Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l'altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s'arresta, e questo e quello intende;
e così da la calca si difende.
Il sesto canto del Purgatorio inizia con un paragone tra l'incedere di Dante in mezzo alla folla delle anime e quello del vincitore di un antico gioco medievale chiamato "zara". La zara era un gioco in cui i giocatori dovevano indovinare la somma che sarebbe venuta fuori dal lancio di tre dadi, prendeva il nome dalla parola che veniva detta quando il turno era annullato perché era venuta fuori una somma possibile solo con l'uscita di tre numeri uguali sui tre dadi (ad esempio 18, che si poteva ottenere solo con l'uscita di tre 6). Un po' come i giochi di carte odierni, erano favoriti coloro che mentalmente riuscivano a calcolare le probabilità di uscita di determinate somme man mano che si procedeva coi lanci; sempre come i giochi di carte dei nostri tempi, era un gioco d'azzardo e il vincitore si assicurava i soldi persi dagli altri giocatori. Dante evoca un'immagine tipica della partita di zara in una qualsiasi locanda dell'epoca: il perdente rimane immerso nei suoi pensieri, dove esamina le sue mosse per capire dove ha sbagliato, in vincitore invece esce dal locale circondato da persone che gli chiedono l'elemosina, sapendo che ha appena vinto una somma cospicua, così lui dona qualche spicciolo a quelli che lo seguono più da vicino ed esce dal locale. Così come il vincitore è circondato dalla calca dei mendicanti, Dante è circondato dalle anime che gli chiedono la grazia di essere ricordate tra i vivi affinché preghino per loro e lui procede promettendo che lo farà. Dopo averci descritto la scena, il poeta procede a un elenco delle anime che riconosce nella calca. c'è Benincasa da Caterina ("l'Aretin") , il quale fu ucciso da Ghino di Tacco, che volle punirlo per aver emesso delle condanne a morte contro alcuni suoi familiari; c'è poi Guccio dei Tarlatti, ghibellino che annegò nell'Arno durante un inseguimento; a pregarlo c'è anche Federico Novello, figlio di Guido e di una figlia di Federico II, che fu ucciso dai suoi parenti; vede poi Gano, figlio del pisano Marzucco, che fu ucciso dal conte Ugolino e fece apparire forte suo padre, che riuscì a sopportare cristianamente il dolore; c'è Orso degli Alberti di Mangona, ucciso dal cugino; c'è Pierre de la Brosse, il quale accusò giustamente la seconda moglie del re di Francia Filippo l'Ardito di aver avvelenato il figliastro Luigi al fine di favorire la salita al trono di suo figlio Filippo il Bello, ma venne impiccato perché ritenuto colpevole di tradimento (Dante auspica che la regina, "la donna di Brabante", si penta affinché non finisca nell'Inferno tra i falsi accusatori).
Una volta liberatosi dalle anime dei morti per morte violenta, i quali pregano affinché si preghi per loro e si acceleri il loro accesso al Paradiso ("quell' ombre che pregar pur ch'altri prieghi / sì che s'avacci lor divenir sante"), Dante manifesta un dubbio alla sua guida. Il poeta ricorda un passo dell'Eneide in cui la Sibilla invita Palinuro, morto senza sepoltura, a desistere dal pregare gli dèi affinché cambino i loro disegni perché ciò non accadrà mai. Si chiede quindi, e manifesta tale dubbio a Virgilio, se le anime del Purgatorio preghino invano affinché si abbrevi il loro periodo di penitenza o se non ha colto qualcosa nel poema virgiliano. La guida spiega di non aver scritto il falso nella sua opera, ma allo stesso tempo le anime non pregano invano: con le preci, cioè le preghiere per le anime dei defunti, non si va ad alterare il giudizio di Dio, infatti la colpa è scontata interamente dall'anima o con la penitenza o con la carità di un vivente, quindi la soddisfazione dell'Altissimo rimane inalterata. Virgilio spiega anche che nel caso di Palinuro sarebbe stata una prece pagana, perciò inefficace, perché le preghiere servono ad accorciare la penitenza solo se nate in un cuore che è nel pieno della grazia di Dio ("... La mia scrittura è piana; / e la speranza di costor non falla, / se ben si guarda con la mente sana: / ché cima di giudicio non s'avvalla / perché foco d'amor compia in un punto / ciò che de' sodisfar chi qui si astalla; / e là dov' io fermai cotesto punto, / non s'ammendava, per pregar, difetto, / perché 'l priego da Dio era disgiunto"). Il poeta mantovano è però consapevole dell'incompletezza della sua spiegazione, quindi invita il suo discepolo a non perdere più tempo su queste riflessioni, perché in cima al monte troverà Beatrice che gli chiarirà meglio il concetto. In questi versi l'autore ci spiega come la ragione non possa comprendere appieno il dogma, per una completa comprensione di queste verità è necessario affidarsi alla teologia (Beatrice). Sentito il nome dell'amata, Dante si rianima e incita il maestro a riprendere la marcia, giacché la posizione del sole rivela che ormai è già pomeriggio; Virgilio gli annuncia che viaggeranno per tutto il giorno e per un altro ancora, il viaggio perciò è ancora lungo.
