giovedì 14 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XIX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Parea dinanzi a me con l'ali aperte
la bella image, che nel dolce frui
liete facevan l'anime conserte.
Parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne' miei occhi rifrangesse lui.
Il canto XIX inizia con l'autore che ci descrive cosa vede nel cielo di Giove e che impressione desta in lui. Gli appare l'immagine dell'aquila dalle ali aperte, formata dalle anime riunite insieme (conserte) nella lietezza della visione di Dio (nel dolce frui); ciascuna anima sembra al poeta un piccolo rubino (rubinetto) che viene colpito da un raggio di sole e lo riflette ai suoi occhi (chiara metafora della loro luce che riflette la grazia di Dio). 
A questo punto l'autore precisa che ciò che sta per raccontarci non è stato mai detto, né scritto, né compreso con l'intelletto; l'aquila parla (Dante sente infatti parlare il rostro, quindi il becco) dì sé in prima persona usando i pronomi "io" e "mio", ma intende in realtà la collettività delle anime che formano il suo disegno ("E quel che mi convien ritrar testeso, / non portò voce mai, né scrisse inchiostro, / né fu per fantasia già mai compreso; / ch'io vidi e anche udi' parlar lo rostro, / e sonar ne la voce e <<io>> e <<mio>>, / quand'era nel concetto <<noi>> e <<nostro>>"). Questa introduzione fatta dall'autore al discorso dell'aquila non ha solo lo scopo di favorire l'immaginazione del lettore, permette anche di mantenere l'attributo personale delle anime nonostante esse si esprimano collettivamente, riuscendo perciò a far coesistere la personalità dei singoli con l'universalità della giustizia divina a cui egli ora si rivolge.
L'aquila parla, spiega che si trova esaltata lì nel cielo di Giove, in quella gloria che non viene vinta dai desideri terreni, per essere stata in vita giusta e misericordiosa (ricordiamo che nelle Epistole e nel De Monarchia Dante illustrò l'idea dell'Impero, di cui l'aquila è simbolo, come fonte della pietà); tanto grandi furono le sue azioni, dichiara, che ancora oggi è ricordata anche dalle persone malvagie, le quali però la lodano (commendan lei) senza seguirne l'esempio. Il poeta nota come da tutte le anime esca una sola voce, così come da tante braci viene emesso un unico calore.
Sentite le parole dei beati, Dante parla loro, definendoli fiori che non avvizziscono mai perché irrorati dall'eterna grazia di Dio (l'eterna letizia) e che fondono i loro odori in un'unica perfetta fragranza. Il poeta gli manifesta un suo dubbio che sulla Terra non è mai riuscito a risolvere; lui sa bene, spiega, che la giustizia divina si specchia nel cielo in un'altra gerarchia che loro sono in grado di vedere chiaramente (che 'l vostro non l'apprende con velame), sanno poi bene quanto lui sia pronto e attento ad ascoltare le loro parole e li invita a parlare, non facendogli alcuna domanda perché loro sanno bene qual è il dubbio che lo tormenta.
Sentite le parole del poeta, l'aquila, che è formata dai beati che cantano lodi che solo in Paradiso si possono sentire, si anima, facendo come il falcone quando è liberato dal cappuccio di pelle, che sbatte le ali e si fa bello. L'aquila spiega al poeta che Dio, il quale tracciò i confini dell'universo e in esso pose le cose visibili e invisibili, non poteva fare ciò senza che il suo Verbo non restasse in eccesso, perché altrimenti l'universo sarebbe stato infinito; a mostrare la distanza tra la perfezione di Dio e l'imperfezione del creato c'è la vicenda di Lucifero ('l primo superbo), la più perfetta delle creature, che fu gettato via dal Paradiso per colpa della propria voglia di conoscere più di quanto poteva il suo intelletto senza aspettare il lume divino (per non aspettar lume); essendo la natura angelica incapace di vedere nella perfezione di Dio (quel bene che non ha fine e sé con sé misura), lo è di più quella umana, e la vista dell'uomo non può essere così forte da vedere Dio, visto che è solo uno dei raggi della Sapienza; l'uomo può vedere nella giustizia divina come l'occhio dentro il mare, che dalla riva vede bene il fondo, mentre dove l'acqua è alta non lo vede, benché il fondo ci sia comunque; l'unica luce che può portare alla vera conoscenza è quella che deriva da colui che mai si turba (Dio), le altri sono ombra o veleno. Fatta questa lunga premessa circa la necessità della Sapienza di Dio per la comprensione delle verità dell'anima, l'aquila passa ad affrontare direttamente il dubbio di Dante: adesso è stato aperto il nascondiglio (latebra) che celava al poeta la giustizia divina, spingendolo a chiedersi se sia giusto condannare un uomo nato sulle rive dell'Indo, dove nessuno parla del Vangelo e del Cristianesimo, che vive una vita retta nelle parole e nelle azioni, solo perché mai battezzato e non credente; l'aquila gli chiede come possa lui, che non vede a una spanna, giudicare ciò che succede a mille miglia di distanza; ci sarebbe ragione di dubitare, conclude, se non ci fossero le Sacre Scritture a guidare l'intelletto umano; Dio (la prima volontà) è il sommo bene e non si è mai mosso da sé stesso, in Lui volere il bene si traduce in causare il bene. In parole povere, gli spiriti del cielo di Giove spiegano che l'uomo non può comprendere la giustizia divina e deve astenersi dal giudicarla, deve solo ricordare che Dio è il bene e tutto ciò che da Lui è determinato è giusto.
