domenica 24 marzo 2019

COMMENTO AL CANTO XXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

Già era l'angel dietro a noi rimaso,
l'angel che n'avea vòlti al sesto giro,
avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c'hanno a giustizia lor disiro
detti n'avea beati, e le sue voci
con << sitiunt >>, sanz'altro, ciò forniro.
Dante, Virgilio e Stazio stanno salendo verso la sesta cornice. Si sono lasciati alle spalle l'angelo, il quale con un colpo d'ala ha cancellato la P dalla fronte del poeta fiorentino e ha cantato la beatitudine di coloro che hanno sete di giustizia. L'autore ci specifica che la creatura divina, nel citare la beatitudine, omette la fame di giustizia. Il testo evangelico cita: "Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam, quoniam ipsi saturabuntur" ("Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati"); Dante ci dice espressamente che l'angelo cita solo "sitiunt", cioè la sete, omettendo quindi la fame, la quale sarà protagonista della cornice superiore, che è la cornice dei golosi. 
Dante si sente più leggero rispetto alle risalite precedenti, tanto da non aver difficoltà a stare dietro a Virgilio e Stazio. D'un tratto il poeta mantovano si rivolge a Stazio, il quale nel canto precedente gli ha manifestato grandissima ammirazione e devozione: gli dice innanzitutto che l'amore nato dalla virtù tende sempre a manifestarsi, perché desideroso di comunicare il proprio bene; spiega poi di aver da sempre ammirato Stazio, conosciuto di fama grazie alla discesa nel Limbo di Giovenale, il quale fu un grande ammiratore della Tebaide; infine gli chiede, rivolgendosi come un amico e non come un conoscente, come possa l'avarizia aver attecchito nel cuore di un uomo tanto saggio e assennato ("... << Amore, / acceso di virtù, sempre altro accese, / pur che la fiamma sua paresse fore; / onde da l'ora che tra noi discese / nel limbo de lo 'nferno Giovenale, / che la tua affezion mi fé palese, / mia benevoglienza inverso te fu quale / più strinse mai di non vista persona, / sì ch'or mi parran corte queste scale. / Ma dimmi, e come amico mi perdona / se troppa sicurtà m'allarga il freno, / e come amico ormai meco ragiona: / come poté trovar dentro al tuo seno / loco avarizia, tra cotanto senno / di quanto per tua cura fosti pieno? >>").
Sentite le parole di Virgilio, Stazio prima si lascia andare a un sorriso, che subito spegne, poi risponde: manifesta innanzitutto la gioia di sentirsi ammirato dal suo idolo; poi ne giustifica l'errore, dicendo che spesso si può sbagliare quando le vere cause degli eventi non sono manifeste; infine spiega di non essere stato un avaro, in realtà nella quinta cornice ha scontato il peccato opposto, cioè la prodigalità. Stazio dice poi che si ravvide del suo peccato proprio grazie alla lettura dell'Eneide, vi è infatti un passo, dove Virgilio narra dell'uccisione di Polidoro per mano di Polinestore, in cui l'autore si scaglia disgustato contro la fame d'oro e i delitti a cui spinge. Dante legge e riporta in modo differente l'esclamazione virgiliana, trasformandola da semplice esclamazione d'orrore e monito contro avari e prodighi ("Perché non reggi tu, o sacra fame / de l'oro, l'appetito de' mortali?"). Scopriamo qui che Virgilio non fu per Stazio solo una stella polare della poesia, fu soprattutto un maestro di vita grazie al quale poté salvarsi dal peccato in cui si stava consumando. Spiega infine che i peccati opposti si purgano nella medesima cornice e mediante la stessa pena, per questo giaceva tra gli avari pur essendo colpevole di prodigalità; esclama inoltre che tanti prodighi non si pentono e restano ignari del proprio peccato, dannandosi per l'eternità (e il giorno del Giudizio risorgeranno coi crini scemi).
Sentita la spiegazione di Stazio, in Virgilio nasce un altro dubbio, che subito manifesta. Nella Tebaide, dove il poeta narra della guerra tra i due figli di Giocasta, la quale ebbe doppia trestizia perché li vide morire entrambi, il poeta mantovano non vede alcun segno di adesione alla fede cristiana, senza la quale non è sufficiente operare bene, perciò gli chiede quale evento divino o quale mutamento della sua volontà lo abbiano portato poi alla conversione. Stazio risponde che fu lo stesso Virgilio a guidarlo: come la persona che cammina nella notte col lume dietro e fa luce a chi lo segue, il poeta mantovano prima lo ha condotto alla poesia e poi, con la predizione della nascita di un fanciullo che avrebbe aperto la strada a un ritorno della giustizia, alla fede in Cristo. I versi a cui fa riferimento Stazio nell'Eneide probabilmente preannunciano la nascita di Salonino, figlio di Asinio Pollione, ma già Lattanzio e l'imperatore Costantino ne diedero un'interpretazione cristiana. Lo stesso sant'Agostino ammise come possibile un'ispirazione divina dietro alla composizione di questi versi. Attraverso le parole di Stazio perciò, Dante accoglie un'interpretazione in senso cristiano dei versi pagani di Virgilio. Dopo aver accennato al ruolo del maestro nella sua conversione, Stazio decide di arricchire la sua storia coi particolari ("ma perché veggi mei ciò ch'io disegno, / a colorare stenderò la mano"): già si stava diffondendo nel mondo il Cristianesimo e lui notò il nesso tra i versi sopra citati dell'Eneide e il Vangelo, così prese l'uso di unirsi ai cristiani e ascoltarne la predicazione; tanto gli parvero puri nei costumi i cristiani, che pianse quando Domiziano li perseguitò, e finì per convertirsi alla loro dottrina e farsi battezzare prima di terminare la Tebaide; per molti anni nascose la sua fede e si comportò da pagano, per questo ha scontato per più di quattrocento anni la sua pena nella cornice degli accidiosi. Terminata la spiegazione, Stazio chiede a Virgilio dove siano altri grandi poeti come Terenzio, Cecilio, Plauto e Varro. Il poeta mantovano spiega che questi, insieme a Omero ("quel greco che le Muse lattar più ch'altri mai"), sono nel Limbo e spesso ragionano della poesia ("del monte che sempre ha le nutrice nostre seco"). Virgilio poi si lascia andare a un breve elenco di poeti greci presenti nel Limbo (Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone) e di personaggi della mitologia greca (Antigone, Teti, ecc.).
I poeti giungono alla cornice e si guardano intorno in silenzio, già sono passate le prime quattro ore del giorno. Virgilio dice che conviene procedere verso destra così come hanno sempre fatto; così, dichiara l'autore, stavolta è l'abitudine la loro guida. Procedono i due poeti latini davanti, Dante li segue e in silenzio ascolta i loro discorsi, ricavandone utili insegnamenti ("Elli givan dinanzi, e io soletto / di retro, e ascoltava i lor sermoni, / ch'a poetar mi davano intelletto"). Il bel momento è interrotto dalla vista di un albero posto in mezzo alla strada, carico di pomi dall'aspetto invitante; come l'abete ha i rami sempre più radi man mano che si sale, così quest'albero li ha sempre più radi man mano che ci si avvicina alla base, probabilmente per evitare che qualcuno possa salirvi. Dal lato della parete rocciosa scorre una chiara fonte che ne bagna le foglie. Stazio e Virgilio si avvicinano alla pianta, da cui d'improvviso si alza una voce che urla: << Di questo cibo avrete caro >>. Siamo nella cornice dove sono puniti i golosi, i quali patiscono la fame e la sete con davanti agli occhi la vista di questi magnifici frutti bagnati dalle limpide acque di un ruscello. La voce ammonitrice inizia poi a elencare esempi di virtù contraria alla gola: Maria alle nozze di Cana chiese a Gesù di mutare l'acqua in vino non per soddisfare una propria voglia, ma solo preoccupata che le nozze di svolgessero senza turbamenti e privazioni; le donne dell'antica Roma, come affermò Valerio Massimo, si accontentavano di dissetarsi con acqua; il profeta Daniele, il quale ottenne la Dio la capacità di interpretare i sogni per essersi rifiutato di sedere alla mensa di Nabucodonosor; durante l'età dell'oro, la prima età del genere umano, la fame e la sete rendevano gradito ogni cibo; Giovanni Battista nel deserto si nutrì di locuste e mele, perciò fu tanto grande da essere esaltato da Gesù in persona.

