Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: << Togli, Dio, ch'a te le squadro! >>.
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch' una li s'avvolse allora al collo,
come dicesse << Non vo' che più diche >>;
e un'altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
Il canto inizia con Vanni Fucci che, dopo aver predetto a Dante la sventura solo per fargli del male, si esprime in una bestemmia plateale contro Dio: rivolge verso l'alto le mani e fa il gesto delle "fiche" (tiene cioè il pugno chiuso e inserisce il pollice tra indice e medio, gesto che richiama la penetrazione e nell'antichità era ampiamente usato per offendere). Vanni è perciò un malvagio per cui è impossibile provare alcuna pietà, non c'è pentimento per le azioni compiute, il suo animo è inoltre incline alla vendetta e alla blasfemia. Dante, visto il comportamento del dannato, considera le serpi che intervengono a fare scempio di lui come amiche. Le bestie lo attaccano, una gli si avvinghia al collo, così da impedirgli di pronunciare altre bestemmie, un'altra gli lega le braccia con tanti nodi da renderlo assolutamente inerte. L'arroganza di Vanni Fucci induce l'autore a un'invettiva contro Pistoia, si chiede infatti perché il suo consiglio non deliberi di ridurre la città in cenere, così da evitare che i suoi cittadini perseverino nel fare del male. Dante dichiara nelle sue terzine di non aver mai visto in tutto l'Inferno uno spirito tanto superbo quanto Vanni Fucci, il quale è addirittura peggio di Capaneo, che cadde dalle mura di Tebe quando osò sfidare Giove, e che nel canto XIV il poeta ha visto patire la pena in un atteggiamento di aperta sfida nei confronti di Dio. ("Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi / d'incenerarti sì che più non duri, / poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi? / Per tutt' i cerchi de lo 'nferno scuri / non vidi spirto in Dio tanto superbo, / non quel che cadde a Tebe giù da' muri"). Vanni Fucci fugge via, mentre un centauro furioso si avvicina cercandolo. Questo centauro ha sulla groppa tante serpi quante non ve ne sono in Maremma, zona della Toscana che ai tempi di Dante era dominata dalla malaria e piena di rettili velenosi. Sul tronco, dietro le spalle, il centauro ha un drago dalle ali spiegate che incenerisce chiunque si imbatta in lui. Virgilio spiega che il centauro è Caco, un essere della mitologia latina descritto come figlio di Vulcano, abitante in una grotta dell'Aventino, che uccideva sputando fiamme dalla bocca. Secondo la mitologia, Caco fu ucciso da Ercole, a cui aveva rubato del bestiame. A differenza degli altri centauri, che sono sulle rive del Flegetonte perché violenti, Caco è punito per il furto, per questo è tra i ladri nella settima bolgia.
Mentre Virgilio racconta a Dante di Caco, tre spiriti si avvicinano senza essere visti e gli chiedono chi siano. I due pellegrini restano in silenzio, Dante non conosce i tre spiriti, uno di loro rivela l'identità di un altro per caso, chiedendosi dove sia rimasto Cianfa. A questo punto il poeta, intuendo che siano fiorentini, chiede al maestro con un gesto della mano di restare in silenzio e fare attenzione. Cianfa, della famiglia dei Donati, fu un cavaliere guelfo dei cui furti non si sa niente. Il poeta interrompe la descrizione dell'evento per dire al lettore che non si meraviglierebbe se risultasse difficile da credere ciò che sta per scrivere, infatti lui stesso ancora non crede a ciò che ha visto in quell'occasione. Un serpente a sei piedi si lancia contro uno dei dannati e gli si avvinghia addosso, stringendolo più di quanto l'edera fa all'albero su cui si abbarbica, finendo per fondersi con lui come se entrambi fossero fatti di cera calda. Il mostro morde anche le guance del dannato, con un gesto che richiama alla mente i baci di saluto che si danno gli amici. Presumibilmente il serpente è Cianfa, che i suoi compagni non vedevano più proprio perché aveva subito la mutazione in rettile a sei piedi. I due esseri fusi insieme formano qualcosa di informe, di diverso da entrambe le figure di partenza. Gli altri due dannati, assistendo all'orrido spettacolo, urlano disperati all'amico chiamandolo Agnello. Si tratta di Agnello Brunelleschi, nobile fiorentino che iniziò a rubare da bambino nella borsa della madre e finì per svaligiare case da adulto. Le due figure (serpente e umano) si fondono in un'immagine perversa che niente conserva delle precedenti fattezze umane. Tale abominio avanza con passo lento e goffo. La descrizione dell'orribile metamorfosi merita di essere letta integralmente:
Com'io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.
