domenica 9 giugno 2019

COMMENTO AL CANTO XXXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Tant'eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m'eran tutti spenti;
ed essi quinci e quindi avean parete
di non caler - così lo santo riso
a sé traéli l'antica rete! -;
quando per forza mi fu vòlto il viso
ver' la sinistra mia da quelle dee,
perch' io udi' da loro un << Troppo fiso! >>;
e la disposizion ch'a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.
Il canto XXXII del Purgatorio inizia con Dante che contempla Beatrice. Bramava la vista dell'amata da dieci anni (la vicenda si svolge nel 1300, la donna morì nel 1290) e in lei perde lo sguardo, finendo per ignorare tutti gli altri sensi, quindi per non percepire più nulla di tutto ciò che ha intorno. I suoi occhi non possono essere distolti dalla meravigliosa visione, è come se ai lati vi fossero due pareti di noncuranza che li tengono fissi nella loro posizione; raccontando del magnetismo di Beatrice, l'autore constata come il vecchio amore e la santa risata abbiano catturato il suo sguardo come una rete. Lo sguardo dell'uomo però è troppo imperfetto per poter cogliere appieno la magnificenza della natura divina, la metafisica umana non può comprendere appieno la teologia, perciò le tre fanciulle (le virtù teologali) esclamano che guarda troppo fissamente la donna e distolgono il suo sguardo girandogli il volto. Dante si accorge di essere stato così tanto abbagliato da aver perso temporaneamente la vista, così come accade quando si fissa lo sguardo sul sole. In questi dodici versi si sviluppano all'unisono il contenuto religioso e la poesia d'amore; i primi sono una romantica descrizione dell'uomo innamorato che torna a guardare dopo tanti anni la donna amata che aveva perduto, ma l'andamento successivo serve a spiegare l'inadeguatezza della metafisica umana per l'acquisizione di una piena conoscenza del divino.
Spostato lo sguardo su una fonte di luce meno brillante, cioè il corteo, vede la processione voltarsi e incamminarsi verso oriente. Il corteo è chiamato dall'autore glorioso essercito, questo a sottolineare la lotta della Chiesa per la diffusione della verità cristiana. Il cambio di direzione del corteo è ordinato, ricorda all'autore il ripiegamento degli eserciti in difficoltà, quando, riparati dagli scudi, i soldati invertono il senso di marcia e fanno passare prima la fila che reca il vessillo, poi tutti gli altri; i ventiquattro signori cambiano direzione prima che lo faccia il carro, così da trovarsi davanti anche dopo l'inversione. Le fanciulle tornano vicino alle rispettive ruote e il Grifone tira il carro senza muovere minimamente le ali, mostrando così la tranquillità che è propria di chi è forte ("Indi a le rote si tornar le donne, / e 'l Grifon mosse il benedetto carco / sì, che però nulla penna crollonne"). Matelda ("La bella donna che mi trasse al varco"), Dante e Stazio seguono la ruota che descrive l'arco più piccolo, quindi la ruota destra. La nuova processione che attraversa il Paradiso terrestre, vuoto a causa del peccato di Eva, è accompagnata da una musica angelica ("Sì passeggiando l'alta selva vòta, / colpa di quella ch'al serpente crese, / temprava i passi un'angelica nota"). Dopo aver percorso lo spazio che potrebbe percorrere una freccia scoccata tre volte, Beatrice scende dal carro. Dante sente che tutti mormorano << Adamo >>, probabilmente sottintendendo un rimprovero a colui che abitava il Paradiso terrestre e ne fu cacciato, poi circondano un albero privo di foglie e di fronde su ogni ramo, una pianta la cui chioma spoglia tanto più si dilata quanto più si eleva verso l'alto, ed è tanto grande che susciterebbe meraviglia anche nei boschi dell'India. Arrivato alla pianta, dal corteo si alza una lode al Grifone, che col becco non incide il legno della pianta, poiché ha gusto dolce ma causa dolori al ventre. L'albero rappresenta l'albero della conoscenza del bene e del male, quello da cui Eva mangiò il frutto, e il corteo allude al fatto che Gesù mai offese la giustizia divina. Il Grifone risponde affermando che solo così si rispetta il principio di ogni giustizia. A questo punto il Grifone avvicina il carro e ne lega il timone a una frasca dell'albero ("E vòlto al tempo ch'elli avea tirato, / trasselo al piè de la vedova frasca, / e quel di lei a lei lasciò legato"). Come quando il sole primaverile piove dal cielo, quando il sole attraversa la costellazione dell'Ariete , e le piante si coprono di foglie e si gonfiano le gemme prima che il sole passi nella costellazione del Toro, così l'albero si riempie di fiori colorati tra il rosa e il violetto ("Come le nostre piante, quando casca / giù la gran luce mischiata con quella / che raggia dietro a la celeste lasca, / turgide fansi, e poi si rinovella / di suo color ciascuna, pria che 'l sole / giunga li suoi corsier sotto altra stella; / men che di rose e più che di viole / colore aprendo, s'innovò la pianta, / che prima avea le ramora sì sole"). 