Finito di parlare, l'aquila inizia a volare sopra il nido come la cicogna che ha sfamato i cuccioli e così Dante, come i cuccioli sfamati dalla madre, la guarda muoversi con le ali sospinte dai tanti voleri dei beati fusi in uno solo ("Quale sovresso il nido si rigira, / poi c'ha pasciuti la cicogna i figli, / e come quel ch'è pasto la rimira; / cotal si fece, e sì levai i cigli, / la benedetta imagine, che l'ali / movea sospinte da tanti consigli"). Volando in circolo, canta che come il suo canto è incomprensibile per il poeta, così lo è la giustizia divina per i mortali. Poi l'aquila, quel simbolo che rende i Romani ancora degni di rispetto nel mondo ed è formato dai beati (quei lucenti incendi dello Spirito Santo), si ferma e ricomincia a parlare. Spiega che nessuno è salito in Paradiso senza aver creduto in Gesù Cristo, né prima né dopo la crocifissione, poi lancia un monito: quando verrà il Giorno del Giudizio, molti di quelli che invocano Cristo saranno più lontani a Dio di quelli che non lo conoscono; questi Cristiani ipocriti saranno condannati dall'Etiope quando saranno formate le due schiere, una di quelli che saranno eternamente ricchi (i beati) e l'altra di quelli che saranno eternamente poveri (i dannati). A questo punto l'aquila diventa più specifica e si rivolge direttamente ai re cristiani: si chiede cosa diranno i Persiani quando sarà aperto il libro in cui saranno riportate tutte le cattive azioni dei re cristiani (insinua che perfino i pagani resteranno inorriditi dai peccati dei re cristiani); si vedrà che l'imperatore Alberto d'Asburgo ha occupato il regno di Praga per toglierlo a suo fratello; si vedrà il dolore che porta in Francia Filippo il Bello, che produce monete false per pagare l'esercito invasore delle Fiandre, il quale morirà colpito da un cinghiale (una morte senza onore); si vedrà la superbia che spinge Edoardo II d'Inghilterra e Roberto Bruce di Scozia a farsi guerra per allargare i propri domini; si vedrà la vita lussuriosa e pigra di Ferdinando IV, re di Castiglia, e di Venceslao IV, re di Boemia, che mai conobbero valore; lo zoppo (Ciotto) di Gerusalemme, cioè Carlo II d'Angiò, vedrà nel libro segnate con una I le buone azioni e con una M quelle cattive, cioè saranno in rapporto di una a mille; si vedrà la viltà e l'avarizia di Federico II d'Aragona, che regge la Sicilia (l'isola del foco), dove morì il vecchio Anchise, e le sue malefatte saranno annotate con lettere abbreviate perché saranno troppe; saranno evidenziate le ignobili azioni dello zio e del fratello di Federico II (Giacomo re di Maiorca e Giacomo II re di Sicilia e d'Aragona), che hanno insozzato due grandi nazioni e due grandi dinastie; si conosceranno le malefatte di Dionisio l'Agricola, re del Portogallo, e di Acone VII, re di Norvegia, e quelle di Stefano Urosio II, re della Serbia orientale, che fu falsificatore di monete; beate sarebbero l'Ungheria e la Navarra, se la prima non si facesse malgovernare da Andrea III e la seconda usasse i Pirenei per non farsi annettere alla Francia; come anticipo di questo che ha detto, ognuno deve sapere che già l'isola di Cipro si lamenta per la tirannia della bestia che la governa, Arrigo II di Lusignano, che in quanto a turpitudine non si differenzia dai sovrani sopra citati.

Francesco Abate   

4 commenti:

  1. L'eterna Letizia, mi spiegò così la mia prof. di Lettere, era una reinterpretazione dantesca in chiave più ampia della Perfetta Letizia francescana.
    Io ricordo invece un mio compagno di classe che alla parola rubinetto chiese "ma si apre e si chiude?". Si stupì di aver preso 2.
    Baci!

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    1. Ti confesso che sul termine "rubinetto" sono stato fortemente tentato di fare lo spiritoso ma poi, volendo mantenere il tono serio del post, ho preferito desistere.
      Ciao.

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    2. E chissà, magari Dante avrebbe riso!
      Sai che l'immagine dell'aquila la vidi per la prima volta sull'edizione per ragazzi Dami del libro? Allora avevo circa dieci anni (più avanti lessi la Commedia in versi)e da allora mi è rimasta impressa.
      Ti abbraccio.

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    3. Francamente Dante non mi sembra un tipo dotato di gran senso dell'umorismo, credo sia più probabile che con la mia spiritosaggine mi sarei guadagnato un posto all'Inferno nella sua Commedia. Avrebbe avuto solo l'imbarazzo della scelta nello scegliere il girone a cui destinarmi, non sono proprio un angelo. :-D
      Buona serata.

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