Il canto XXII del Purgatorio si può giudicare come una celebrazione della poesia. A essere esaltato non è soltanto il valore estetico dei versi quali portatori di bellezza, ma anche la loro funzione di esaltazione dell'animo umano.
La figura di Dante si defila completamente, dominano i versi Stazio e Virgilio, l'autore è solo testimone del loro dialogo. Siamo al cospetto di due poeti pagani, non hanno avuto nulla a che fare col Cristianesimo (della conversione di Stazio leggiamo solo nella Divina Commedia, non sembra esserci un fondamento storico), hanno cantato leggende pagane riguardanti popoli pagani (Roma, Troia, l'antica Grecia). Le due figure servono come esaltazione della poesia al di là del suo valore estetico, infatti attraverso Stazio viene introdotta la chiave di lettura cristiana dei versi dell'Eneide di Virgilio. Inconsapevolmente, il poeta mantovano è stato mezzo dell'azione divina e ha salvato delle anime dalla dannazione; non lui, ma la poesia ch'era dentro di lui, è servita da tramite dell'azione divina: coi versi di Virgilio, Dio ha salvato l'anima di Stazio. Vediamo perciò una poesia che non serve solo a intrattenere, ma a dare delle direttive morali e a porre sulla retta via, diventa una guida verso la salvezza dell'anima. Quello che Dante fa con Stazio, cioè il recupero morale della poesia classica, divenne presupposto per molti letterati e filosofi medievali, fu quindi l'inizio di una rinascita della poesia classica e forse una delle ragioni per cui essa è sopravvissuta al mutamento dei costumi e delle credenze.
Per Pietro, figlio di Dante e commentatore della Commedia, Stazio rappresenta la filosofia morale, la quale si affianca alla ragione umana (Virgilio) per condurre il poeta fino a dove dovrà intervenire la teologia, Beatrice. Quindi la ragione umana può arrivare a comprendere l'universo fino a un certo punto, poi necessita dell'intervento della filosofia morale e infine, per la piena comprensione dei misteri divini, serve la teologia.

Francesco Abate  

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