lunedì 22 gennaio 2018

COMMENTO AL CANTO XIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tosco.
Il canto XIII inizia con i poeti che si ritrovano dentro un bosco. Nesso, il centauro che li ha aiutati a guadare il Flegetonte, non ha ancora ripercorso all'indietro il suo cammino che i due sono già immersi nell'oscura vegetazione. Non ci sono sentieri. La descrizione del bosco contrappone in ogni verso un elemento di natura viva ad uno di natura morta, che in quel luogo infernale regna. Non ci sono foglie, ma solo rami spogli; i rami non sono dritti, ma nodosi e storti; non ci sono frutti, solo spine velenose. Si tratta di un bosco dove regna la morte. Per rendere l'idea del luogo in cui si trova, Dante dice che i nidi delle bestie selvagge che vivono tra Cecina e Corneto non hanno sterpi così folti. Tra questa vegetazione morta e nodosa hanno il nido le Arpie, creature mitologiche già presenti in Omero, aventi volto di donna e corpo d'uccello. Nell'Eneide viene narrato come queste predissero ai Troiani, approdati sulle isole Strofadi (isole greche poste nel mar Ionio), future sventure e Dante nei suoi versi cita questo episodio nel momento in cui le presenta al lettore ("Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, / che cacciar de le Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno"). Virgilio spiega a Dante che sono finiti nel secondo girone (dove sono puniti i suicidi e gli scialacquatori) e lo sarà finché non arriverà "ne l'orribil sabbione", cioè nel terzo girone, dove c'è un'immensa distesa di sabbia su cui piovono fiamme. La guida invita poi Dante a guardare bene ciò che c'è intorno, così vedrà cose tanto orribili da non poter essere descritte con le parole. 
Dante si accorge di sentire lamenti venire da ogni parte, non vede però persone e non capisce chi sia ad emetterli. Confuso, si ferma. Virgilio crede che Dante sia convinto che vi siano persone nascoste tra la vegetazione e questo viene raccontato dal poeta con l'uso di un poliptoto: "Cred'io ch'ei credette ch'io credesse / che tante voci uscisser ...". Per mostrare a Dante che si sbaglia, Virgilio lo invita a rompere un pezzo di ramo. Senza farselo ripete, il poeta spezza un piccolo rametto da una grande pianta. Nel racconto della scena, al fine di aumentare la drammaticità del momento, l'autore riporta ogni minimo gesto compiuto. Non si limita a scrivere che spezzò un rametto, scrive: "Allor porsi la mano un poco avante / e colsi un ramicel da un gran pruno;". Nel momento in cui spezza il ramo, accade l'impensabile, il tronco grida "Perché mi schiante?" e inizia a perdere sangue. Dal momento in cui inizia a perdere sangue, il tronco riprende a parlare: "Perché mi scerpi? / non hai tu spirito di pietade alcuno? / Uomini fummo, e or siamo fatti sterpi: / ben dovrebb' esser la tua man più pia, / se state fossimo anime di serpi". Il tronco in pratica accusa Dante di essere crudele, lo informa che quelle sono anime mutate in piante e non semplici vegetali, alla fine lo rimprovera dicendogli che dovrebbe mostrare più pietà perfino se si trattasse di anime appartenute ad animali ripugnanti. Sentendo quelle parole uscire dalla ferita insieme al sangue, come il fischio emesso dal ramo che arde ("Come d'un stizzo verde ch'arso sia / da l'un de' capi, che da l'altro geme / e cigola per vento che va via, / sì de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue"), il poeta si spaventa e lascia cadere il pezzo di ramo che ha spezzato. Subito interviene Virgilio a discolparlo, spiega all'anima ferita che mai Dante le avrebbe fatto del male se lui non glielo avesse chiesto, gli dice poi che a malincuore lo ha spinto a spezzare quel ramo, ma aveva bisogno di mostrargli quale meraviglia celava quel bosco. Data questa spiegazione, la guida invita l'anima a rivelare la propria identità, così che Dante, al quale è concesso di tornare tra i vivi, possa farsi perdonare facendo rivivere il suo ricordo. L'anima in questione è quella di Pier della Vigna, fu giudice di corte a Palermo e Federico II di Svevia lo creò gran cancelliere imperiale. Nel 1246 fu nominato protonotaro e luogotenente di Federico II, con la facoltà di sostituire lo stesso imperatore nei giudizi. Oltre ad essere grande uomo di legge, fu un famoso poeta della scuola siciliana. Fu accusato di tradimento e arrestato, per questo si uccise nell'aprile del 1249. Secondo alcuni critici, tra cui Boccaccio, fu liberato dal carcere ma si uccise ugualmente a causa del disprezzo in cui era caduto. Pier della Vigna, convinto dalle parole di Virgilio, racconta la sua vita: dice di essere stato uomo di fiducia dell'imperatore Federico II e di essergli stato tanto vicino da escludere dalle decisioni supreme quasi tutti gli altri uomini ("Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e disserrando, sì soavi, / che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi"); ha dedicato alla sua mansione tanto impegno da perderci la tranquillità e la vita stessa, si presenta quindi come ucciso a causa del suo operato. Molto belli sono i versi con cui l'anima descrive la drammatica fase finale della sua vita: 
