sabato 24 marzo 2018

RECENSIONE DE "IL BARONE RAMPANTE" DI ITALO CALVINO

Scritto nel 1957, Il Barone Rampante fa parte della trilogia araldica di Italo Calvino insieme a Il Visconte Dimezzato (http://culturaincircolo.blogspot.it/2017/07/recensione-de-il-visconte-dimezzato-di.html) e Il Cavaliere Inesistente (http://culturaincircolo.blogspot.it/2016/09/letteratura-recensione-de-il-cavaliere.html). Come le altre due opere, anche questo romanzo tratta un tema importante pur essendo scritto in modo da apparire leggero. A differenza però degli altri due scritti araldici, questo qui si presenta più oscuro nel suo tema centrale. Mentre risultano evidenti i temi dell'essere e dell'alienazione rispettivamente ne Il Cavaliere Inesistente e Il Visconte Dimezzato, alla fine di questo romanzo si rimane un po' disorientati e senza certezze.
La trama è molto semplice. Nel paesino ligure di Ombrosa, località immaginaria, il dodicenne Cosimo Piovasco di Rondò rifiuta di mangiare una zuppa di lumache e, per protestare contro il padre che vuole imporgli il pasto, si rifugia sugli alberi giurando di non scendere più. Cosimo tiene fede alla sua promessa fino alla fine dei suoi giorni, questo però non gli impedisce di vivere un'esistenza intensa che l'autore ci racconta attraverso le memorie di Biagio, il fratello minore.
Leggendo la trama, e anche il romanzo intero, si ha subito l'impressione che Calvino voglia trattare del desiderio di disobbedire, di separarsi dalle convenzioni della società e vivere per conto proprio. Tale impressione cade però se si tiene conto che Cosimo non rinuncia alle comodità, quando può ne costruisce di proprie sugli alberi, non abbandona educazione e istruzione, continua a studiare prima col precettore e poi per conto proprio, non si stacca dalle vicissitudini politiche, che anzi se arrivano a Ombrosa spesso è proprio per merito suo. Cosimo fugge sugli alberi ma non si stacca dalla gente, continua a interagire e lavorare con loro, a volte li guida, altre volte partecipa con loro. Arriva anche a isolarsi e vivere più come bestia che come uomo, ma solo per periodi limitati di tempo. Cosimo non rinnega la società e gli uomini anzi, si impegna in prima persona per migliorarli. 
Alcuni princìpi umani cadono per il protagonista nel momento in cui si rifugia sugli alberi, infatti per lui non ci sono più confini e può muoversi a proprio piacimento finché trova come appiglio il ramo di un albero. Questa particolare libertà gli permette di uscire dal proprio giardino e conoscere Viola, la giovane vicina di casa, di cui si innamora e con cui conoscerà il vero amore prima e la delusione poi. Sempre la sua assoluta libertà gli permette di sapere tante cose che i suoi paesani ignorano e di vivere tante esperienze che essi mai vivranno. Una chiave di lettura, che appare ancor più valida se tenuto conto delle ultime considerazioni sopra espresse, la fornisce il critico letterario Cesare Cases, che ci aiuta a individuare in Calvino, e in quest'opera soprattutto, il pathos della distanza, concetto introdotto dal filosofo Nietzsche che fu molto caro allo scrittore. Il pathos della distanza Calvino lo aveva espresso già dieci anni prima ne Il Sentiero dei Nidi di Ragno, quando il giovane Pif si accorge che, viste da vicino, le lucciole non sono belle come quando si guardano la lontano. Ne Il Barone Rampante questo concetto è molto più presente, praticamente diventa centrale, perché il protagonista assume una posizione sopraelevata per guardare il mondo da una certa distanza. Per Calvino però questo pathos assume un valore diverso da quello che aveva per il filosofo tedesco, Cases infatti nel barone vede la croce e la delizia dell'intellettuale, il quale può porsi in una condizione distaccata e di superiorità nei confronti delle cose e persone comuni, salvo poi patire il sentimento del distacco e prendere atto dell'impossibilità di adattare le sue idee alla realtà concreta. Cosimo Piovasco guarda il mondo dall'alto e con distacco, eppure è attratto dalla gente e sempre la cerca, sia per lavorare con gli uomini che per amoreggiare con le donne; si istruisce e sviluppa profonde teorie politico-sociali, lavora anche per far entrare i suoi paesani nel clima rivoluzionario del resto d'Europa, muore però con la consapevolezza che la Restaurazione ha vanificato ogni sforzo; l'amore per Viola gli fa sperimentare sulla pelle la differenza tra i suoi ideali e la realtà, egli infatti esprime un concetto dell'amore che la donna non gli permette di vivere. Il Barone Rampante quindi ci mostra il dramma dell'intellettuale, che vorrebbe distaccarsi dal mondo ma non ci riesce, vorrebbe migliorarlo e anche in questo fallisce.
Snocciolato il significato dell'opera, una riflessione merita a mio parere anche l'epoca in cui la vicenda è ambientata. Il romanzo si svolge in un lasso di tempo che va dal ventennio precedente la Rivoluzione francese alla Restaurazione. La scelta di questo periodo secondo me non è casuale, infatti, per mostrare al meglio il dramma dell'intellettuale che non riesce a cambiare il mondo, è funzionale un'epoca di grandi sconvolgimenti politico-sociali raccolti nel giro di pochi anni. Fu quella un'epoca in cui si svilupparono le teorie degli Illuministi, in cui si tentò di rovesciare l'ordine che reggeva l'Europa e in cui le nuove ideologie furono represse duramente dai vecchi imperi. Unica altra epoca così densa di sconvolgimenti fu la prima metà del Novecento, ma Calvino non poteva sceglierla perché avrebbe reso l'opera incompatibile con la trilogia araldica, inoltre un romanzo ambientato durante il Ventennio e la Resistenza avrebbe stimolato una ferita ancora aperta e dolorosa, rimanendo così privo di quella leggerezza tanto cara all'autore. Non dimentichiamo che la Resistenza Calvino la trattò già con Il Sentiero dei Nidi di Ragno e per farlo narrò la storia con gli occhi di un bambino, proprio per privarla della carica retorica propria di altri romanzi sul tema.

Il Barone Rampante è il più lungo romanzo della trilogia araldica di Calvino e anche quello che ho gradito meno. L'ho trovato comunque un'ottima lettura e mi ha confermato la grandezza dell'autore, a incidere sul mio gradimento è di sicuro stata la sua minore originalità rispetto agli altri due, inoltre fino all'ultimo mi ha lasciato col dubbio (che ho tutt'ora) riguardo al suo effettivo significato. Resta comunque un ottimo libro che consiglio di leggere e non ridimensiona ai miei occhi la grandezza di Calvino, che con storie in apparenza banali riesce sempre a far riflettere su temi importanti e per niente semplici. Mi restano ancora tanti autori da scoprire e leggere, ma al momento mi sento di dire che Italo Calvino è stato forse il più grande scrittore italiano del Novecento, nonché uno dei più grandi del mondo.

Francesco Abate 


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