Taciti, soli, sanza compagnia
n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,
come frati minor vanno per via.
Dante e Virgilio si sono lasciati alle spalle i Malebranche impegnati nella loro zuffa e, silenziosamente, continuano il loro cammino. A Dante viene in mente la favola della rana e del topo, che attribuisce a Esopo, mentre in realtà fu scritta da Fedro (l'errore deriva dal fatto che il poeta doveva averla letta nella Mythologia Aesopica, opera in cui fu erroneamente inserita). In questa favola è narrato di una rana che accetta di aiutare un topo a guadare il fiume e per farlo lega la sua coda alla zampa, a metà del tragitto tenta però di immergersi per annegarlo. Il roditore si dibatte e la rana fa fatica a scendere in profondità, intanto dall'alto un nibbio è attratto dalla vista del topo e lo afferra per mangiarlo, finendo per nutrirsi anche della rana traditrice. La favola racconta di un traditore (la rana) che per un caso fortuito (il passaggio del nibbio) finisce male a causa del suo stesso tradimento, patendo un male comune a quello della sua vittima (il topo). Se al topo sostituiamo Ciampolo, alla rana i demoni e al nibbio la pece, vediamo come la favola rappresenti in modo perfetto ciò che è accaduto nel canto precedente. La vittima (Ciampolo) ottiene vendetta facendo patire la sua stessa pena (il bagno nella pece bollente) ai suoi aguzzini (i demoni). Dante traccia questo parallelo tra la vicenda dei Malebranche e i protagonisti della favola, poi subito nasce in lui un altro pensiero che gli raddoppia la paura avuta quando ha saputo che i diavoli avrebbero fatto da scorta. Il poeta teme che i diavoli, furiosi per essere stati visti dai due pellegrini mentre Ciampolo li beffava, possano inseguirli con propositi di vendetta ("Io pensava così: << Questi per noi / sono scherniti con danno e con beffa / sì fatta, ch'assai credo che lor nòi. / Se l'ira sovra 'l mal voler s'agguelfa, / ei ne verranno dietro più crudeli / che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa"). Terrorizzato ("Già mi sentia tutti arricciar li peli / de la paura"), si volta indietro a guardare se i diavoli sono in arrivo, poi manifesta la sua paura a Virgilio, spiegandogli che teme il ritorno dei Malebranche e che dovrebbero nascondersi, aggiunge poi che tanta è la paura di essere inseguito da sentirli già alle sue spalle. Virgilio gli dice che dentro sé percepisce chiaramente i pensieri del suo protetto, il riflesso dell'immagine in uno specchio non si forma tanto rapidamente quanto l'immagine del cuore del poeta dentro di lui, quindi non ignora i suoi timori ("S'i fossi di piombato vetro, / l'imagine di fuor tua non trarrei / più tosto a me, che quella dentro 'mpetro"). I pensieri di Dante sono così penetrati nella mente di Virgilio da formare "un sol consiglio" con i suoi, in pratica la guida ha già escogitato una soluzione nel caso in cui i timori del protetto si rivelassero fondati: seguendo la pendenza, possono scendere all'interno della sesta bolgia, sottraendosi quindi all'ira degli inseguitori. Neanche fa in tempo a finire il discorso Virgilio, che Dante scorge i Malebranche venire verso di loro con le ali spiegate. La guida subito afferra il poeta e con lui si cala lungo la parete della sesta bolgia, restando con lui disteso spalle al muro. Nel descrivere la scena, l'autore usa un paragone che rinforza il ruolo di protettore che ha per lui Virgilio, cioè la ragione. La scena è paragonata a quella della madre che si sveglia al rumore delle fiamme, prende il figlio e fugge, prendendosi cura più di lui che di sé stessa, al punto di fuggire seminuda ("come la madre ch'al romore è desta / e vede presso a sé le fiamme accese, / che prende il figlio e fugge e non s'arresta, / avendo più di lui che di sé cura, / tanto che solo una camiscia vesta"). Per sottolineare ancor di più la drammaticità del momento e l'amore con cui Virgilio lo protegge, Dante ricorre a un secondo paragone: l'acqua del mulino, incanalata verso le pale della ruota, non corre tanto veloce quanto Virgilio per sottrarre il protetto alla furia dei diavoli. La guida accompagna il poeta facendogli scudo col corpo, tenendolo non come un compagno, ma come un figlio ("Non corse mai sì tosto acqua per doccia / a volger ruota di molin terragno, / quand'ella più verso le pale approccia, / come 'l maestro mio per quel vivagno, / portandosene me sovra 'l suo petto, / come suo figlio, non come compagno"). Arrivati a toccare coi piedi il fondo della sesta bolgia, i pellegrini si tranquillizzano, la Provvidenza infatti impedisce ai guardiani della quinta bolgia di allontanarsene, quindi stando ora nella sesta sono al sicuro.
Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì ch'elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
I versi con cui Dante descrive gli ipocriti, puniti nella sesta bolgia, meritano di essere riportati integralmente. Essi avanzano in una lenta processione, vestiti di una cappa la cui fattura esprime la doppiezza che li ha dannati: fuori è dorata, sembra sfavillante, ma dentro è in realtà di piombo. La foggia della cappa esprime il peso della colpa di questi peccatori, inoltre come essi in vita, mostra una bella finzione all'esterno per nascondere la miseria interiore. L'ipocrita ha due facce, bada più all'opinione che gli altri hanno di lui che alla sua stessa essenza, quindi nasconde il proprio squallore morale per mostrare uno splendore finto. La taglia delle cappe è la stessa che usavano i monaci del monastero di Cluny, uno degli ordini monastici più influenti del tempo, queste inoltre sono così pesanti da far sembrare paglia quelle che l'imperatore Federico II costringeva a indossare ai colpevoli di tradimento. Dante e Virgilio iniziano a seguire la processione, ma gli ipocriti procedono pianissimo a causa del peso che portano, quindi si trovano a ogni passo accanto a nuovi dannati. Il poeta chiede alla guida di trovare qualcuno il cui nome o le cui gesta siano conosciute. Un dannato, forse attratto dalla parlata toscana del poeta, gli chiede di fermarsi e aspettarlo, e promette che forse gli darà più di quanto chiede, cioè gli darà più informazioni di quelle che vuole. Virgilio dice quindi all'allievo di attendere che l'ipocrita si avvicini e poi procedere seguendo il suo passo. Dante intanto vede due dannati particolarmente bramosi di raggiungerlo, impediti però dalla gran processione che transita in quello spazio stretto. Non appena gli sono vicino, i due notano che è ancora vivo e si chiedono perché a lui e al maestro sia concesso di non portare la cappa di piombo, infine gli chiedono chi sia. Dante risponde di essere toscano e conferma di essere ancora in vita ("I' fui nato e cresciuto / sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa, / e son col corpo ch'i' ho sempre avuto"), poi chiede loro chi siano e cosa provochi in loro un dolore così forte da palesarsi sui volti in modo tanto evidente. Uno dei due spiega che a farli soffrire tanto è il peso della cappa, poi dice di chiamarsi Catalano e il suo amico è Loderingo, due appartenenti all'ordine cavalleresco francese dei frati gaudenti. I due, uno di famiglia guelfa e l'altro di origine ghibellina, furono chiamati a reggere insieme Firenze al posto di un singolo podestà dopo la battaglia di Montaperti, allo scopo di mantenere la pace. Sentito chi sono, Dante inizia un'invettiva che però lascia in sospeso, attratto da una nuova visione. La tradizione fiorentina, evidentemente accolta dall'autore della Commedia, attribuì ai due frati la responsabilità di un triste periodo di violenze, essi infatti favorirono la politica di Clemente IV, forse corrotti dai guelfi. Nell'opera Dante si lascia sfuggire solo "O frati, i vostri mali..." e poi si interrompe perché vede altro, ma probabilmente in questa invettiva sospesa c'è la volontà di sottolineare appunto l'enormità del peccato compiuto dai due. Come quando si hanno così tante cose da dire da non riuscire neanche a iniziare, così il poeta si ferma e lascia il pensiero in sospeso. L'immagine che comunica alla nostra mente è quello di un uomo furioso, che davanti ha i responsabili dei mali e della miseria politica della terra che ama.
