sabato 13 aprile 2019

COMMENTO AL CANTO XXV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Ora era onde 'l salir non volea storpio;
ché 'l sole avea il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come fa l'uom che non s'affigge,
ma vassi a la via sua, che che li appaia,
se di bisogno stimolo il trafigge,
così intrammo noi per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
che per artezza i salitor dispaia.
Il canto XXV del Purgatorio si apre con la descrizione della salita dei poeti alla settima cornice. Si è arrivati a quell'ora in cui non sono ammessi ritardi nella salita ("'l salir non volea storpio"). L'autore ci fa capire che sono passate due ore dopo mezzogiorno dicendoci che il sole ha lasciato il meridiano al Toro e la notte allo Scorpione. Poiché l'ora è tarda, i poeti fanno come l'uomo che non si ferma nonostante sia chiamato dai suoi bisogni. Imboccano la strettoia (callaia) che porta alla settima cornice in fila indiana, perché non c'è abbastanza spazio per camminare affiancati. I protagonisti di questa salita sono ovviamente Dante, Virgilio e Stazio. 
Dante ha una gran voglia di soddisfare una curiosità che lo tormenta, ma reprime questo bisogno per timore di essere inopportuno. Per esprimere la sua situazione, l'autore si paragona al piccolo di cicogna, che apre le ali per volare via dal nido, salvo poi ripensarci e richiuderle per paura ("E quale il cicognin che leva l'ala / per voglia di volare, e non s'attenta / d'abbandonar lo nido, e giù la cala, / tal era io con voglia accesa e spenta / di dimandar, venendo infino a l'atto / che fa colui ch'a dicer s'argomenta"). Virgilio si accorge del bisogno del suo protetto e lo sprona a chiedere, dicendogli di scoccare la freccia, visto che la corda dell'arco l'ha già tesa al massimo. Il poeta chiede come possano le anime dimagrire in quel luogo dove il cibo non è necessario. La guida gli risponde citando due esempi: Maleagro, che morì al consumarsi di un tizzone ardente, e l'immagine riflessa dallo specchio, la quale ripete i movimenti compiuti dal corpo che riflette. Se Dante tenesse a mente il mito di Maleagro e l'immagine riflessa dallo specchio, non troverebbe tanto difficile comprendere il motivo per cui le anime possano dimagrire; siccome l'allievo non riesce a soddisfare da solo il suo dubbio, il maestro incarica Stazio di spiegarglielo. 
Stazio inizia chiedendo scusa a Virgilio perché spiegherà a Dante l'azione della Provvidenza di Dio (la veduta etterna) nonostante il poeta mantovano possa farlo più degnamente, ma non può rifiutare la richiesta fattagli con tanta gentilezza. In queste parole di Stazio c'è a mio parere da ravvisare un'espressione di cortesia dovuta all'ammirazione che prova per il poeta mantovano, infatti lui è un'anima purificata che sta ascendendo al Paradiso, per questo dovrebbe saperne di più sull'argomento rispetto a chi trascorre l'eternità del Limbo e alla gloria di Dio nemmeno può accedere. Fatta la premessa, Stazio invita Dante a custodire nella mente le parole che gli dirà perché con esse risponderà alla sua domanda.
Stazio inizia parlando della generazione umana. Il sangue più puro, che non viene mai riassorbito dalle vene e rimane come cibo non toccato a una mensa, acquista nel cuore paterno una virtù informativa atta a formare tutte le membra umane, così come quell'altro sangue che scorre nelle vene, le nutre e in esse si trasforma ("Sangue perfetto, che mai non si beve / de l'assetate vene, e si rimane / quasi alimento che di mensa leve, / prende nel core a tutte le membra umane / virtute informativa, come quello / ch'a farsi quelle per le vene vane"). Ancora puro, il sangue scende nei genitali maschili ("ov'è più bello tacer che dire") e poi si unisce al sangue femminile nell'utero ("quindi poscia geme sovr' altrui sangue in natural vasello"). Qui si raccolgono insieme, uno disposto a subire e l'altro a fare grazie al cuore da cui discendono ("per lo perfetto loco onde si preme"); il seme maschile prima coagula e poi dà vita alla materia che ha prodotto, il feto. Quando la virtù attiva è diventata anima, questa è simile a una pianta (anima vegetativa), con la sola differenza che quella umana è ancora in via di perfezionamento, mentre la pianta in questo stato è già giunta a perfezione. L'anima vegetativa già si muove e sente, come una spugna marina, e da qui inizia a sviluppare i cinque sensi. La virtù informativa, che discende dal padre, si spiega e si distende a formare le membra umane. 
Spiegato come si forma il corpo umano, Stazio dice a Dante che ancora non ha spiegato come si sviluppa l'anima razionale. Si tratta di un punto spinoso, tanto da aver indotto all'errore il filosofo Averroè, per cui l'intelletto era immateriale e disgiunto dall'anima sensitiva, e che commise tale sbaglio perché non trovò nel corpo umano un organo da cui l'intelletto dipende ("Ma come d'animal diventa fante, / non vedi tu ancor: quest'è tal punto, / che più savio di te fé già errante, / sì che per sua dottrina fé disgiunto / da l'anima il possibile intelletto, / perché da lui non vide organo assunto"). Non appena nel feto è compiuta la formazione del cervello ("sì tosto come al feto l'articular del cerebro è perfetto"), Dio (lo motor primo) si volge a lui, lieto di quel capolavoro compiuto dalla natura ("a lui si volge lieto sovra tant'arte di natura"), e gli soffia un'anima nuova, piena di virtù, che attira a sé anima vegetativa e sensitiva, formando un'anima sola che vive, sente ed è consapevole della propria esistenza ("che ciò che trova attivo quivi, tira / in sua sustanzia, e fassi un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira"). Perché Dante sia meno meravigliato dalle sue parole, Stazio gli fa l'esempio del succo d'uva che, grazie al calore del sole, diventa vino. Quando poi la Parca Lachesis non ha più lino, quindi quando sopraggiunge la morte, l'anima si libera dal corpo e porta con sé le potenze corporali e spirituali (l'umano e 'l divino): le potenze vegetativa e sensitiva restano inerti perché non funzionano più gli organi, invece le potenze dell'anima (memoria, intelligenza e volontà) diventano molto più acute di prima. Senza indugio, l'anima cade o sulla riva dell'Acheronte, se è dannata, o su quella del Tevere, se è salva. Arrivata sulla riva del fiume, qualunque esso sia, la virtù informativa raggia intorno all'anima così come ha fatto per formare le membra del corpo, quindi l'aria che è intorno all'anima assume l'immagine che fu del corpo; si tratta di un processo simile a quello che porta alla formazione dell'arcobaleno quando i raggi del sole si riflettono nell'umidità dell'aria ("Tosto che loco lì la circunscrive, / la virtù formativa raggia intorno, / così e quanto ne le membra vive. / E come l'aere, quand'è ben piorno, / per l'altrui raggio che 'n sé si reflette, / di diversi color diventa adorno; / così l'aere vicin quivi si mette / e in quella forma ch'è in lui suggella / virtualmente l'alma che ristette"). Il corpo aereo così formato segue l'anima ovunque, così come la fiammella segue sempre il fuoco. Poiché l'anima ha l'aspetto del corpo che ha lasciato, è chiamata ombra, e del corpo sviluppa i cinque sensi fino alla vista. Per questa ragione le anime ridono, piangono, desiderano: l'ombra è immagine degli stati d'animo che provano. 
Mentre Stazio parla, i poeti giungono alla settima cornice. Girano a destra e devono prestare attenzione al fuoco che viene sprigionato dalla parete della montagna; fortunatamente un vento soffia nella cornice e spinge le fiamme verso l'alto, così che la parte esterna della cornice sia percorribile. I tre poeti si trovano costretti a procedere uno alla volta lungo il lato esterno della cornice, perciò Dante ha paura sia di bruciarsi con le fiamme sia di cadere giù. Virgilio spiega che nella cornice si vuole che chi la percorra tenga a freno gli occhi, perché è molto facile sbagliare. Il commento del poeta mantovano può avere due significati: può riferirsi esplicitamente alla situazione di pericolo che c'è nella cornice, ma può allo stesso tempo essere un giudizio sul peccato di lussuria e sulla facilità con cui ci si può cadere. Dante sente cantare un inno che inizia con le parole "Summae Deus clementiae", si tratta di un inno che si canta al mattutino del sabato e che probabilmente l'autore inserì nel canto perché fa esplicito riferimento in alcuni versi alle fiamme che bruciano le carni affinché le membra siano vigili e il peccato di lussuria rimosso. L'inno che sente gli fa desiderare di volgersi verso il fuoco per vedere le anime che lo cantano, non dimenticando però di prestare attenzione al cammino, così come gli aveva consigliato Virgilio ("<< Summae Deus clementiae >> nel seno / al grande ardore allora udi' cantando, / che di volger mi fé caler non meno; / e vidi spirti per la fiamma andando; / per ch'io guardava a loro e a' miei passi, / compartendo la vista a quando a quando"). Terminato il canto, le anime gridano forte "Virum non cognosco", che secondo la tradizione evangelica furono le parole pronunciate dalla Vergine Maria all'arcangelo Gabriele quando questi le annunciò la maternità; si tratta perciò di un esempio di castità, virtù opposta alla lussuria. Le anime riprendono il canto a bassa voce e, terminatolo, ricordano la dea Diana che si nascose nei boschi per mantenersi casta e cacciò via la ninfa Elice, che era stata sedotta da Giove. Riprendono nuovamente a cantare, inframezzando il canto ad altri esempi di castità, sempre camminando nel fuoco: così scontano la loro pena ("Indi al cantar tornavano; indi donne / gridavano e mariti che fuor casti, / come virtute e matrimonio imponne. / E questo modo credo che lor basti / per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia: / con tal cura convene e con tai pasti / che la piaga da sezzo si ricuscia").

