giovedì 21 novembre 2019

COMMENTO AL CANTO XX DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Quando colui che tutto 'l mondo alluma
de l'emisperio nostro sì discende,
che 'l giorno d'ogne parte si consuma,
lo ciel che sol di lui prima s'accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una resplende.
Il canto comincia con l'aquila che smette di parlare come unico essere e le anime, aumentando la loro luce, iniziano a intonare canti così al di sopra dell'intelletto umano da essere impossibili da ricordare (labili e caduci). Questa scena richiama alla mente del poeta il tramonto, quando la luce del sole (colui che tutto 'l mondo alluma) smette di illuminare il cielo e questi si riempie di luccicanti stelle; anche in questo caso si quietano la voce potente e la luce sfavillante dell'aquila per lasciar posto alle tante voci e alle luci dei beati. L'autore si lascia andare a un'esclamazione: quanto appare ardente l'amore di Dio in quelle luci che sono ispirate solo da pensieri santi; in questa terzina (vv. 13-15) c'è la parola flailli, che dai critici è stata interpretata in due modi differenti: per alcuni deriva dal latino flare o dal francese antico flavel e significa "flauti", quindi fa riferimento alle voci con cui i beati cantano; altri invece la intendono come favilli, cioè "vive luci". Stando alle due interpretazioni, l'autore si riferisce nella sue lode ai beati o come a "quelle voci" o come a "quelle luci"; io, dovendo sceglierne una, ho scelto la seconda interpretazione, perché mi sembra più giustificata dall'intero verso 14 ("quanto parevi ardente in que' flailli"), visto che "ardente" in genere è riferito al fuoco che emana luce oltre che calore.
I beati, che Dante vede come gemme incastonate le cielo di Giove, pongono fine al loro canto e iniziano un mormorio simile al rumore di un fiume che scende da una montagna rocciosa, mostrando nell'abbondanza delle acque la ricchezza della sorgente ("Poscia che i cari e lucidi lapilli, / ond' io vidi ingemmato il sesto lume, / poser silenzio a li angelici squilli, / udir mi parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra, / mostrando l'ubertà del suo cacume"). Il suono sale dal collo dell'aquila, facendolo sembrare vuoto (bugio), così come la musica si forma nel collo della cetra o attraverso il fiato del musicista che entra nel foro della zampogna. Questo suono nel becco dell'aquila si trasforma in parole, le quali erano già attese nel cuore del poeta, dove poi le imprime.
L'aquila invita Dante a concentrarsi sul suo occhio, l'organo che nelle aquile mortali fissa il sole, perché lì sono le anime più degne di beatitudine. A questo punto c'è la presentazione dei beati, che l'autore fa attraverso le parole udite dall'aquila. A formare la pupilla c'è re David, definito "cantor de lo Spirito Santo" perché scrisse i Salmi, il quale trasportò l'Arca dell'Alleanza dalla casa di Abinabad fino a Gerusalemme, passando per la casa di Obed-Edom Ghitteo (l'arca traslatò di di villa in villa); adesso vede il merito della sua opera di scrittura, che fu frutto della sua volontà, grazie alla corrispondenza del grado di beatitudine a essa. La precisazione che l'aquila fa circa il merito di David è figlia della Summa theolgiae di san Tommaso, in cui è asserito che Dio scrisse la Bibbia e si servì degli scrittori come strumenti, ciononostante gli uomini scrissero di propria volontà e secondo il loro stile e la loro cultura, quindi anche loro furono autori delle Sacre Scritture ed ebbero il merito di ciò che scrissero; attraverso le parole dell'aquila, Dante ripropone il concetto espresso da san Tommaso. Vengono poi presentati i cinque beati che formano il ciglio dell'occhio. Quello più vicino al becco è l'imperatore Traiano, che per pietà di una vedova a cui era stato ucciso il figlio posticipò la sua partenza per la guerra ed emise una rapida sentenza con cui le diede giustizia (si tratta di una leggenda molto creduta all'epoca di Dante); adesso conosce, dichiara l'aquila, quanto costi caro non seguire Cristo, perché ha avuto sia l'esperienza della dannazione (nel Limbo) che quella della beatitudine. Il beato che segue Traiano è Ezechia, re di Giuda, che ottenne un prolungamento di quindici anni della vita grazie alle sue preghiere, e ora sa che non si muta il giudizio di Dio quando con la preghiera di un degno cristiano viene rimandato quel che è stato già pronunciato; secondo l'episodio biblico, Ezechia chiese più tempo non solo per meritare la beatitudine, lui che era sempre stato retto, ma anche per pentirsi delle sue colpe (perciò l'autore parla di vera penitenza, allontanando l'equivoco che potrebbe far credere alla paura della morte come motivazione della preghiera). Dopo Ezechia c'è l'imperatore Costantino, il quale portò la capitale dell'Impero a Costantinopoli (si fece greco) per lasciare Roma alla Chiesa, concretizzando così un'intenzione nobile che però nel tempo ha dato cattivo frutto (il riferimento è alla Donazione di Costantino, falso storico a cui la Chiesa per secoli si è aggrappata al fine di giustificare il proprio potere temporale; Dante vede la Donazione come l'inizio del potere temporale