Nonostante sia interessato a quel prodigio, Dante si addormenta. Dapprima sente cantare un inno dal contenuto tanto sovrannaturale da risultargli incomprensibile, poi l'autore ammette di non riuscire a spiegare come abbia potuto il sonno sorprenderlo, così come non può spiegare come Mercurio fosse riuscito ad addormentare Argo raccontandogli gli amori di Pan e Siringa. Non potendolo spiegare (si paragona a un pittore che non può dipingerlo), passa direttamente a descrivere ciò che ha visto al suo risveglio ("S'io potessi ritrar come assonnaro / li occhi spietati udendo di Siringa, / li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; / come pintor che con essempro pinga, / disegnerei com'io m'addormentai; / ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga"). 
A svegliare il poeta è la voce di Matelda, il cui splendore riesce a riportarlo in sé così come il ritorno all'aspetto normale di Gesù riportò in sé gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo dopo la trasfigurazione. I tre apostoli caddero in un'estasi più profonda di quella del poeta quando videro i primi segni della divinità di Cristo, chiamati da Dante "fioretti del melo", quella divinità di cui gli angeli sono ghiotti e si soddisfano continuamente nel Paradiso, e tornarono in sé solo quando Gesù ritornò nelle sue spoglie normali, senza più avere accanto Mosè e il profeta Elia. Confuso, Dante le chiede dove sia Beatrice, e lei gli dice che sta sotto la fronda dell'albero rifiorito. Matelda gli mostra che è circondata dalle fanciulle, mentre i signori vanno via dietro al Grifone, cantando un inno più dolce e più profondo di quelli precedenti. Attratto dalla vista di Beatrice, Dante smette di ascoltare e l'autore non sa dirci se Matelda ha detto altro oppure no. Beatrice siede sola sulla terra vera del Paradiso terrestre, lasciata a guardia del carro legato lì dal Grifone. In cerchio la circondano le sette fanciulle, le quali portano i candelabri che non possono essere spenti dai venti (Aquilone e Austro); essi rappresentano i doni divini, sono perciò sicuri e non possono mai venir meno. Beatrice si rivolge al poeta, gli dice che resterà ancora per poco nel Paradiso terrestre, poi ascenderà al Paradiso (quella Roma onde Cristo è romano), adesso però deve guardare attentamente il carro e dovrà poi scrivere tutto ciò che vedrà, a vantaggio di quelli che vivono nel peccato. La donna così esplica quella che è la missione di Dante, cioè mostrare al mondo quelle verità divine che sono l'unica salvezza dalla dannazione ("<< Qui sarai tu poco tempo silvano; / e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano. / Però, in pro del mondo che mal vive, / al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive >>"). Lui, che a lei e ai suoi comando è devoto, volge i suoi occhi e la sua attenzione al carro.
Con un'incredibile rapidità, che non ha mai visto nemmeno nel fulmine (foco di spessa nube), un'aquila scende e attacca l'albero, rompendo i fiori e il legno, poi si abbatte sul carro, facendolo vacillare come una nave tra le onde. Subito dopo arriva una volpe ad attaccare il fondo del carro; è un animale magrissimo, sazio di ogni cibo, che viene messo subito in fuga da Beatrice. Poi l'aquila scende nuovamente sul carro, stavolta però in atteggiamento protettivo, e vi lascia sopra alcune delle sue penne, mentre una voce dal cielo constata rammaricata che il carro è carico di cattiva merce ("O navicella mia, com mal se' carca!"). La terra si apre tra le ruote e ne esce un drago che conficca la coda nel carro, poi la ritrae come fa la vespa col pungiglione, portando via con sé il fondo. Quello che del carro è rimasto, cioè le ruote e il timone, si copre delle penne lasciate dall'aquila in un tempo inferiore a quello che si impiega per sospirare. Così trasformato, il carro genera delle teste: tre sul timone e una in ciascun angolo. Le teste sul timone hanno due corna come i buoi, invece le altre quattro presentano un solo corno; Dante non ha mai visto un mostro del genere. Fiera e orgogliosa, come una rocca sulla cima di un alto monte, sul carro siede una prostituta sfacciata (sciolta), che volge tutt'intorno il suo sguardo lascivo; accanto a lei c'è un gigante, e si baciano diverse volte. Poiché la prostituta volge lo sguardo lussurioso a Dante, il gigante la frusta su tutto il corpo e poi, carico d'ira, scioglie il mostro dall'albero e lo guida per la selva, tanto che solo la stessa nega al poeta la vista del mostro e della prostituta.

Il canto XXXII è molto ricco di simboli che ho scelto di analizzare al termine della spiegazione, onde evitare di appesantire troppo il commento.