In questo canto torna protagonista l'elemento teologico. Attraverso Stazio, Dante tratta il tema della formazione dell'anima e della sua immagine dopo la morte, spiegando poi come possa lo spirito patire i mali o godere dei piaceri che sono propri del corpo. 
Secondo la visione dantesca, la formazione dell'anima avviene con un concorso di forze naturali e dell'opera divina. Il feto si forma grazie al sangue puro e alla virtù informativa che viene dal padre, ma la differenza tra uomo e animale, quindi la formazione dell'anima razionale, si realizza grazie all'intervento diretto di Dio. Dopo la morte, torna in azione la virtù informativa che permette la formazione dell'immagine dell'anima, l'ombra, sulla quale diventano visibili gli effetti delle pene o delle beatitudini dell'aldilà.
A spiegare le verità dell'anima e della grazia divina non è idonea la ragione umana, infatti non è Virgilio a parlarne, ma serve l'opera della filosofia morale, per questo è Stazio che spiega e che occupa con le sue parole la maggior parte del canto. La ragione, cioè il poeta mantovano, riesce solo a chiarire la questione con due esempi, uno mitologico (Maleagro) e uno scientifico (l'immagine riflessa dallo specchio), ma non può esprimere la spiegazione nel dettaglio.

Francesco Abate   

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