La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che lieti onor tornaro in tristi lutti.
L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede.
Pier della Vigna inizia paragonando l'invidia ad una prostituta che non toglie mai gli occhi dall'impero. Fu questa invidia a mettergli tutti contro, questi cospiratori con false accuse gli misero contro l'imperatore e trasformarono la sua onorevole vita in un supplizio. Lo sdegno prodotto dalle false accuse lo portarono poi ad uccidersi. Il dannato conclude giurando di essere innocente e chiedendo a Dante di riabilitare la sua memoria nel mondo dei vivi. Finito il racconto, Pier della Vigna resta in silenzio. Virgilio invita Dante a chiedere ciò che vuole, ma questi gli chiede di far lui le domande che reputa possano interessare al suo allievo, infatti è troppo commosso per parlare. Virgilio allora chiede al dannato di descrivere come il corpo di un suicida finisca per mutarsi in vegetazione. Pier della Vigna inizia a soffiare dal tronco e quest'aria diventa parole, spiega che nel momento in cui l'anima è separata dal corpo a causa del suicidio, Minosse la destina al settimo cerchio. L'anima cade nella selva in un punto casuale e lì germoglia "come gran di spelta", cioè come il seme di una varietà di farro la cui caratteristica principale è quella di germogliare molto rapidamente. L'anima diventa così una pianta e le Arpie si cibano delle sue foglie, provocandole ferite e dolori. Pier della Vigna spiega poi che come le altre anime essi recupereranno il corpo mortale dopo il Giudizio Universale, ma non potranno rivestirsene perché "non è giusto aver ciò ch'om si toglie", lo trascineranno fin dentro la selva e questo sarà appeso sui rami della loro anima mutata in vegetale.
Dante e Virgilio stanno ancora ascoltando Pier della Vigna, convinti che abbia altro da aggiungere, quando sono attratti da un rumore. Vedono due anime correre per la selva, nude e graffiate, rompendo ogni ramo e ogni cespuglio. La scena richiama la caccia al cinghiale, con la preda che corre tra frasche e cespugli, rompendoli e graffiandosi. Stiamo per assistere alla pena a cui sono destinati gli scialacquatori, coloro che sperperarono i propri patrimoni e facendolo distrussero sé stessi. L'anima che sta più avanti invoca la morte perché consapevole del supplizio che sta per patire. Quella che sta più dietro invece gli fa notare, quasi schernendolo, che non fu così veloce nel fuggire quando lo uccisero alla Pieve del Toppo. I riferimenti sono pochi per stabilire a chi appartenga la prima anima, comunque i critici sostengono che si tratti di Lano senese, un giovane molto ricco che insieme ad alcuni suoi pari dissipò tutto il proprio patrimonio. Fu costretto per mantenersi a far parte di un gruppo di militari senesi mandati in aiuto ai fiorentini contro gli aretini e fu ucciso alla Pieve del Toppo, un contado di Arezzo. L'altro invece è Giacomo da Sant'Andrea, ricco ereditiere che dissipò il proprio patrimonio in modo sfrenato (si dice che per ritardare l'arrivo di certi ospiti, non essendo ancora pronto il sontuoso banchetto, fece incendiare alcune sue case lungo il tragitto che questi percorrevano) e fu a sua volta ucciso. I due fuggitivi, forse perché stanchi, smettono di fuggire e si mettono al riparo in un cespuglio. Intanto arriva una muta di cani feroci che li assale e li sbrana.
Virgilio avvicina Dante al cespuglio ferito da Giacomo da Sant'Andrea, qui il poeta lo sente chiedere all'anima appena dilaniata a cosa sia servito usarlo come riparo e che colpa ha lui della sua vita da dissipatore di beni. Virgilio chiede al cespuglio chi sia e questi, dopo aver chiesto loro di raccogliere ai suoi piedi le fronde spezzate, risponde. Si tratta di un anonimo cittadino fiorentino colpevole del peccato di suicidio. Molto belli sono i versi con cui l'anonimo fiorentino spiega la sua provenienza, accennando anche al destino di Firenze, città perennemente in guerra:
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond'ei per questo
sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Secondo l'anonimo fiorentino, Firenze è destinata ad essere sempre scossa dalle guerre perché, con l'avvento del Cristianesimo, scelse come proprio protettore san Giovanni Battista, mentre prima era il dio Marte. Firenze sarebbe già stata distrutta di nuovo (il fiorentino richiama una tradizione errata che voleva in passato la città distrutta da Attila, in realtà a distruggerla fu il re degli Ostrogoti, Totila) se non fosse rimasta in piedi vicino l'Arno una statua del dio Marte. A mio parere, sia la citazione errata di un episodio storico (che riprende una diceria esistente all'epoca, seppur errata) che l'importanza data all'ira di una divinità pagana, ci indica che il personaggio non sia un tipo particolarmente colto.

Francesco Abate

Nessun commento:

Posta un commento

La discussione è crescita. Se ti va, puoi lasciare un commento al post. Grazie.