domenica 16 giugno 2019

COMMENTO AL CANTO XXXIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PURGATORIO"

<< Deus, venerunt gentes >>, alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando:
e Beatrice, sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.
Il canto inizia con le sette fanciulle, le sette virtù, che cantano il Salmo 78. Le parole del Salmo in questione parlano dell'irruzione dei gentili, che portarono rovina e sangue nel tempo di Gerusalemme, e invocano l'intervento di Dio. Questo canto, eseguito dalle fanciulle in lacrime, mette in relazione la corruzione della Chiesa, guidata dalla prostituta e dal gigante (papato corrotto e regno di Francia), con la profanazione del tempio di Gerusalemme. Beatrice ascolta con un'aria addolorata paragonabile a quella di Maria ai piedi della croce; quando  smettono di cantare, lei si alza in piedi e ripete le parole che il Vangelo di Giovanni attribuisce a Gesù nell'ultima cena (<< Ancora un po' e non mi vedrete, e ancora un po' e mi rivedrete >>). Questa dichiarazione ha il sapore di una profezia e per alcuni critici annuncia l'imminente rinnovamento della Chiesa, mentre per altri è la previsione della scarsa durata della cattività avignonese. Beatrice lascia passare avanti le sette fanciulle e le segue, seguita a sua volta da Dante e Stazio (il "savio che ristette"). Non più colorata come foco, ma con tranquillo aspetto, dopo neanche dieci passi percorsi sprona il poeta ad avvicinarsi e gli chiede come mai non osi chiedere ciò che vorrebbe. Dante è ancora troppo timoroso dopo gli aspri rimproveri ricevuti prima, lei lo sa e capisce che da questo timore nasce il suo silenzio, perciò lo chiama "fratello" per rasserenare il clima del colloquio e mostrargli che non sono più accusatrice e accusato. La risposta del poeta è impacciata come quella di chi risponde a un'autorità da cui è intimorito, si limita a smozzicare una frase e dirle che lei sa di cosa lui ha bisogno, persistendo perciò nella sua rinuncia a porre domande. La donna gli dice che deve abbandonare timori e vergogna, così da non parlare più come un uomo che sogna (non scandendo bene le parole), poi gli spiega che il carro distrutto dal drago fu la Chiesa, ora è come se non esistesse più, e annuncia poi che la vendetta di Dio cadrà sul colpevole di questa distruzione. Parlando della vendetta divina, Beatrice afferma che non teme suppe, riferendosi probabilmente a una vecchia usanza feudale (si ignorano le fonti dei commenti che ne danno notizia) che voleva immune alle vendette l'assassino che riusciva a mangiare una zuppa per nove giorni sul sepolcro della propria vittima; non ci sono scappatoie, l'ira di Dio calerà inesorabilmente sul colpevole. Per altri critici la parola suppa deriva dal latino iuppa, che significa "giubba", e la frase significa che non ci sono corazze che possano difendere dalla vendetta di Dio. In qualunque modo si voglia intendere la frase, il concetto rimane sempre lo stesso e afferma l'impossibilità per il colpevole di fuggire l'ira di Dio. Fatta questa premessa, Beatrice esprime una delle più criptiche previsioni dell'intero poema: l'aquila che ha lasciato le penne sul carro non resterà tutto il tempo senza eredi, lei vede con chiarezza che è vicino un tempo in cui un messo di Dio ucciderà la prostituta e il gigante ("Non sarà tutto tempo senza reda / l'aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda; / ch'io veggio certamente, e però il narro, / a darne tempo già stelle propinque, / secure d'ogn'intoppo e d'ogne sbarro, / nel quale un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque"). Difficile è stabilire con esattezza a chi si riferisse l'autore, di certo egli fa affermare alla nuova guida celeste che un imperatore sarà incoronato in Italia, dando perciò nuova discendenza all'Impero romano (l'aquila), e ci sarà un cinquecento diece e cinque che distruggerà il papato corrotto e il re di Francia, restituendo purezza e dignità alla Chiesa. Il numero indicato nei versi del canto, scritto con le cifre romane è DXV; anagrammando tali lettere, si ottiene la parola latina DVX, che ci rimanda alla figura di un imperatore che, tornando alle parole precedenti, sarà incoronato in Italia. Non è certo a chi si riferisse l'autore, ma si sospetta che le sue speranze fossero riposte in Arrigo VII, che fu incoronato in Italia nel 1312 e a cui Dante nelle Epistole scrive: "In te crediamo e speriamo, affermando te del cielo ministro, della chiesa figliolo, e della romana gloria promotore".
