giovedì 7 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XVIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Già si godea solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l'acerbo;
e quella donna ch'a Dio mi menava,
disse: <<Muta pensier: pensa ch'i' sono
presso a colui ch'ogni torto disgrava>>.
Il canto XVIII comincia con l'immagine di Cacciaguida che si compiace del suo pensiero (verbo); ovviamente in questo compiacimento non c'è superbia perché egli non è soddisfatto di sé, bensì della luce divina in cui ha avuto visione del futuro di Dante, di cui egli è specchio (quello specchio beato). Il poeta intanto ripensa alla profezia dell'avo, mitigando l'amarezza per il futuro esilio col pensiero della gloria futura (temprando col dolce l'acerbo). Beatrice lo tranquillizza ricordandogli che lei si trova presso Dio, colui che ripara ogni ingiustizia; colei che lo ha tratto fuori dalla selva oscura, gli assicura che non gli negherà in futuro il suo sguardo benevolo e la sua intercessione presso Dio. Sentite le parole di conforto della donna, il poeta si gira verso di lei e nei suoi occhi vede splendere un amore di cui non può lasciarci alcuna descrizione; non sono l'incapacità di esprimersi o la mancanza di memoria a far desistere Dante dal descriverci ciò che vede, ma la consapevolezza che la mente umana non può richiamare a sé tale ricordo senza il sostegno della grazia di Dio. La visione di quello splendore toglie ogni desiderio e ogni turbamento dall'animo del poeta, perché sono i raggi che Dio indirizza sul viso di Beatrice e che da lì si riflettono verso di lui. La donna lo illumina con un nuovo sorriso e gli dice di prestare attenzione a Cacciaguida, perché non è solo nella contemplazione dei suoi occhi il Paradiso ("Vincendo me col lume d'un sorriso, / ella mi disse: <<Volgiti ed ascolta; / ché non pur ne' miei occi è paradiso>>").
Dante si volta verso Cacciaguida e nella sua luce vede che ha voglia di dirgli ancora qualcosa, così come guardando negli occhi una persona è possibile vederne il sentimento quando tutta l'anima ne è partecipe. L'avo paragona il Paradiso a un albero che viene nutrito dalla cima (cioè dalla grazia di Dio), fruttifica sempre e non perde mai nessuna foglia (accoglie sempre nuovi beati e non ne perde mai nessuno, essendo la beatitudine eterna); spiega che nel quinto cielo del Paradiso ci sono beati che in vita furono così importanti da poter essere con le loro gesta un ottimo argomento per la poesia; lo invita poi a guardare i bracci della croce, perché lui indicherà i nomi di alcune anime e queste, per farsi vedere, sfolgoreranno così come fa il baleno attraverso le nubi. Detto ciò, Cacciaguida elenca una serie di nomi: Giosuè, personaggio biblico che condusse il popolo ebraico nella Terra Promessa dopo la morte di Mosè; Giuda Maccabeo (l'alto Maccabeo), che liberò il popolo ebraico dalle imposizioni del re di Siria; Carlo Magno, qui collocato perché difese il papato dai Longobardi; Orlando, paladino di Carlo Magno, morto combattendo i Mori; Guglielmo d'Orange e il suo suddito Rainouart (Rinoardo), le cui statue furono erette ai lati del duomo di Verona; Goffredo di Buglione, che partecipò alla prima crociata e fu proclamato re della città santa; Roberto il Guiscardo, che promosse la riconquista della Sicilia occupata dai Mussulmani. Mostrati al discendente questi beati, Cacciaguida torna a ricongiungersi con le altre anime nella croce, e intona un canto così dolce che dà un'altra prova di quanto sia grande la sua arte di cantore delle cose divine ("Indi, tra l'altre luci mota e mista, / mostrommi l'alma che m'avea parlato / qual era tra i cantor del cielo artista").
Dante si gira verso destra per guardare Beatrice e sapere da lei, attraverso parole o gesti, cosa deve fare; vede la luce degli occhi della sua guida così splendenti da superare anche la loro ultima manifestazione (cioè quella che ci ha descritto nei primi versi del canto). Vedendo aumentare lo splendore della donna, Dante capisce di essere salito al cielo superiore, quello che descrive un arco più ampio rispetto al cielo di Marte; in Beatrice cresce la bellezza così come nell'animo dell'uomo disposto al bene cresce la virtù giorno dopo giorno (attraverso questa similitudine, l'autore ci mostra i valori della vita morale e quelli della perfezione del creato). Agli occhi del poeta si materializza un cambio di colore repentino: come il viso di una donna perde rapidamente il rossore e torna al candore naturale quando questa smette di vergognarsi, così lui vede svanire di colpo il colore rosso di Marte per far posto al bianco di Giove. L'autore definisce Giove "la temprata stella", questo perché Tolomeo riteneva il pianeta gigante una stella temperata, essendo posta tra il caldo Marte e il freddo Saturno. 