A interrompere l'invettiva di Dante è una visione, c'è un uomo crocifisso a terra con tre pali. Il dannato, non appena si accorge del poeta, si contorce e sospira. Catalano se ne accorge e spiega che il crocifisso è Caifa, il sommo sacerdote che dichiarò Gesù un bestemmiatore nel momento in cui si dichiarò Figlio di Dio. Egli è nudo e crocifisso di traverso, così da essere d'inciampo a tutti gli ipocriti ed essere da loro calpestato. La sua stessa pena è patita dal suocero Anna e da tutti gli altri membri del Sinedrio, che condannarono a morte Gesù e furono causa della distruzione di Gerusalemme. La collocazione di Caifa e del Sinedrio in questa bolgia, nonostante la pena particolare dovuta al peccato commesso contro il Figlio di Dio, si spiega probabilmente con l'atteggiamento molto morbido che ebbero nei confronti degli occupanti Romani pur di mantenere le proprie cariche. Nel vedere Caifa crocifisso a terra, Virgilio si stupisce. Se ricordate, Virgilio nel canto IX ha detto di aver già percorso l'Inferno, spinto dalla maga Eritone a trarre l'anima di un traditore dalla Giudecca, quindi per la bolgia dovrebbe essere già passato. Seppur inventato da Dante, l'episodio è ispirato alla Pharsalia di Lucano, dove è narrato che un morto tornò in vita per rivelare a Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo. L'episodio, essendo riferito alle vicende di Pompeo, è antecedente alla nascita di Gesù Cristo, quindi Virgilio non poteva aver visto Caifa in quelle condizioni, perché ai tempi della sua precedente discesa ancora non c'era. Nella descrizione che Catalano fa di Caifa, si legge una certa soddisfazione. Evidentemente il frate gaudente trova consolazione nel vedere che qualcuno patisca una pena peggiore della sua, oppure essendo un frate non può non trovare soddisfazione nel vedere così tormentato uno dei responsabili della morte di Gesù. Essendo però il frate un peccatore, un ipocrita, è probabile che l'autore abbia voluto sottolinearne lo squallore morale piuttosto che donargli un tratto di nobile cristianità.
Virgilio chiede a frate Catalano se nelle vicinanze c'è un'uscita dalla bolgia che loro possano sfruttare senza dover ricorrere all'aiuto degli angeli neri (che in caso di difficoltà avrebbero l'obbligo di soccorrerli, ma si sono rivelati poco affidabili). Il frate gli spiega che vicino c'è uno degli scogli che permette l'attraversamento della bolgia, ma nel tratto dove si trovano adesso il ponte è rotto a causa del terremoto che si generò quando morì Gesù, i due devono quindi risalire sull'argine arrampicandosi sul mucchio di rovine. Virgilio capisce che Malacoda ha mentito, gli tocca poi sorbirsi anche la lezioncina quasi fanciullesca di Catalano: "<< Io udi' già dire a Bologna / del diavol vizi assai, tra ' quali udi' / ch'elli è bugiardo e padre di menzogna >>". Questo è un momento comico dell'opera, dove vediamo un uomo politico di alto spessore, ex podestà di Firenze, recitare come uno scolaretto quello che sembra quasi il motto di un ragazzino, e subito dopo Virgilio andar via "a gran passi". Dante pone in contrasto il tono stupido o canzonatorio del frate gaudente con la rabbia di Virgilio, al quale tocca sentirsi dare lezioni da bambino subito dopo aver subito la beffa di Malacoda. Il canto si chiude con Virgilio che si incammina nervoso, seguito da Dante.
Francesco Abate
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