sabato 27 aprile 2019

COMMENTO AL CANTO XXVI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Mentre che sì per l'orlo, uno innanzi altro,
ce n'andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: << Guarda: giovi ch'io ti scaltro >>,
feriami il sole in su l'omero destro,
che già, raggiando, tutto l'occidente
mutava in bianco aspetto il cilestro:
e io facea con l'ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt'ombre, andando, poner mente.
Dante, Virgilio e Stazio proseguono il loro cammino lungo la parte esterna della settima cornice, col poeta mantovano che più volte allerta il suo protetto affinché stia attento ai passi che compie. Ricordiamo che stanno procedendo a poca distanza dal precipizio, non potendo avvicinarsi alla parte interna a causa delle fiamme. Il sole splende alla destra di Dante e si avvia al tramonto, mutando in bianco il colore del cielo che solitamente è celeste, e l'ombra del poeta fa apparire più rosse le fiamme. Di questo fenomeno si accorgono le anime, le quali iniziano a interrogarsi circa la natura del fenomeno. Iniziano le anime a parlare del poeta e constatano come non sembri una semplice ombra, ma il corpo di una persona viva. Alcuni si avvicinano anche per guardarlo meglio, avendo però cura di non uscire dalle fiamme e non interrompere così la loro pena ("poi verso me, quanto potean farsi, / certi si fero, sempre con riguardo / di non uscir dove non fosser arsi"). Una delle anime si fa coraggio e si rivolge direttamente a colui che attira l'attenzione di tutti; gli parla con gentilezza, si rivolge a lui come "tu che vai, non per esser più tardo, ma forse reverente, a li altri dopo", cioè come colui che procede dopo gli altri non per lentezza, ma per rispetto, e gli chiede di placare la sete di conoscenza che tormenta lui che arde tra le fiamme ("O tu che vai, non per esser più tardo, / ma forse reverente, a li altri dopo, / rispondi a me che 'n sete ed in foco ardo"). Fatta la premessa, specifica che non solo lui brama una spiegazione, ma tutte le anime la desiderano più di quanto gli abitanti delle terre calde di India ed Etiopia desiderino l'acqua fresca, e gli chiede come possa proiettare un'ombra come se fosse ancora in possesso del corpo avuto in vita. L'evento è così insolito che l'anima non si azzarda a dare per scontata la spiegazione più ovvia, cioè che il suo nuovo interlocutore cammini tra i morti pur essendo ancora in vita. 
Alla domanda appena fattagli, Dante risponderebbe senza esitazione, ma qualcosa attira la sua attenzione e lo distrae dal colloquio. Arriva un gruppo di anime le quali, camminando tra le fiamme, procedono in senso opposto a quelle viste fino ad ora. Le due schiere di anime si incontrano e, pur senza fermarsi, si scambiano baci; l'autore paragona questa immagine a quella della schiera di formiche le quali, procedendo nei due sensi di marcia, si incrociano e si annusano tra loro, forse (immagina il poeta) per scambiarsi indicazioni sulla strada da seguire e su cosa troveranno ("Li veggio d'ogne parte farsi presta / ciascun'ombra e basciarsi una con una / sanza restar, contente a breve festa: / così per entro loro schiera bruna / s'ammusa l'una con l'altra formica, / forse a spiar lor via e lor fortuna"). Non appena fanno per allontanarsi dal breve incontro, ancor prima di aver completato il primo passo che le dividerà, ciascuna delle anime appena giunte grida "Sodoma e Gomorra" mentre le altre, quelle viste per prime dal poeta, rispondono urlando la storia di Pasifae, moglie di Minosse, che si fece chiudere in una vacca finta per poter avere un rapporto sessuale col toro di cui s'era innamorata. Le urla delle anime ci indicano i peccati che scontano: quelle procedenti in senso inverso, quelle