domenica 23 giugno 2019

COMMENTO AL CANTO I DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Il primo canto della terza cantica si apre con una protasi, come nella tradizione classica. Il Paradiso è il regno dove le imperfezioni umane non esistono più, non ci sono più quindi né la dannazione dell'Inferno né la redenzione del Purgatorio, e soprattutto l'elemento umano assume un valore assolutamente trascurabile rispetto a quello divino; in virtù di questa considerazione, Dante apre la cantica con una riflessione di natura filosofica. Per tutto l'universo si spandono gli effetti della causa prima, di Dio, il cui splendore si riflette di più o di meno nelle cose sensibili in conformità con la loro perfezione intrinseca. L'autore ci informa di essere riuscito a salire fino all'Empireo, nel ciel che più de la sua luce prende, laddove è Dio, ma di non sapere e di non potere raccontare ciò che ha visto; si giustifica spiegando che è un limite dell'intelletto umano il quale, giunto così vicino a ciò che più desidera, diventa tanto profondo da non permettere alla memoria di seguirlo e tornare a quelle visioni. Nonostante i limiti derivanti dalla memoria, Dante scrive che l'argomento della cantica sarà proprio ciò che ha visto nel regno santo e che è servito ad arricchirlo nella mente e nell'anima. Terminata questa introduzione, l'autore invoca Apollo, chiedendogli l'ispirazione per poter raggiungere la perfezione dei versi necessaria affinché un poeta sia incoronato di alloro (pianta sacra al dio, derivante dal sacrificio di Dafne). Fatta l'invocazione, Dante la abbellisce con altri versi. Dichiara che fino a questo momento gli è bastata una cima del Parnaso per cantare ciò che ha visto, adesso invece ha bisogno di entrambe; il significato è che per cantare dell'Inferno e del Purgatorio gli è stato sufficiente l'aiuto delle Muse, adesso è necessario che entri in azione lo stesso dio della poesia. Chiede poi al dio di ispirarlo, di entrare nel suo petto così come fece con Marsia quando lo scorticò dopo averlo battuto in una gara di musica. Gli dice infine che, qualora dovesse ricevere dal dio la capacità di narrare in versi ciò che ha visto nel Paradiso, andrà all'albero di alloro a coronarsi con le sue foglie; capita così di rado che un condottiero o un poeta diventi degno di cingersi il capo di alloro, a causa della scarsa ambizione umana, che quando qualcuno desidera farlo Apollo dovrebbe esserne lieto. In pratica Dante chiede l'aiuto del dio e prova a convincerlo spiegandogli che l'argomento della cantica è tanto importante da poterlo rendere immortale, cosa che dovrebbe fargli piacere. Termina l'invocazione dicendo che forse, dopo di lui, saranno gli stessi beati del Paradiso a pregare il dio perché l'opera interessa tutto il mondo cristiano, non solo l'autore ("Poca favilla gran fiamma seconda: / forse dietro da me con migliori voci / si pregherà perché Cirra risponda"). 
Finita la protasi, inizia l'argomento vero e proprio con una considerazione di natura astronomica. Il sole (la lucerna del mondo) sorge nel mondo da diversi punti, ma quando nel cielo i quattro cerchi formano tre croci, si congiunge con una migliore stella e emana una migliore luce, e la materia del mondo (la mondana cera) riceve dal cielo migliori influssi. Il riferimento che fa l'autore è all'equinozio di primavera, quando il sole si congiunge con la costellazione dell'Ariete e coi suoi raggi fa rinascere la natura, quindi ha effetti più benefici. Per quanto riguarda i quattro cerchi e le tre croci, Dante immagina tracciate nel cielo le linee dell'equatore, dell'eclittica e del coluro equinoziale, le quali si intersecano con quella dell'orizzonte e formano tre croci; l'osservazione non è casuale, permette infatti di richiamare i numeri quattro e tre, quindi le virtù cardinali e teologali, e serve a dirci che sono queste a formare meglio la natura umana ("Surge ai mortali per diverse foci / la lucerna del mondo; ma da quella / che quattro cerchi giugne con tre croci, / con miglior corso e con migliore stella / esce congiunta, e la mondana cera / più a suo modo tempera e sugella"). Il sole è nella posizione da cui illumina quasi interamente l'emisfero in cui si trova Dante (è ancora nel Paradiso terrestre al momento), quindi anche la montagna del Purgatorio, mentre Gerusalemme è avvolta nelle tenebre della notte. Il poeta nota Beatrice che si volta a sinistra e fissa lo sguardo verso il sole con un'intensità mai vista nemmeno nelle aquile. Così come