Dante vede i beati del cielo di Giove (lo sfavillar de l'amor che lì era) comporre con la loro luce delle lettere dell'alfabeto (nostra favella). Così come le gru si alzano in volo liete dopo essersi dissetate alla riva di un fiume, formando cerchi o una lunga fila, così i beati si dispongono mentre cantano a formare delle lettere: D, I ed L ("E come augelli surti di rivera / quasi congratulando a lor pasture, / fanno di sé or tonda or lunga schiera, / sì dentro ai lumi sante creature / volitando cantavano, e faciensi / or D, or I, or L in sue figure"). Le anime si muovono cantando e seguendo il ritmo del canto poi, formata la lettera, tacciono per un po' di tempo e gli danno la possibilità di leggerla. A questo punto l'autore invoca la diva Pegasea, che rende gloriosi e immortali gli ingegni dei poeti, così che essi riescano a rendere immortali le città e i regni, e le chiede di dargli la capacità di ricordare le lettere così come le vide, poi la incita a far risplendere nei versi seguenti la sua divina potenza. Secondo la maggior parte dei critici, la diva Pegasea non indica una Musa in particolare, ma è un'invocazione generica; secondo il mito, da un calcio del cavallo alato Pegaso scaturì in Elicona la fonte Ippocrene, detta appunto Pegasea, che era simbolo dell'ispirazione poetica.
Agli occhi di Dante si mostrano trentacinque lettere tra vocali e consonanti, e lui nei versi le annota nell'ordine in cui sono espresse. Prima compare la scritta "DILIGITE IUSTITIAM" ("amate la giustizia"), poi "QUI IUDICATIS TERRAM" ("voi che siete giudici sulla terra"); la scritta rappresenta il primo verso del libro della Sapienza, testo biblico attribuito a re Salomone. Le anime restano ferme sull'ultima lettera M, così da far sembrare l'argenteo Giove fregiato d'oro in quel punto. Vede poi altre anime fermarsi alla sommità della M, cantando quello che crede essere una lode al Dio che verso di sé le muove ("E vidi scendere altre luci dove / era il colmo de l'emme, e lì quetarsi / cantando, credo, il ben ch'a sé le move"). A un certo punto, Dante vede le anime salire ognuna a un'altezza diversa, determinata dal proprio grado di beatitudine; questa immagine gli ricorda le faville che si liberano dai tizzoni ardenti quando vengono percossi, sul cui numero e sul cui movimento gli stolti traggono i loro auspici. Ciascun'anima si ferma al suo posto, si forma il disegno della testa e del collo di un'aquila ("Poi, come nel percuoter de' ciocchi arsi / surgono innumerabili faville, / onde li stolti sogliono augurarsi, / resurger parver quindi più di mille / luci, e salir, qual assai e qual poco / sì come 'l sol che l'accende sortille; / e quietata ciascuna in suo loco, / la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi / rappresentare a quel distinto foco"). Colui che dirige la formazione del disegno, cioè Dio, non ha bisogno di prendere spunto dalla natura, bensì è Lui a imprimere alla natura la forma delle cose. Le anime rimaste a formare la M, che con le altre ferme alla sommità formano il disegno del giglio araldico (infatti l'autore parla d'ingigliarsi a l'emme), con piccoli movimenti vanno a completare il disegno dell'aquila. 
A questo punto l'autore si lancia in una lunga invettiva. Inizialmente glorifica Giove, la dolce stella, ricordando quale grande numero di anime (gemme) dimostrano che la giustizia sulla Terra discende proprio dal sesto cielo. Si rivolge poi a Dio, colui da cui nascono i moti e le virtù del cielo di Giove, pregandolo di guardare il luogo dove la cupidigia oscura il lume della giustizia, così che possa adirarsi di nuovo della presenza dei mercanti nel Tempio costruito con i miracoli e i martìri. Invita poi i beati del cielo di Giove, il cielo della giustizia, a pregare per coloro che sulla Terra sono sviati dal cattivo esempio dei papi. Prima si faceva la guerra con le spade, adesso invece i papi la fanno negando a loro piacimento il pane dell'Eucarestia, quel pane che Dio non nega a nessuno (si tratta di un chiaro riferimento all'abuso della scomunica). A questo punto il poeta si rivolge direttamente a un pontefice, colui che scrive solo per cancellare (allude all'annullamento dei benefici ecclesiastici, deciso per arricchire la Curia coi loro proventi), ricordandogli che Pietro e Paolo, che per la chiesa morirono, sono ancora vivi; immagina poi la risposta evasiva del papa, che si dichiara devoto di san Giovanni Battista (che visse solo nel deserto e morì a causa della danza di Salomè, la quale chiese la sua testa al padre come ricompensa) e dichiara di non conoscere il pescatore Pietro e nemmeno Paolo (Polo). Riguardo al papa a cui si riferisce Dante, la critica ritiene si tratti di Giovanni XXII; per quanto riguarda la frase di discolpa che il poeta gli attribuisce, probabilmente la dichiarata fedeltà a san Giovanni è un riferimento all'attaccamento del pontefice ai fiorini, il denaro fiorentino su cui c'era l'effige del santo, che fa rinnegare al capo della chiesa il culto di san Pietro (primo papa) e san Paolo.