Co' piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterior le braccia prese;
poi li addentò e l'una e l'altra guancia;
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra 'mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l'orribil fiera
per l'altrui membra avviticchiò le sue.
Poi s'appiccicar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l'un né l'altro già parea quel ch'era:
come procede innanzi da l'ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e 'l bianco more.
Li altri due 'l riguardavano, e ciascuno
gridava: << Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se' né due né uno >>.
Già eran li due capi un divenuti,
quando n'apparver due figure miste
in una faccia, ov' eran due perduti.
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l'immagine perversa
parea; e tal sen gìo con lento passo.
Mentre avviene la metamorfosi descritta sopra, un serpentello livido e nero come un grano di pepe si avvicina agli altri due dannati molto velocemente, il poeta lo paragona al ramarro che in estate saetta da una siepe all'altra per evitare i raggi solari. Il rettile trafigge uno dei due all'ombelico ("onde prima è preso nostro alimento", cioè dove si alimenta il feto) e il malcapitato cade disteso al suolo in preda ad un malefico intorpidimento. Dalla bocca del serpente e dall'ombelico del dannato inizia a uscire una gran quantità di fumo, le due nuvole finiscono poi per fondersi. Dante interrompe la descrizione per dirci che la metamorfosi che si verifica adesso è ben peggiore di quelle che Lucano narrò essere avvenute a Sabello e Nasidio nel deserto di Libia, sempre a causa dei morsi di serpente. Allo stesso modo è peggiore delle metamorfosi di Cadmo e Aretusa, narrate da Ovidio. La differenza tra le metamorfosi citate sopra e quelle viste da Dante nella bolgia è che le prime mostrano solo un cambiamento della forma, invece i dannati mutano anche l'essenza. ("Taccia Lucano omai là dov' e' tocca / del misero Sabello e di Nasidio, / e attenda a udir quel ch'or si scocca. / Taccia di Cadmo e d'Aretusa Ovidio, / ché se quello in serpente e quella in fonte / converte poetando, io non lo 'nvidio; / ché due nature mai a fronte a fronte / non trasmutò sì ch'amedue le forme / a cambiar lor materia fosser pronte"). Il serpente e il dannato stanno distesi uno di fronte all'altro e, avvolti dal fumo, si scambiano le fattezze: il rettile diventa uomo e viceversa. L'anima del dannato, mutata in serpente, fugge sibilando. Lo spirito appena formatosi dal serpente prima lo insegue e gli parla, poi si volta e dice a quello rimasto di volere che Buoso corra carponi per la bolgia. Buoso, il dannato appena mutato in serpente, fu un nobile fiorentino, per alcuni critici appartenente alla famiglia degli Abati, per altri ai Donati. Dante conclude il canto scusandosi per il modo un po' confuso con cui ha descritto le trasformazioni cui ha assistito, rivela poi di essere stato in quel momento tanto disorientato da non aver riconosciuto Puccio Sciancato, l'unico dei tre dannati a non aver subito metamorfosi. Il poeta rivela poi che l'altro, quello formatosi dalla trasformazione del serpente, era Francesco de' Cavalcanti, il quale fu ucciso a Gaville dagli abitanti del castello e la cui uccisione scatenò una violenta ritorsione della sua famiglia, per questo lui è "quel che tu, Gaville, piagni".
Francesco Abate
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