il raggio riflesso si separa da quello principale e sale in alto, o come il falco pellegrino risale dopo aver afferrato la preda, Dante è preso dal desiderio di imitare Beatrice e volge a sua volta lo sguardo verso il sole, fissandolo ben oltre le capacità umane. Circa il verso "pur come pelegrin che tornar vole", alcuni critici lo hanno interpretato con la figura del falco pellegrino, il cui moto fu descritto da Alberto Magno nel De falconibus, altri invece con quella del pellegrino che riprende la strada di casa, ma su questa seconda interpretazione alcuni sono scettici perché non giustificherebbe la salita verso l'alto. Guardando il sole, Dante si accorge di aver recuperato le doti originali dell'uomo antecedenti al peccato originale; non riesce a guardare molto a lungo l'astro, ma a differenza di un normale occhio umano resiste abbastanza per vedere che tutto intorno sfavilla come il ferro incandescente, e ha la sensazione che il cielo si ingrandisca come se al sole Dio ne abbia aggiunto un altro ("Molto è licito là, che qui non lece / a le nostre virtù, mercé del loco / fatto per proprio de l'umana spece. / Io nol soffersi molto, né sì poco, / ch'io nol vedessi sfavillar dintorno, / com ferro che bogliente esce dal foco; / e di subito parve giorno a giorno / essere aggiunto, come quei che pote / avesse il ciel d'un altro sole adorno"). Beatrice tiene gli occhi fissi nelle sfere celesti e lui, distogliendoli dal sole, li fissa nei suoi. Nel momento in cui guarda la donna, Dante si sente trasformare come il mitologico pescatore Glauco, il quale divenne divinità marina per aver mangiato dell'erba magica. Scrive l'autore che non è possibile spiegare la trasumanazione (l'elevazione oltre i limiti della natura umana per attingere a quella divina), al lettore deve bastare l'esempio di Glauco per immaginarla e la speranza di viverla in prima persona da beato ("Trasumanar significar per verba / non si poria; però l'esempio basti / a cui esperienza grazia serba"). Se adesso lui è solo l'anima razionale, scrive l'autore all'amor che 'l ciel governi, con la sua grazia Dio lo sta elevando. Vede nello spazio il moto delle sfere celesti, moto derivante dal desiderio del principio primo, e ascoltandone l'armonia generata dal loro movimento,  gli sembra il cielo tanto acceso dalla luce del sole che la pioggia o un fiume mai hanno creato un lago tanto ampio. 
Il suono delle sfere celesti e la grande luce fanno nascere un nuovo dubbio nel cuore di Dante. Beatrice, che vede nella sua mente come fosse lui stesso, gli risponde subito senza aspettare che domandi, e gli spiega che adesso non è più sulla Terra, ma sta salendo verso la sua vera patria (l'Empireo) a una velocità superiore a quella del fulmine che lascia la sfera del fuoco (il proprio sito). 
Il poeta, sciolto un dubbio, ne sente nascere subito un altro. Stavolta non aspetta che Beatrice parli, ma le spiega di essere soddisfatto della precedente spiegazione, chiedendole poi come possa col suo corpo salire attraverso la sfera dell'aria e del fuoco (corpi lievi). Lei sospira e lo guarda con l'aria di una madre che osserva il figlio delirante, poi gli risponde. Tutte le cose create sono ordinate ed è quest'ordine che rende l'universo somigliante a Dio, in esso le creature superiori (gli uomini) vedono la causa prima e conoscono la Sua perfezione. Tutte le creature tendono a Dio, ciascuna per diverse sorti e con un differente appetito naturale; questo principio porta il fuoco a tendere verso l'alto, regola il cuore degli animali con una legge interna, fa mantenere la terra compatta, e guida anche le creature dotate di intelligenza e amore (gli uomini e gli angeli). La Provvidenza rende sempre lieto l'Empireo, il cielo dove risiede Dio e dove tutti tendono in virtù dell'istinto naturale. Anche se l'istinto porta l'uomo verso l'Empireo, egli ha il libero arbitrio e può deviare il suo cammino, come la materia che non si piega alle intenzioni dell'artista; così come il fulmine, l'essere umano può cadere verso il basso invece che tendere verso l'alto, deviato dai falsi piaceri terreni. Beatrice esorta infine Dante a non meravigliarsi della sua ascesa, deve vederla come un fenomeno naturale paragonabile al fiume che dal monte scende a valle; dovrebbe meravigliarsi se, privo ormai dell'impedimento del peccato, fosse ancora sulla Terra. 
Terminata la spiegazione, Beatrice volge di nuovo lo sguardo verso il cielo.

Francesco Abate     

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