L'albero a cui giunge il corteo è l'albero della conoscenza del bene e del male, quello di cui Eva mangiò il frutto e che portò alla sua cacciata con Adamo dal Paradiso terrestre. I frutti dell'albero hanno il potere di mostrare la giustizia divina, è però qualcosa che non può essere compresa senza danno dall'essere umano, per questo ha sapore dolce ma causa dolori al ventre. Gesù Cristo mai lese in alcun modo la giustizia divina, quindi mai il becco del Grifone ha inciso il legno dell'albero. Quando il corteo giunge alla pianta, questa è spoglia, salvo poi rinverdirsi di colpo quando il Grifone lega a essa il carro. Secondo la tradizione e la simbologia, l'albero perse i fiori e le foglie quando Adamo ed Eva commisero il peccato originale, le riacquistò poi grazie all'opera di Gesù Cristo, infine le perse nuovamente con la Donazione di Costantino, che ebbe la colpa di mischiare potere temporale e spirituale, attentando così alla giustizia divina. Dante ci descrive come il Grifone leghi il timone del carro all'albero: alcuni critici hanno visto un riferimento alla leggenda che vuole la croce di Cristo fatta dello stesso legno dell'albero biblico; per altri questo atto, unito alla seguente rifioritura, rappresenta l'uomo che, liberato dalla schiavitù del peccato attraverso l'azione della Chiesa di Cristo, recupera i diritti che aveva perduto a causa del peccato originale.
Vediamo poi andar via il corteo, con Beatrice che rimane a guardia del carro. Gesù Cristo va via e solo la verità rivelata resta a proteggere la Chiesa e il suo popolo.
La parte finale del canto racconta una serie di eventi attraverso cui il poeta ci narra la storia della Chiesa e della sua rovina spirituale. Prima di tutto Beatrice dice a Dante di vedere e scrivere tutto, quindi il poeta e la sua opera diventano parte attiva della rivelazione; la Commedia è un mezzo attraverso il quale la gente può ritrovare la via della salvezza. 
Si vede un'aquila scendere dal cielo e attaccare prima l'albero, poi il carro; essa rappresenta l'Impero romano che perseguitò i cristiani. Arriva poi una volpe, magra e digiuna d'ogne pasto buon, la quale rappresenta le eresie, che sono digiune della verità divina e sono messe in fuga dalla verità rivelata (Beatrice). L'aquila poi torna e lascia sul carro una parte delle sue penne; si tratta di un riferimento alla Donazione di Costantino, un documento fasullo (ma ritenuto originale all'epoca di Dante) attraverso cui l'imperatore Costantino faceva dono alla Chiesa dei beni e dei poteri dell'Impero romano d'occidente. L'atto è secondo Dante fatto a fin di bene, l'aquila scende infatti con fare protettivo, eppure successivamente vediamo queste penne ricoprire tutto il carro così come la gramigna infesta i terreni, quindi secondo lui segna l'inizio della corruzione della Chiesa; tanto è moralmente drammatico l'atto della Donazione, che il poeta narra di una voce che dal cielo definisce mal carca la navicella che è il carro, riprendendo una leggenda che circolava all'epoca, secondo cui al momento della Donazione si sentì la voce del Demonio dichiarare di aver avvelenato la Chiesa. La simbologia legata al drago è abbastanza scontata, con la creatura che rappresenta il Diavolo che inietta il veleno nella Chiesa, dando inizio alla corruzione che avviene grazie ai beni temporali e al potere lasciati da Costantino. Dopo l'attacco del drago, sorgono sette teste, le quali complessivamente hanno dieci corni: vediamo la degenerazione della Chiesa, la quale da sposa di Cristo si trasforma in un mostro; il numero di teste è quello dei corni sono una parodia dei sette sacramenti e dei dieci comandamenti, i quali degenerano nei sette peccati capitali. La Chiesa trasformata in una mostruosità si trova guidata da una puttana, la quale rappresenta i pontificati di Bonifacio VIII e Clemente V, che è affiancata da un gigante, che rappresenta Filippo il Bello o il regno di Francia. La puttana e il gigante si baciano, a rappresentare la collaborazione di alcuni sovrani francesi coi papi più corrotti di sempre. Quando poi lei volge lo sguardo a Dante, quindi si volge verso il popolo cristiano o, secondo altre interpretazioni, si guarda intorno in cerca di altri appoggi politici, il gigante la fustiga, chiaro riferimento all'attentato di Anagni del 7 settembre 1303 contro Bonifacio VIII organizzato da Filippo il Bello, poi scioglie il mostro e fugge nella selva, rappresentando lo spostamento del papato ad Avignone.
Il canto, che era iniziato con versi d'amore nei confronti di Beatrice, nello sviluppo e nella conclusione si rivela di natura teologica. Dapprima Dante ci racconta degli effetti del peccato originale e del ritorno alla purezza attraverso Gesù Cristo, poi con un mirabile testo allegorico ci racconta la storia della Chiesa dalla nascita fino alla cattività avignonese.

Francesco Abate     

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