martedì 18 settembre 2018

COMMENTO AL CANTO V DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Io era già da quell'ombre partito,
e seguitava l'orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando 'l dito,
una gridò: << Ve' che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca! >>.
Dante si è già separato dalle anime e segue il cammino di Virgilio, d'un tratto è distratto da una di esse che, vedendo i raggi del sole che non lo attraversano, urla il proprio stupore. Lui si volta e le vede tutte cariche di meraviglia; interviene però Virgilio, il quale lo rimprovera aspramente. La guida gli chiede perché mai si lasci tanto distrarre dalle chiacchiere altrui, lo invita a ignorarle come fa la torre che non crolla a causa del vento, infine gli spiega che quando l'uomo lascia sovrapporre tra loro più pensieri, finisce per rimandare i propri proponimenti e diventare inconcludente ("Vien dietro a me, e lascia dir le genti: / sta come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti; / ché sempre l'omo in cui pensier rampolla / sovra pensier, da sé dilunga il segno, / perché la foga l'un de l'altro insolla"). Dante arrossisce, mostrando così di essere sinceramente pentito della propria negligenza, e lo segue. L'asprezza del rimprovero di Virgilio si spiega col senso di colpa che ha provato quando Catone, indirettamente, l'ha rimproverato per essersi fermato con Dante a sentire il canto di Casella. Il poeta mantovano ha capito la lezione, il raggiungimento dell'eterna beatitudine è l'unico obiettivo su cui si debba concentrare, deve perciò resistere a tutte le tentazioni dell'animo umano.
Lungo la costa che incrocia il cammino dei pellegrini, si imbattono in un gruppo di anime che canta il Miserere, il salmo della penitenza. Quando le anime vedono che i raggi del sole non attraversano il corpo di Dante, interrompono il loro canto e producono un "oh!" di stupore, poi due di loro si avvicinano e chiedono spiegazioni riguardo alla natura del poeta. Virgilio spiega loro che il suo compagno di viaggio è vivo e, se si rivolgeranno a lui con cortesia, potrà fare in modo che tra i vivi si rivolgano preghiere per loro. Sentite queste parole, le anime si avvicinano al poeta con una rapidità superiore a quella delle stelle cadenti o dei lampi nelle nubi d'agosto. Dante usa queste due similitudini perché, ai suoi tempi, sia i lampi che le stelle cadenti erano giudicate effetto dell'accensione dei vapori. Tutte si avvicinano a Dante, Virgilio lo invita ad ascoltarle senza arrestare il proprio cammino. Le anime lo invitano a fermarsi e a guardare se c'è tra loro qualcuno che conosca; gli spiegano poi che furono negligenti pentitisi in punto di morte. Il poeta gli risponde che non conosce nessuno di loro, ma li invita a raccontargli le loro storie così che possa farle conoscere, così da guadagnarsi quella beatitudine che come loro sta cercando. 
Dal coro delle anime se ne separa una, quella di Jacopo del Cassero, di Fano, che fu podestà di Bologna e di Milano. Gli dice che si fida di Dante e non c'è bisogno che giuri di portare le sue notizie tra i vivi. Gli chiede di far pregare per lui la gente di Fano, sua città natale, qualora dovesse riuscire a vedere la Marca Anconetana, posta tra la Romagna e il Regno di Napoli governato da Carlo II d'Angiò ("... se mai vedi quel paese / che siede tra Romagna e quel di Carlo..."), così che possa purificare la sua anima. Ricorda che fu di Fano, ma la morte la trovò nella zona di Padova, città che la tradizione vuole fondata da Antenore, là dove credeva di essere al sicuro. Fu Azzo VIII d'Este a farlo uccidere, ma Jacopo sostiene che provava nei suoi confronti più rancore di quanto dovesse: in pratica sentiva di avere delle colpe nei confronti del duca, ma non erano tanto gravi da giustificare l'omicidio. Immagina poi che se si fosse rifugiato a Mira, un borgo tra Padova e Oriago, sarebbe ancora vivo. Ferito a morte, scappò nella palude e cadde nel fango, dove vide il sangue spandersi dalle sue ferite. Nonostante sia pentito delle sue malefatte e stia percorrendo il cammino verso la beatitudine eterna, Jacopo del Cassero prova ancora dolore per la sua morte prematura e rivive nella mente ancora gli ultimi drammatici istanti della sua esistenza terrena. ("Ma s'io fosse fuggito inver' la Mira, / quando fu' sovraggiunto ad Oriaco, / ancor sarei là dove si spira. / Corsi al palude, e le cannucce e 'l braco / m'impigliar sì, ch'i' caddi; e lì vid'io / de le mie vene farsi in terra laco").
Subito un'altra anima si fa avanti e prega Dante, qualora la bontà divina lo porti a terminare con successo il proprio viaggio, di portare nel mondo il suo ricordo. Si tratta di Buonconte di Montefeltro, figlio di Guido, che guidò l'esercito di Arezzo contro Firenze nella battaglia di Campaldino e lì trovò la morte. Si lamenta del fatto che la moglie Giovanna non preghi per lui, lasciandolo solo nel suo cammino di redenzione. Dante chiede a Buonconte cosa accadde al suo corpo, che mai fu ritrovato dopo la battaglia: quale forza umana o divina ne impedì il ritrovamento? Buonconte racconta che ai piedi del Casentino c'è il torrente Archiano. Là dove l'Archiano si getta nell'Arno ("Là 've il vocabol suo diventa vano") arrivò ferito gravemente alla gola e fuggendo a piedi. Nel momento in cui la vista si appannò e la parola morì, gli venne in mente l'Ave Maria e morì recitandola. Quello che accadde dopo è così stupefacente che raccomanda a Dante di riportarlo ai vivi: l'angelo di Dio prese la sua anima mentre un angelo dell'Inferno, che invano la reclamava, decise di infierire sul corpo senza vita e scatenò un temporale così violento che fece esondare il fiume, così le acque sciolsero la croce che con le braccia Buonconte si era formata sul petto e trascinarono il corpo sul fondo dell'Arno ("Quivi perdei la vista, e la parola; / nel nome di Maria finì; e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola. / Io dirò vero, e tu 'l ridì tra ' vivi: / l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno / gridava: "O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l'etterno / per una lagrimetta che 'l mi toglie; / ma io farò de l'altro altro governo!". / ... / Lo corpo mio gelato in su la foce / trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse / ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce / ch'i' fe' di me, quando 'l dolor mi vinse; / voltommi per le ripe e per lo fondo, / poi di sua preda mi coperse e cinse "). Le parole di Buonconte sostengono la teoria del potere demoniaco sui fenomeni atmosferici, il male scatena la tempesta al solo fine di far sparire il corpo di Buonconte, come per renderne meno dolce la salvezza ottenuta in punto di morte. Nell'immagine del demonio che porta invano le proprie rimostranze all'angelo, vi è anche a mio parere una fotografia dell'impotenza del male contro la misericordia divina. Il male può agire sul corpo e farne strazio, ma quella preghiera fatta in punto di morte basta a privarlo di ogni potere sulla parte più importante dell'essere umano, cioè l'anima. Inoltre si può dedurre dall'immagine che il corpo è inesorabilmente destinato a subire le azioni del male, non ha scampo, è l'anima l'unica parte dell'uomo che può fuggirlo.
L'ultima anima che si rivolge a Dante è Pia de' Tolomei. Con molta delicatezza, chiede al poeta di ricordarsi di lei quando avrà finito il suo viaggio e si sarà riposato. Si presenta, dice di essere nata a Siena e morta in Maremma, poi accenna appena alla sua storia. Di Pia de' Tolomei non sappiamo molto di più rispetto a ciò che ci racconta Dante, le cronache dicono soltanto che a causare la sua morte fu la gelosia del marito o la sua volontà di sposare un'altra donna. Lei però non accusa direttamente il consorte, semplicemente allude al fatto che lui sa che lei morì violentemente in Maremma.