della Chiesa e perciò della sua corruzione); ora vede che le conseguenze nefaste del suo dono non gli sono imputate e non ledono il suo diritto alla beatitudine. Il primo beato che sta dove l'arco del ciglio si abbassa (ne l'arco declivo) è Guglielmo II il Buono, che governò quelle terre (Napoli e la Sicilia) che ora soffrono per i malgoverni di Carlo II d'Angio e Federico II d'Aragona; adesso lui sa quanto il cielo apprezzi un governante giusto, lo si vede dall'intensità della sua luce ("ora conosce come s'innamora / lo ciel del giusto rege, ed al sembiante / del suo fulgor lo fa vedere ancora"). Nessuno crederebbe, sostiene l'aquila, che la quinta anima del ciglio è del troiano Rifeo, un pagano; adesso lui conosce il mistero della grazia divina, che nel mondo non è possibile distinguere, benché non ne possa sondare la profondità come fanno le altre anime ("Ora conosce assai di quel che 'l mondo / veder non pò de la divina grazia, / ben che sua vista non discerna il fondo"). 
L'aquila tace, somigliando all'allodola che vola nell'aria e canta, per poi fermarsi come estasiata dalle ultime note del proprio canto. Riferendosi all'aquila, il poeta la definisce come impronta di Dio, per il cui desiderio ogni cosa diventa com'è ("Quale allodetta che 'n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de l'ultima dolcezza che la sazia, / tal mi sembiò l'imago de la 'mprenta / de l'eterno piacere, al cui disio / ciascuna cosa qual ella è diventa"). Dante è però tormentato da un dubbio e, nonostante questo sia visibile ai beati, come se lui fosse di vetro trasparente, non ne sopporta il peso e finisce per chiedere cosa ha appena visto e udito (l'azione nei versi è descritta come se lui la subisse, è il peso del dubbio a cacciar fuori di forza le parole dalla sua bocca: "tempo aspettar tacendo non patìo, / ma de la bocca: <<Che cose son queste?>> / mi pinse con la forza del suo peso"). La luce delle anime aumenta, esse sono infatti contente di rispondere al dilemma che lo attanaglia; la risposta è data dall'aquila, il cui occhio aumenta di luminosità.
L'aquila spiega che vede come Dante creda alle sue parole, senza però riuscire a comprenderle, e per questo al suo intelletto restano oscure (ascose); fa come quello che conosce il nome di qualcosa e per questo capisce cos'è, senza però capirne la sostanza se qualcuno non gliela spiega. Il Regno dei cieli viene conquistato dalla carità e dalla speranza (il poeta lo descrive alla stregua di un atto violento scrivendo "violenza pate", cioè "subisce violenza"), le quali vincono la volontà di Dio; non è però una vittoria come quella dell'uomo che ne sopraffà un altro, la volontà divina infatti vuole essere vinta per trionfare con la sua bontà una volta che ciò è accaduto. Dante si meraviglia, constata l'aquila, per la presenza nel suo ciglio di due pagani (Traiano e Rifeo). Innanzitutto, a differenza di quel che crede, essi non morirono pagani, ma cristiani; Rifeo credendo al futuro martirio (passuri) di Cristo, Traiano al martirio già avvenuto (passi). L'aquila racconta la vicenda di Traiano: fu portato in vita dall'Inferno, dove non è più possibile il pentimento, per premiare la voglia che papa Gregorio mise nelle sue preghiere affinché l'antico imperatore romano potesse resuscitare ed essere convertito alla dottrina di Cristo; Traiano, nel poco tempo che rimase in vita, credette in colui che poteva salvarlo e si accese di un vero amore così ardente che lo rese degno di essere beato. Rifeo, in virtù della grazia divina, che sgorga da una sorgente così lontana che non può essere vista dall'occhio umano, si impegnò in vita per il bene e per la giustizia, per questo Dio gli fece conoscere il mistero della futura redenzione; lui credette nella fede cristiana e non riuscì più a tollerare le false credenze dei pagani, arrivando a criticare gli adepti (genti perverse); le tre donne che Dante vide vicino alla ruota destra del carro (le virtù teologali: fede, speranza e carità) lo battezzarono ben mille anni prima che il battesimo fosse istituito. Narrata la storia di Rifeo, l'aquila loda la predestinazione, la cui origine è così lontana dall'intelletto umano, che non può comprendere interamente Dio. Dopo la lode, c'è un ammonimento fatto agli umani: devono essere cauti nel giudicare perché i beati, che hanno il vantaggio di poter vedere Dio, non conoscono ancora chi sono tutti gli eletti, e questa mancata conoscenza è per loro motivo di letizia, perché conforma ancor di più la loro volontà a quella di Dio ("E voi, mortali, tenetevi stretti / a giudicar; ché noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti li eletti; / ed ènne dolce così fatto scemo, / perché 'l ben nostro in questo ben s'affina, / che quel che vole Dio, e noi volemo"). 
Il canto si conclude col poeta che constata come l'aquila abbia schiarito la sua vista confusa con una soave medicina, poi racconta che, durante la spiegazione data da quel simbolo divino, ha visto le luci di Traiano e Rifeo guizzare all'unisono così come battono le palpebre, ricordandogli il buon suonatore di cetra che, per rendere più piacevole il canto, lo accompagna col suono dello strumento.