Beatrice continua il discorso ammettendo che la sua narrazione, oscura come gli enigmi della Sfinge e i responsi di Temide (figlia della Terra e di Urano), è difficile da essere accolta dal poeta, però presto sarà tutto chiarito e per questo lo invita a scrivere tutto ciò che ha detto per coloro che vivono ancora la vita mortale, e lo sprona inoltre a scrivere dell'albero della conoscenza che per due volte è stato spogliato delle foglie. Chiunque rubi o ferisca quella pianta reca un'offesa a Dio, che la creò solo a proprio uso; colui che la prima volta oltraggiò Dio mangiando il frutto dell'albero, ha dovuto poi attendere cinquemila anni nel Limbo finché un altro uomo, Gesù, non ha deciso di scontare su di sé quel peccato. La donna afferma poi che è assopito l'ingegno di Dante se non comprende il motivo singolare per cui l'albero è altissimo e dalla forma capovolta; se i suoi pensieri non fossero induriti come le acque calcaree del fiume Elsa, e se i piaceri terreni non gli avessero offuscato la mente così come il sangue di Piramo sporcò il gelso, avrebbe associato all'albero la giustizia di Dio e capito perché era proibito all'uomo. Siccome però, conclude, vede l'intelletto del poeta ancora pietrificato, fermo nei suoi limiti, al punto da non comprendere appieno le sue parole, lo esorta a conservare almeno un vago ricordo di ciò che gli ha spiegato, così come il pellegrino che torna dalla Terrasanta conserva un bordone coronato di palma in ricordo del suo viaggio. Dopo la profezia, il discorso di Beatrice ribadisce la missione sacra del poeta, cioè quella di spiegare le verità divine ai mortali, ma afferma come il sapere umano sia troppo limitato per comprenderle appieno, quindi all'uomo non resta che conservare un ricordo approssimativo di ciò che ha visto e divulgarlo al resto del mondo, sforzandosi di essere il più preciso possibile. 
Sentita la profezia e l'ordine di Beatrice, Dante promette che nella sua mente le immagini resteranno fedeli al vero così come nei sigilli fatti con la cera, però le chiede come mai le sue capacità intellettuali non riescano a fargli comprendere appieno quel messaggio. La donna gli spiega che adesso vede quanto la sua filosofia, il suo umano sapere, sia inadeguata a comprendere la teologia, e vede come da essa disti quanto la terra dal Primo Mobile (il cielo che si muove più in alto). Il poeta afferma di non ricordare di essersi mai allontanato da lei; Beatrice gli spiega che ciò è dovuto alle acque del Letè e proprio il fatto di non ricordare più la sua colpa dimostra che l'ha commessa, poi gli promette che da ora in avanti parlerà in modo più semplice, così che anche il suo rozzo intelletto possa comprenderla (<< E se tu ricordar non te ne puoi >>, / sorridendo rispuose, << or ti rammenta / come bevesti di Letè ancoi; / e se dal fummo foco s'argomenta, / cotesta oblivion chiaro conchiude / colpa ne la tua voglia altrove attenta. / Veramente oramai saranno nude / le mie parole, quanto converrassi / quelle scovrire a la tua vista rude. >>). 
Ormai è mezzogiorno, il sole sembra procedere più lentamente lungo il meridiano, il quale muta posizione a seconda del punto da cui lo si osserva, e di colpo le sette fanciulle si fermano così come fanno le guide quando scorgono qualcosa di insolito lungo il percorso. Si sono fermate alla fine di un'ombra tenue, simile a quella proiettata dalle foglie verdi o dai rami che sembrano neri presso i freddi fiumi delle Alpi. A Dante sembra di vedere il Tigri e l'Eufrate sgorgare da una fonte e dividersi, il corso delle acque non è per niente tumultuoso e sembrano due amici che passeggiano pigri. Il poeta chiede a Beatrice di dirgli che fiume è quello; lei gli dice di chiedere a Matelda e quest'ultima gli ricorda di averglielo già detto, ritenendo improbabile che le acque del Letè gli abbiano fatto dimenticare questa informazione. A questo punto Beatrice ipotizza che una preoccupazione maggiore gli abbia fatto dimenticare il nome del fiume, gli dice che si chiama Eunoè e invita Matelda a immergerlo nelle sue acque, così da ravvivare la sua virtù tramortita. Matelda, come l'anima gentile che rende propria la voglia altrui non appena le viene manifestata, prende Dante e invita Stazio a seguirlo, poi li immerge entrambi nell'Eunoè. L'autore non ci descrive nel dettaglio la sua immersione nel nuovo fiume, ci dice che ha terminato lo spazio dedicato alla cantica e ci racconta che tornò dal fiume come una pianta che torna a germogliare, pronto e disposto a salire a le stelle. L'Eunoè è il fiume le cui acque danno memoria del bene, quindi dopo essersi liberato definitivamente dal peccato, l'anima di Dante rifiorisce nutrendosi delle opere buone.
Anche questa cantica termina con la parola stelle, così come l'Inferno ("E quindi uscimmo a riveder le stelle") e il Paradiso ("l'amor che move il sole e l'altre stelle"). Nella prima cantica il verso finale ci dà quasi l'idea di una fuga riuscita, col poeta che è tornato all'aperto dopo il cammino straziante nell'Inferno; nella seconda invece ci suggerisce l'imminente ascesa verso il Paradiso, quindi uno stato di transizione, di perfezionamento; nella terza il verso finale è invece il punto esclamativo che chiude l'opera e descrive in pochissime parole Dio.