Il canto V è incentrato principalmente sulle storie delle anime che Dante incontra. Jacopo e Buonconte sono avversari politici, hanno combattuto la stessa battaglia e hanno fatto una fine tremenda. Sono ancora fortemente legati alla propria vita terrena, la cui tragica fine ricordano con dolore e sentono il bisogno di condividere. La redenzione che arriva attraverso il pentimento qui trascende la politica, le ideologie opposte non cambiano l'immagine dell'anima agli occhi di Dio.
La figura di Pia, nella sua diversità, dà un tocco dolce al canto. Ci viene presentata una donna mite e delicata, che parla senza però voler caricare l'interlocutore di alcuna responsabilità, non vuole pesare. Le sue poche parole non servono a raccontare quanto cruenta fu la sua fine o il suo pentimento, lei ricorda suo marito e le sue nozze. Nonostante sia lui il suo assassino, nemmeno lo accusa direttamente, ma fa solo un'allusione velata alla vicenda. Anche Pia è legata ancora alla sua vita terrena finita prematuramente, ma non concentra i suoi pensieri sul momento della morte, bensì su quelli d'amore, e si esprime con una delicatezza che quasi cancella l'asprezza dei versi precedenti. Non a caso la figura di Pia, arricchita di elementi romanzeschi, ebbe molta fortuna nel Romanticismo.
In questo canto, dove abbiamo letto di tre morti violente, vediamo chiaramente una delle grandi differenze tra l'Inferno e il Purgatorio. Nella prima cantica i morti di morte violenta esprimevano un aspro rancore nei confronti dell'assassino, manifestando l'umana tendenza alla vendetta e augurandogli spesso una dannazione peggiore della loro. In questo canto del Purgatorio invece le vittime accennano appena ai loro assassini, pur in alcuni casi descrivendo nei dettagli la loro morte. Non c'è l'auspicio che l'assassino patisca una sorte peggiore, non ci sono parole di vendetta. Lo stato delle anime del Purgatorio è quello di chi vede la beatitudine, non c'è spazio in loro per il risentimento.

Francesco Abate


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