano in quella superiore. I centauri corrono lungo la riva del fiume, che è ad arco, e scoccano frecce contro i dannati. Così Dante descrive la scena: "Io vidi un'ampia fossa in arco torta, / come quella che tutto 'l piano abbraccia, / secondo ch'avea detto la mia scorta; / e tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia / corrien centauri, armati di saette, / come solien nel mondo andare a caccia". Vedendo i due poeti, tre centauri si spostano dal gruppo con in mano gli archi e le frecce. Uno dei centauri chiede a quale pena siano essi destinati e minaccia di colpirli con la freccia qualora non dovessero rispondergli. Virgilio ribatte che risponderà a Chirone, facendo poi un riferimento a quella che fu la vicenda mitologica del centauro che ha parlato. I tre centauri che si sono avvicinati sono Nesso, Chirone e Folo. A parlare è stato Nesso, il quale fu ucciso da Ercole con una freccia avvelenata perché aveva tentato di rapirne la moglie. La sua vicenda spiega il commento di Virgilio riguardo la "voglia sempre sì tosta" di Nesso. Il poeta chiede di parlare con Chirone perché nella mitologia greca questi fu un grande saggio, studioso ed educatore di grandi eroi (tra cui Achille). Mentre i centauri erano quasi sempre associati a leggende poco edificanti, come Folo che tentò di violentare Ippodamia il giorno del suo matrimonio o come Nesso, Chirone è una figura positiva e per questo gode nel poema della stima e della considerazione dei poeti. A Dante è la guida a svelare l'identità dei tre centauri che gli sono venuti incontro. Virgilio spiega anche che i centauri corrono lungo la riva del Flegetonte e colpiscono con le frecce quelle anime che tentano di emergere. Ogni anima infatti è più o meno immersa nel sangue bollente a seconda della gravità della sua colpa, i centauri badano che nessuna violi quest'ordine. Durante il dialogo tra Dante e Virgilio, Chirone si accorge che Dante non è una semplice anima, così lo fa notare anche ai centauri chiedendo: "Siete voi accorti / che quel di retro move ciò ch'el tocca? / Così non soglion far li piè d'i morti". Dei tre centauri era ovvio che questa osservazione arrivasse da Chirone, il più saggio della sua specie. Virgilio si avvicina a lui e gli dice che Dante è vivo ed è giusto che gli si permetta di vedere l'Inferno, spiega poi che dal Paradiso un'anima è scesa ad affidargli la guida del poeta e che nessuno dei due è un brigante ("non è ladron, né io anima fuia"). Spiegate le ragioni del viaggio, Virgilio chiede a Chirone che gli affidi uno dei centauri come guida, affinché mostri loro dove sia possibile guadare il Flegetonte e lo guadi con Dante in groppa, dato che il poeta non è una semplice anima e non può volare. Chirone si rivolge a Nesso, dicendogli di guidarli dall'altra parte del fiume. La scelta si spiega sempre con la mitologia, secondo la quale Nesso era abilissimo nel guadare i fiumi.
Accompagnati da Nesso, Dante e Virgilio iniziano a camminare lungo il Flegetonte. Dante vede dei dannati immersi fino agli occhi nel sangue bollente, Nesso gli spiega che sono le anime dei tiranni che uccisero e spogliarono la gente della propria roba ("che dier nel sangue e ne l'aver di piglio"). A questo punto il centauro indica alcuni dei dannati che si vedono da quella posizione. C'è Alessandro Magno, re della Macedonia, e Dionisio. Riguardo la figura di Dionisio, la critica non sa stabilire se si tratta del famoso tiranno di Siracusa, che non solo depredava le persone, ma anche i templi dedicati alle divinità, o del figlio, ugualmente crudele. Lo stesso Boccaccio ammise che "non appar di quale l'autor si voglia dire". C'è poi Ezzelino III, genero di Federico II e capo dei ghibellini italiani, nonché tiranno di Padova e di gran parte della Lombardia. La figura del tiranno Ezzelino III è ornata da molte leggende poco edificanti, come quella secondo cui privò dei propri possessi alcuni cittadini di Padova; un'altra racconta che fece bruciare più di undicimila persone. C'è Obizzo II d'Este, marchese di Ferrara e della Marca d'Ancona, ucciso dal figliastro. Dei nomi indicati sopra, il centauro cita solo l'episodio relativo a Obizzo II, forse perché della notizia all'epoca circolarono diverse versioni. La versione di Nesso è confermata da Virgilio, vista la sorpresa che mostra Dante alla notizia del parricidio. Nesso si ferma dove sono delle anime immerse fino alla gola. Il centauro stavolta indica una sola anima, "Colui fesse in grembo a Dio / lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola". Il riferimento è a Guido di Montfort, che uccise in chiesa Arrigo di Cornovaglia per vendicare la morte del padre avvenuta ad opera del re d'Inghilterra, cugino di Arrigo. Durante la messa, Guido di Monfort assalì Arrigo e costui tentò di difendersi avvinghiandosi al sacerdote, che fu a sua volta ucciso dalle pugnalate dell'assalitore. Il cuore di Arrigo fu collocato in una coppa d'oro, nella mano di una statua eretta presso l'abbazia di Westminster. La vicenda di Guido di Monfort ci fa capire che, mentre ai tiranni spetta di restare immersi fino agli occhi, a coloro che uccisero per vendetta tocca stare immersi fino alla gola. Proseguendo, il poeta vede persone che hanno la testa fuori dal sangue bollente, altre anche il torace, altre ancora si scottano solo i piedi. Il fiume è sempre meno profondo, così i poeti e il centauro arrivano al guado. Mentre guadano il fiume, Nesso spiega a Dante che se dalla parte da cui sono giunti il fiume è ormai poco profondo, dall'altra raggiunge di nuovo la massima profondità, in cui è giusto che siano immersi i tiranni, coloro che meritano la punizione più grave. Nesso cita alcuni tiranni immersi dall'altro lato. C'è Attila, il re degli Unni. Poi c'è Pirro, non sappiamo però se il riferimento è al figlio di Achille, che infierì sui Troiani, o al re dell'Epiro, che mosse guerra a Roma. Viene poi indicato Sesto, il figlio di Pompeo, il quale visse da corsaro. Ci sono poi Riniero da Corneto, un famoso assassino dell'epoca di Dante, e Riniero Pazzi, nobile fiorentino che uccise il vescovo Silvanese Spagordo. Finito questo discorso, Nesso lascia i poeti e torna dal lato del Flegetonte da cui sono venuti.

Francesco Abate

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