Con questo canto si chiude il Purgatorio. In questa cantica, a differenza che nell'Inferno, abbiamo visto passare in secondo piano le vicende umane, mentre è stato concesso molto più spazio alle valutazioni filosofiche e teologiche. 
Nei canti finali, quelli inerenti la permanenza di Dante nel Paradiso terrestre, abbiamo visto un uso molto abbondante e sapiente dei simboli che è servito a fondere in un'unica visione la valutazione politica e teologica della storia e del futuro della Chiesa. 
Essendo l'Eden una sorta di anticipo del Paradiso, anche il linguaggio si è ulteriormente raffinato, i versi sono diventati più dolci e la loro interpretazione si è fatta più complessa; un'anticipazione di quella che sarà l'evoluzione dell'opera nel Paradiso.

Francesco Abate

2 commenti:

  1. Buongiorno Francesco, mi sono iscritta al tuo blog dopo aver letto il tuo commento molto interessante sulle recensioni false di Amazon.
    Grazie per questa analisi della Divina Commedia, vedo se ne hai fatte altre così ripasso ancora meglio per gli orali! (eh sì, sto facendo la maturità! Aiuto!).
    A presto,
    Penny

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  2. Grazie Penny per l'iscrizione,
    spero che troverai gli altri commenti e gli altri post utili per i tuoi studi e, più in generale, per coltivare le tue passioni.
    Il tuo articolo sulle false recensioni è scritto molto bene e solleva un problema con cui gli scrittori esordienti sono costretti a scontrarsi, mi ha fatto piacere parteciparvi dicendo la mia.
    In bocca al lupo per la maturità. Io ci sono passato giusto quindici anni fa e ricordo che fu molto meno difficile di quanto temevo (e considera che non ero granché come studente...).
    Ciao,
    Francesco

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