apparse dopo alla vista del poeta, scontano il peccato di sodomia, quindi la lussuria contro natura; le altre invece pagano la lussuria eterosessuale. Le schiere di anime si allontanano nelle due direzioni opposte, come gru che si dividono in due gruppi, alcune migrando verso il gelo dei monti, altre verso il caldo dei deserti africani, e tornano piangendo a cantare l'inno Summae Deus clementiae (incontrato nel canto precedente) e a gridare gli esempi di rimprovero del loro peccato. L'esempio delle gru chiarisce maggiormente il motivo per cui sono divisi in questa cornice i due tipi di lussuria: le gru tendono a svernare nei paesi caldi, quindi quelle che migrano verso il gelo dei monti sono contro natura, così come le anime che procedono in direzione opposta a quella degli altri lussuriosi. Ci sono perciò due tipi di lussuria: quella commessa da chi si lascia trasportare eccessivamente dagli istinti umani e quella di chi viola la natura umana e la stravolge ("Poi come grue ch'a le montagne Rife / volasser parte, e parte inver' l'arene, / queste del gel, quelle del sole schife, / l'una gente sen va, l'altra sen vene; / e tornan, lagrimando, a' primi canti / e al gridar che più lor si convene").
Passata la schiera dei sodomiti, l'altra si avvicina di nuovo a Dante, aspettando la risposta alla domanda fattagli poco prima. Il poeta non tarda a rispondere, dapprima consola le anime ricordando la loro futura beatitudine, poi spiega loro che il suo corpo non è rimasto morto nel mondo dei vivi, ma è lì con lui, quindi lui si trova in loro presenza pur essendo in vita; spiega poi di essere in cammino per ascendere al Paradiso, dove una donna (per alcuni la Vergine Maria, per altri Beatrice) intercede per lui presso Dio affinché possa completare il suo viaggio e liberarsi dalle tenebre della mente. Terminata la sua spiegazione, Dante augura alle anime di aver presto sazia la voglia di salire all'Empireo e vedere Dio, poi chiede chi siano loro e chi le anime passate prima in senso opposto ("Ma se la vostra maggior voglia sazia / tosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghi / ch'è pien d'amore e più ampio si spazia, / ditemi, acciò ch'ancor carte ne verghi, / chi siete voi, e chi è quella turba / che se ne va di retro a' vostri terghi"). Le anime restano un attimo in silenzio a causa dello stupore, come il montanaro che scende in città e viene travolto dalla meraviglia dei monumenti e delle consuetudini urbane. Superato il momento, l'anima che gli aveva rivolto la domanda prima gli esprime invidia, infatti lui può avere da vivo esperienza del mondo dei morti e uscire dagli errori in cui è caduto, poi gli spiega che il gruppo appena incrociato è quello di coloro che commisero lo stesso peccato che Giulio Cesare fece con Nicomede: scontano il loro peccato gridandolo e vergognandosi; il suo peccato e quello delle anime adesso presenti è invece lo stesso di Ermafrodito, per questo quando si separano dalle altre anime gridano il nome di Pasifae. Data la spiegazione, dice che non c'è tempo di elencare i nomi di tutte le anime lì presenti, e nemmeno li conosce tutti, ma gli rivela il proprio: lui è Guido Guinizzelli ed è lì perché si pentì prima di morire. Prima di continuare la narrazione del canto, è necessario spendere qualche parola circa il riferimento fatto a Giulio Cesare. Nella Roma imperiale girava voce, probabilmente fondata visto che venne ripresa anche da Cicerone, che Cesare avesse avuto rapporti sessuali col re di Bitinia, Nicomede. A causa di questo episodio, quando i soldati romani in trionfo ebbero la libertà di prendere in giro il loro capo, lo acclamarono "Regina" anziché "Re"; questo è l'episodio a cui fa riferimento Guinizzelli per spiegare il peccato dei sodomiti, il quale si oppone all'amore di Ermafrodito (figlio di Mercurio e Venere) per la ninfa Salmace. Per quanto riguarda la figura di Guinizzelli, si tratta del poeta bolognese indicato dallo stesso Dante come precursore del Dolce stil novo.