Dopo aver spiegato a Dante la durata del viaggio, Virgilio gli fa notare un'anima che si mantiene a distanza e li guarda, così decide di farsi indicare da lei la via più veloce. L'anima li vede avvicinarsi ma non muta atteggiamento, se ne sta altera, non parla e si limita a posare su di loro lo sguardo pacato. Virgilio le chiede quale sia la migliore salita, ma questa invece di rispondere chiede di dove siano. Non appena sente che Virgilio è mantovano, gli si avvicina, si presenta come Sordello e dice di essere a sua volta di Mantova, infine i due si abbracciano.
Assistendo al mutamento dell'atteggiamento di Sordello, motivato solo dal fatto di aver ritrovato un compaesano, Dante si lascia andare ad una durissima invettiva contro l'Italia, la quale comincia con dei versi celebri che spesso troviamo citati anche sui social network:
"Ah serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!"
Il poeta stavolta non attacca una specifica città, come ha già fatto nei canti precedenti, ma l'Italia intera. La definisce ostello di dolore, è una nave senza nocchiere, cioè vaga nella storia senza una guida, non è una signora ma una prostituta. A far arrabbiare Dante è la consapevolezza che, mentre Sordello accoglie festoso Virgilio per il solo fatto che proviene dalla sua stessa terra, nella penisola i cittadini si uccidono e si fanno guerra per qualche pezzetto di terra o per il potere. L'invettiva è poi estesa al di fuori delle città, anche le zone costiere non sono libere da conflitti. Il poeta si chiede a cosa sia servita la legge di Giustiniano se poi non c'è una guida forte a farla rispettare? Avere le leggi e non usarle è una colpa ancor più grave che non averle. Si rivolge poi alla gente, dicendo che se avesse chiaro il disegno di Dio (per Dante il detentore del potere temporale è frutto della volontà divina), dovrebbe sapere che ci vorrebbe un Cesare a guidare l'Italia, invece senza un uomo a tenere con forza il potere temporale nella penisola la situazione si fa sempre peggiore. Accusa poi Alberto d'Asburgo di avere abbandonato l'Italia al proprio destino invece di riportarla sulla retta via, perciò auspica che su di lui cada il giudizio delle stelle e questo sia noto al suo successore, così che regni sapendo cosa rischia. Invita Alberto d'Asburgo a vedere come i signori italiani si fanno la guerra tra loro e come sono ridotte le varie città italiane. Lo invita a vedere Roma, che piange e invoca il suo imperatore, chiedendogli perché non la riporti all'antica gloria. Ironicamente il poeta gli dice di venire a vedere la gente quanto si ama. Dante si rivolge poi a Dio, chiedendogli se i suoi occhi sono rivolti altrove e si sia dimenticato dell'Italia. Dopo il dubbio, il poeta ritrova la sua fede e si chiede se invece sia questo un disegno imperscrutabile. Le città sono piene di tiranni e ogni villano diventa un usurpatore. L'invettiva si sposta poi dall'Italia intera a Firenze. D'apprima Dante è sarcastico e dice che Firenze può ben essere contenta di non meritare le critiche che prima ha rivolto alla penisola, poi dice che il popolo fiorentino ha la giustizia in bocca ma non l'animo per metterla in pratica. Molti rifiutano gli incarichi politici perché troppo complessi, non sentendosi all'altezza, invece i fiorentini con una colpevole leggerezza sono sempre pronti a sobbarcarseli. Il poeta poi torna sarcastico, dicendo che può essere lieta Firenze perché è ricca, pacifica e governata con intelligenza. Solone e Licurgo (i due noti legislatori di Atene e Sparta) diedero al bene pubblico un servizio trascurabile, se paragonato alle tante e articolate leggi di Firenze, che non durano un mese e mezzo ("Atene e Lacedemona, che fenno / l'antiche leggi e furon sì civili, / fecero al viver bene un picciol cenno / verso di te, che fai tanto sottili / provvedimenti, ch'a mezzo novembre / non giugne quel che tu d'ottobre fili"). Dante conclude l'invettiva paragonando i mutamenti delle leggi fiorentine ai movimenti continui e inutili dell'inferma che non trova pace mentre è coricata sul letto.
Il canto VI del Purgatorio è un canto politico, costruito interamente al fine di contenere l'invettiva rivolta prima all'Italia e poi a Firenze. Le anime che troviamo in questi versi sono quelle dei morti di morte violenta e tutti quelli che Dante riconosce sono morti in intrighi di palazzo o in battaglie. Il poeta ci mostra prima il male, poi ne sviscera le ragioni politiche (l'assenza di un sovrano forte e di leggi ben fatte) ed evidenzia la sofferenza del cittadino nel vedere una situazione così disastrosa.
A differenza di altri canti, i dannati sono presentati molto rapidamente e nessuno parla di sé, lo spazio è lasciato quasi tutto all'invettiva, dando a questa il suo ruolo centrale in questi versi.
Francesco Abate
Nessun commento:
Posta un commento
La discussione è crescita. Se ti va, puoi lasciare un commento al post. Grazie.