Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i' mi strinsi a la fida compagna:
e come sare'io sanza lui corso?
chi m'avria tratto su per la montagna?
Il terzo canto del Purgatorio si apre con Dante che, guardando le anime disperdersi in varie direzioni verso il Purgatorio a seguito del rimprovero di Catone, si stringe alla sua guida e si chiede come avrebbe fatto a correre verso il monte senza di lui. La corsa delle anime è infatti priva di riflessione, esse si sono abbandonate a un piacere umano e sono state richiamate dalla ragione, rappresentata da Catone, a correre verso il monte della giustizia, cioè la montagna del Purgatorio. La visione di questa corsa disordinata e istintiva verso un bene superiore, indotta da una ragione esterna, intenerisce l'animo del poeta, il quale si aggrappa all'uomo che per lui rappresenta la ragione, cioè Virgilio, e si chiede senza di lui come avrebbe fatto a giungere alla beatitudine. Il canto inizia quindi con un elogio della ragione umana, che può fungere da guida verso il bene supremo. Dal canto suo Virgilio si sente in colpa, rendendosi conto che il rimprovero di Catone era rivolto indirettamente anche a lui, colpevole di essersi lasciato distrarre dal canto di Casella e aver temporaneamente dimenticato la sua funzione di guida. Constata Dante il peso che ha sull'animo buono anche il più piccolo errore ("o dignitosa coscienza e netta, / come t'è picciol fallo amaro morso!"). Nel momento in cui la guida riprende a camminare senza fretta, la quale toglie decoro a ogni atto, la mente di Dante inizia a concentrarsi su altre cose e lui alza gli occhi a osservare il monte del Purgatorio che si erge dall'oceano. Si accorge dell'ombra che il suo corpo proietta a causa del sole che splende alle sue spalle, ma vedendone una sola si spaventa e si volta, temendo che il maestro l'abbia abbandonato. Virgilio gli chiede perché mai abbia ancora dubbi e come mai ancora abbia paura di esser da lui abbandonato. Gli spiega quindi che il suo corpo mortale, che proiettava ombra, è sepolto a Napoli e perse la vita a Brindisi; lo invita a non meravigliarsi del fatto che la sua immagine adesso non proietti ombra, l'anima è come i cieli, i quali brillano di luce propria senza intercettare però quella degli altri. Nonostante l'anima non proietti ombra, spiega ancora, essa prova sensazioni uguali a quelle del corpo, e questo la somma virtù non spiega come sia possibile. Virgilio dà poi del matto a chi pensa di spiegare le verità celesti solo attraverso la ragione umana, dicendo che se fosse stato possibile non sarebbe stata necessaria la Reincarnazione, e i filosofi conoscerebbero l'impossibilità di conoscere Dio nella sua interezza, desistendo così dal loro desiderio, lo stesso che tormenta in eterno le anime del Limbo. Virgilio tra questi "matti" cita Aristotele e Platone, poi china la fronte e resta turbato, facendo capire che include anche sé stesso nella categoria.
I pellegrini arrivano ai piedi del monte, la cui salita è così ripida da far sembrare una comoda scala i dirupi a strapiombo della Liguria. Virgilio si ferma e si chiede quale sia il lato migliore per iniziare la salita. Mentre il poeta mantovano pensa a testa bassa, Dante vede sopraggiungere da sinistra delle anime che viaggiano a passo molto lento. Il poeta incita la guida a rivolgersi alle anime in cerca di informazioni, convinto che loro sapranno indicare la strada più adatta. Lo sguardo di Virgilio si rasserena e questi dice che è il caso di andare incontro alle anime visto il loro lento incedere. Ancora c'è una grossa distanza tra i pellegrini e le anime sopraggiungenti, quanta un buon lanciatore riuscirebbe a coprire con un sasso, che queste ultime si fermano e, prese dal panico, si stringono tra loro addossandosi alla parete. Le anime sono spaventate dal vedere due persone compiere il cammino opposto al loro, fatto evidentemente innaturale. Virgilio si avvicina loro e, dopo averli definiti "spiriti eletti" la cui pace è già stata decretata, gli chiede dove la montagna è meno ripida. Dal gruppo di anime ne esce una, come nei branchi di pecore c'è sempre la più curiosa che si stacca dal gregge per avvicinarsi a qualcosa di nuovo, e questa arretra quando vede l'ombra proiettata a terra dal corpo di Dante. Vedendo l'anima arretrare, anche le altre si spaventano e fanno altrettanto, pur non sapendo quale visione l'abbia fatta trasalire. Dedotto il motivo del loro spavento, Virgilio si affretta a spiegargli che Dante è