La reazione di Dante al sentire il nome di colui che ritiene un maestro, o addirittura un padre, è estremamente commossa. Ricorda l'episodio mitologico dei figli di Isifile, i quali sfidarono i soldati di Licurgo, re di Nemea, e salvarono la madre condannata a morte dalle mani dei carnefici; lui è preso dalla stessa commozione, ma non osa avvicinarsi troppo a Guinizzelli a causa delle fiamme che lo avvolgono. Nel descrivere la scena, l'autore descrive il poeta come "padre mio", infatti è per lui un maestro verso cui prova devozione e affetto. Si muove senza dire e sentire niente, resta pensieroso a guardarlo, non si avvicina solo per via delle fiamme ("Quali ne la tristizia di Licurgo / si fer due figli a riveder la madre, / tal mi fec'io, ma non a tanto insurgo, / quand'io odo nomar sé stesso il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d'amore usar dolci e leggiadre; / e sanza udire e dir pensoso andai / lunga fiata rimirando lui, / né, per lo foco, in là più m'appressai"). Terminata la commossa contemplazione, Dante giura di esser pronto al suo servigio. Guinizzelli dichiara che la grazia concessa da Dio a Dante ha lasciato dentro lui un tal segno che neanche le acque di Lete, che danno l'oblio, potranno cancellarlo; gli chiede poi, in nome del giuramento fatto, di spiegargli come mai prova per lui tanto affetto. Dante gli spiega di ammirarlo per le sue poesie le quali, finché durerà l'uso del volgare (l'uso moderno), saranno preziose. Guinizzelli indica un'anima e dice che quello è il miglior costruttore della lingua materna (il provenzale); dichiara che scrisse poesie d'amore e romanzi che superarono tutti gli altri poeti provenzali, poi invita Dante a non dare ascolto alle voci che ritengono superiore Gerault de Bournelh, del Limosino, perché sono idee fondate solo sull'opinione corrente, formate senza dare ascolto all'arte e alla ragione; fa un esempio simile, quello di Guittone d'Arezzo, che lui stesso inizialmente aveva dichiarato suo maestro, il quale venne per diverso tempo ritenuto il miglior poeta in circolazione, fin quando la verità non trionfò per opera di altri poeti che gli furono superiori. Terminato il suo discorso sulla scarsa attendibilità delle opinioni, Guinizzelli chiede a Dante di recitare un Padre Nostro per lui quando sarà al cospetto di Cristo, ricordandogli di omettere la formula << non indurre in tentazione >>, che è inutile per le anime del Purgatorio. 
Finito di parlare, forse per dare spazio all'anima che aveva indicato poco prima, Guinizzelli sparisce tra le fiamme. Dante avanza un po' verso l'altro e lo invita a presentarsi. La risposta del nuovo interlocutore è tutta in lingua provenzale e si può tradurre così:
"Tanto mi diletta la vostra cortese domanda,
che non mi posso né voglio a voi celare.
Io sono Arnaldo, che piango e vo cantando;
addolorato vedo la mia passata follia,
e vedo con gioia davanti a me il giorno che spero.
Ora vi prego, per quel valore
che vi guida alla sommità della scala,
di ricordarvi a tempo debito del mio dolore!".
L'anima in questione è Arnaldo Daniello, il quale si limita a presentarsi e a manifestare la speranza della purificazione futura. Daniello chiede poi a Dante di ricordarsi di lui quando sarà nel Paradiso, in pratica, come Guinizzelli, chiede qualche preghiera in suffragio. Fatto ciò, sparisce tra le fiamme.

Francesco Abate
   

Nessun commento:

Posta un commento

La discussione è crescita. Se ti va, puoi lasciare un commento al post. Grazie.