Francesco Abate

6 commenti:

  1. Molte delle critiche dantesche all'ecclesia sono tuttora valide, se ci pensiamo bene.
    Adesso "scalziamo" via Cacciaguida e dirigiamoci verso parti della cantica più vivaci.
    Ti abbraccio.

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    1. Esatto. Uno dei motivi che mi portano a giudicarlo un poeta moderno è la sua inquietudine nei confronti di una Chiesa corrotta e poco attenta alla propria funzione spirituale; ci è arrivato con 700 anni di anticipo rispetto a molti altri, oltretutto insegna come anche chi crede non debba mai perdere il proprio spirito critico.
      Buona serata.

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    2. Penso che tu abbia ragione (scusa se mi intrometto nel discorso) quando dici che Dante era in anticipo su tantissime cose.
      Infatti le sue invettive contro la chiesa corrotta sono ancora attuali.
      Anche oggi Madre Chiesa vive nella corruzione (e secondo i dettami di Cristo, alcuni suoi rappresentanti commettono peccati ben più gravi) e mi dispiace dirlo perché ci sono invece tanti bravi frati missionari, sacerdoti e suore che credono veramente in quello che fanno e si adoperano per aiutare concretamente le persone anche a costo della loro vita.
      Ciao e buona serata.

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    3. Tranquilla, Morgana, i miei post non hanno senso se non suscitano una riflessione e un dibattito, quindi tutte le "intromissioni" mi fanno molto piacere.
      La corruzione in ogni sua forma getta un'ombra che oscura tutto ciò che c'è di buono. Nella storia ci sono stati (e ci sono tutt'ora) tanti uomini di chiesa che credono in quel che fanno e ci mettono il cuore, ma vengono insudiciati dal clero corrotto (che in genere è quello delle alte sfere). Non è diverso il discorso per la politica (su cui Dante nella Commedia spesso si esprime duramente), che noi italiani guardiamo con disgusto e sfiducia, eppure nella storia abbiamo avuto tanti grandi personaggi politici.
      Buona serata.

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  2. Le invettive dantesche sono indimenticabili.
    Pensa te il genio di quest'uomo che in una sola opera ha fatto una foto della sua epoca, l'ha poi "generalizzata" nel senso che ha tirato fuori massime e situazioni che anche oggi possono essere rintracciabili, ha fatto uno studio della lingua italiana e anche una dichiarazione d'amore a Beatrice.
    Genio.
    Ciao!

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    1. Io credo che proprio per la genialità di Dante è fondamentale leggere la Divina Commedia.
      Oggi siamo abituati a parlare di ogni cosa, a farci continuamente opinioni, ma senza mai ragionare su niente; Dante invece su ogni parola e ogni giudizio ha riflettuto per anni, riuscendo nei versi a fotografare un periodo storico e più pensieri filosofici, arrivando perfino a smentire quelle che negli anni precedenti erano state le sue stesse convinzioni. Profondità e autocritica, due cose che oggi mancano tantissimo.
      Ciao.

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