vivo e che la sua volontà di scalare la montagna non contrasta i disegni della virtù celeste. Le anime parlano in coro, come un sol corpo, e accompagnandosi coi gesti dicono ai pellegrini di procedere verso destra. Una delle anime si rivolge direttamente a Dante, chiedendogli di guardarlo e ricordare se mai l'abbia visto nel mondo dei vivi. Il poeta si volge verso l'anima e vede un uomo bello e dall'aspetto nobile, con un ciglio spaccato da una ferita; gli dice infine di non averlo mai visto prima. L'anima a questo punto gli mostra un'altra ferita sul petto, poi dice di essere Manfredi, il nipote dell'imperatrice Costanza d'Altavilla, e chiede di andare a dire a sua figlia che le voci sulla sua morte da scomunicato sono false. Manfredi spiega di essersi pentito in punto di morte dei propri orribili peccati, ma "la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei". Il principe dichiara poi che se l'arcivescovo di Cosenza, che gli diede la caccia per ordine di Clemente IV, conoscesse la misericordia di Dio, non avrebbe fatto disseppellire il suo corpo dal tumulo di pietre erto in suo onore presso Benevento. Il diritto canonico allora vietava la sepoltura degli scomunicati, quindi l'arcivescovo di Cosenza fece applicare una norma, non tenendo conto, a detta di Manfredi, della misericordia divina e del suo pentimento in punto di morte. Le ossa di Manfredi furono trasferite fuori dallo Stato della Chiesa, accompagnate da lumi spenti e capovolti (come imponeva la cerimonia) e ora sono consumate dalla pioggia e dal vento. Manfredi spiega poi che la scomunica della Chiesa non nega l'accesso alla gloria eterna, però obbliga l'anima dello scomunicato a stare nell'Antipurgatorio per un tempo trenta volte superiore a quello trascorso fuori dal seno della Chiesa, quindi nella scomunica. Il tempo di permanenza può essere però accorciato dalle preghiere dei viventi. Il discorso di Manfredi si conclude con l'esortazione a Dante affinché porti sue notizie alla figlia e le dica di pregare per lui, così da accorciare il suo tempo di permanenza nell'Antipurgatorio.
I nuclei fondamentali di questo canto sono due: il ragionamento sulla ragione umana e quello sul potere della scomunica.
Nella parte iniziale del canto la ragione ci viene presentata come mezzo per giungere alla beatitudine, infatti grazie al rimprovero di Catone le anime, seppur disordinatamente, riprendono la via verso la montagna e i pellegrini riprendono il loro viaggio sacro. Virgilio però, pochi versi dopo, ammonisce circa la presunzione di comprendere le verità celesti attraverso la ragione umana, che è limitata e quindi non può comprendere in pieno Dio e i suoi misteri. Il messaggio è chiaro: la ragione è un mezzo e non va abbandonata, bisogna però fuggire la presunzione di poter conoscere completamente Dio attraverso essa.
Interessante è anche il discorso circa la scomunica, che Dante tratta attraverso il principe Manfredi. Molti canonici all'epoca di Dante sostenevano che morire in scomunica destinasse inevitabilmente all'Inferno, non c'era quindi scampo. Tale convinzione, seppur magari supportata da valutazioni di natura teologica (non ne so abbastanza, oltretutto l'argomento è così vasto da non poter essere trattato nelle poche righe di un articolo), era sicuramente figlia dell'opportunità politica: all'epoca la scomunica era un'arma usata spesso dal papa contro nemici politici e di certo faceva comodo convincere la vittima che non era solo il rischio dell'isolamento politico a incombere su di lui, ma anche la dannazione eterna. In quest'ottica il pensiero di Dante è chiaro, e per certi versi straordinariamente moderno. Egli non priva di peso l'uscita dalla protezione della Chiesa, che è detentrice del potere spirituale, ma riconosce comunque la superiorità della misericordia divina sull'intransigenza del clero: se il peccatore si pente, Dio lo perdona e non c'è scomunica che possa mandarlo all'Inferno. Dante priva il papato della capacità di destinare all'Inferno i propri nemici, però lascia comunque alla scomunica parte delle sue proprietà per non disconoscere del tutto il potere degli uomini di chiesa sull'anima umana. Se oggi questa posizione può sembrarci addirittura troppo morbida nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche, nel Trecento dovette invece essere una posizione coraggiosa di un uomo che credeva nel potere della Chiesa pur non tollerandone gli abusi.
Francesco Abate
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