Il canto è dominato dalle figure di Traiano e Rifeo, che servono al poeta per ribadire come la volontà divina e la grazia siano incomprensibili per la mente umana.
Riguardo la vicenda di Traiano, era molto in voga la leggenda della vedova a cui ho già accennato, tanto da essere ripresa anche nella Summa theologiae di san Tommaso. Sempre la leggenda, che viene qui ripresa da Dante, narra che papa Gregorio pregò Dio e ottenne che l'anima dell'imperatore salisse al cielo. Il poeta aggiunge il passaggio della breve resurrezione di Traiano e della sua conversione, io credo perché nel canto precedente i beati hanno detto che solo chi crede in Cristo può accedere al Paradiso, e l'imperatore non poteva fare eccezione.
Di Rifeo c'è molto meno da dire. Si tratta di un personaggio minore dell'Eneide di Virgilio, il quale con Enea organizza l'ultima disperata resistenza e in essa perde la vita. Dante si rifà alle poche parole che il poeta latino scrisse sull'eroe, con cui lo definì "giustissimo", e lo usa per rafforzare ciò che già voleva affermare con Traiano. Può anche essere che all'autore piacesse che tra i beati, insieme a un imperatore romano, vi fosse un troiano, di cui i Romani si consideravano i discendenti. 

Francesco Abate
   

10 commenti:

  1. Conosco questa bellissima opera per diletto ma non per averla studiata: in Francia è argomento di studi universitari riguardanti la letteratura straniera, e io ho studiato altre materie.
    Mercì per il post,
    Sophie.

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    1. Grazie a te per la lettura.
      Spero che i miei post possano invogliarti a conoscere questo poema un po' meglio, ne vale la pena.
      Buona serata.
      Francesco

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  2. Mi sono sempre domandata perché Dante abbia deciso di inserire Traiano in Paradiso al posto di Adriano quando da documenti storici è risaputo che fu lui a interessarsi al Cristianesimo (e ad abolire praticamente per tutto il suo regno le persecuzioni) intrattenendo anche rapporti con alcuni dottori della Chiesa.
    Ciao Francesco!

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    1. Credo che Dante volesse inserire un personaggio totalmente scollegato dal Cristianesimo, così come lo è Rifeo, in modo che non vi fossero ragioni apparenti del suo inserimento in Paradiso, avvalorando la tesi dell'insondabilità della volontà divina. Poi ci sono la leggenda della vedovella e quella dell'intercessione del papa che ne "riabilitano" l'immagine agli occhi del Cristianesimo.
      Baci.

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    2. A dire il vero Dante non inserì Adriano perché all'epoca era già stato messo sotto censura dalla Chiesa in quanto omosessuale (e un sacco di Papi possedevano statue e busti tanto dell'Imperatore quanto del suo amante, pensate voi che contraddizione), triste a dirsi ma era proprio così.
      Un abbraccio a entrambi.

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    3. Questo non lo sapevo. Grazie dell'informazione.
      Per quanto riguarda le contraddizioni, non dimentichiamo quanti, anche in tempi più recenti, si sono rifugiati nella carriera ecclesiastica e di nascosto si sono concessi i piaceri della carne mentre dall'altare li hanno censurati. "Fate quello che dico e non quello che faccio"!
      Buona serata.

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    4. Va beh ma Francesca gioca in casa, non vale! Dopo che ha scritto un romanzo sull'Imperatore Adriano ci credo che sa le cose :-)
      Bello questo commento al canto, anche se secondo me a questo punto della storia Dante iniziava ad accusare un po' di stanchezza (e come negarglielo?).
      Baci.

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    5. Bene, le precisazioni fatte da persone informate aggiungono valore ai miei commenti, perciò l'intervento di Francesca mi fa molto piacere.
      Non credo che Dante fosse stanco, è solo che il Paradiso è di fatto un manuale di teologia scritto in versi, perciò a lui in fase di scrittura dava meno "libertà di movimento" e per noi lettori diventa a tratti un po' logorante (anche commentarlo è più difficile).
      Buona serata.

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  3. Ciao Francesco, scusa ma l'altra volta mi sono dimenticata di passare da te e inserirti nell'elenco lettura.
    Da dove nasce questa tua passione per Dante?
    A presto,
    Melinda.

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    1. Ciao Melinda, non devi scusarti, sta tranquilla.
      Come tanti studenti io, che non fui particolarmente brillante, al liceo della Divina Commedia studiai con piacere solo l'Inferno, mentre trovai noiose e trascurai le altre due cantiche. Essendo però amante della letteratura, maturando ho iniziato a percepire come una grave mancanza la scarsa conoscenza di un'opera così importante, così a distanza di tanti anni l'ho riletta e me ne sono innamorato. Siccome non solo ho apprezzato l'opera, ma ho trovato varie ragioni per cui secondo me oggi più che mai è importante studiarla bene (ne parlo nella recensione), ho deciso di fare i commenti dei vari canti: sto riscoprendo ancora una volta l'opera (perché una lettura approfondita te la fa apprezzare meglio) e sto cercando di aiutare altri a innamorarsene.
      Buona serata.

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