sabato 7 aprile 2018

COMMENTO AL CANTO XXII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Io già vidi i cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.
Il canto XXII si apre con una constatazione di Dante, che riprende così il tono grottesco del canto XXI. Il poeta ricorda di aver visto i cavalieri muoversi per combattere, per attaccare o per fuggire, fa anche riferimento all'assedio di Arezzo, e ha visto i tornei e le giostre. Ricorda di aver visto i cavalieri muoversi ai più disparati suoni (tamburi, campane, trombe, ecc.), ma mai ricorda di aver sentito un esercito muoversi al suono di un peto. Chiaramente il poeta traccia un parallelo tra gli eserciti e quel manipolo di demoni che lo accompagnano nel suo cammino lungo la quinta bolgia. Per sottolineare la situazione, Dante ricorre a un vecchio proverbio toscano ("ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni") che spiega come si abbia a che fare sempre con la gente appropriata al luogo in cui ci si trova, quindi nell'Inferno non ci si deve sorprendere di avere a che fare con dei diavoli crudeli e maleducati. 
Il poeta concentra la sua attenzione sulla pece bollente che copre il fondo della bolgia, da essa emergono le schiene dei barattieri in cerca di un momento di tregua e, per rendere al meglio l'immagine, Dante le paragona ai dorsi dei delfini che sbucano dal mare. Nei suoi versi l'autore fa riferimento a un'antica credenza secondo la quale i delfini si avvicinavano ai marinai per avvisarli delle tempeste imminenti ("Come i delfini, quando fanno segno / 'a marinar con l'arco de la schiena / che s'argomentin di campar lor legno, / talor così, ad alleggiar la pena, / mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso / e nascondea in men che non balena"). Il poeta li paragona anche alle rane, le quali tengono il corpo immerso nello stagno e cacciano fuori dall'acqua solo il muso. La scelta di questi paragoni con animali conferma la scarsa considerazione che il poeta aveva per i barattieri. Dante vede i dannati tirar fuori per un attimo di refrigerio la schiena o la testa, per poi immergersi subito all'arrivo di Barbariccia. D'un tratto uno dei dannati non riesce a ritrarsi in tempo nella pece, così Graffiacane gli infila l'uncino tra i capelli sporchi di pece ("li arruncigliò le 'mpegolate chiome") e lo tira su. Nella descrizione del dannato in balìa dei demoni, non si manifesta compassione nei versi di Dante, il quale lo paragona a una lontra, continuando i paragoni col regno animale finalizzati a esaltare la bestialità di quei peccatori. I demoni si rivolgono a Rubicante e lo invitano a scuoiare il malcapitato, Dante è però curioso di sapere chi egli sia e manifesta alla guida tale curiosità. Virgilio si rivolge direttamente al dannato e gli gira la domanda di Dante. Il malcapitato racconta che nacque nel regno di Navarra, figlio "d'un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose" e fu messo a servire un signore dalla madre. Entrò nelle grazie del re Tebaldo al punto tale che poté dispensare grazie e benefici, lui ne approfittò e cominciò a elargirli in cambio di denaro. Nonostante nel testo il suo nome non sia mai riportato, i critici lo hanno riconosciuto come Ciampolo di Navarra. Le parole di Ciampolo sono interrotte da Ciriatto, il demone dalla cui bocca escono zanne simili a quelle di un porco, il quale lacera le carni del povero dannato proprio con una delle zanne. "Tra male gatte era venuto 'l sorco", Dante constata la drammaticità della situazione del dannato, ma lo fa ancora in tono sprezzante, paragonandolo a un topo capitato tra le grinfie dei gatti. Onde evitare che parta lo strazio di Ciampolo prima che i viaggiatori abbiano chiesto tutto, Barbariccia lo prende tra le braccia, ordina ai diavoli di stare lontani e incita Virgilio a domandare ancora ("E al maestro mio volse la faccia; / << Domanda >>, disse, << ancor, se più disii / saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia >>"). La guida gli chiede se tra i dannati conosca altri italiani. Ciampolo risponde di essersi separato da un dannato vissuto nelle vicinanze dell'Italia ("che fu di là vicino"), intendendo un sardo, inizia però nella sua descrizione a dilungarsi con l'intento di guadagnare tempo, infatti allunga il discorso dicendo che se fosse ancora immerso nella pece con lui, non temerebbe gli uncini dei diavoli. Libicocco intuisce che Ciampolo stia prendendo tempo per ritardare la pena, esclama di aver aspettato troppo e gli colpisce il braccio con l'uncino, strappandogli "un lacerto", cioè un pezzo di carne. Draghignazzo invece lo colpisce alle gambe, ma lo scempio è fermato dallo sguardo minaccioso loro rivolto da Barbariccia. Finito l'assalto dei diavoli, Virgilio chiede a Ciampolo chi sia il dannato di cui stava parlando. Ciampolo spiega che si tratta di frate Gomita, vicario di Nino Visconti (che resse il giudicato di Gallura dal 1275 al 1296), il quale violò gli ordini del suo signore e fece liberare dei prigionieri pisani in cambio di denaro, finendo per questo impiccato. Ciampolo dice di lui che fu sovrano dei barattieri ("barattier fu non picciol, ma sovrano"), poi indica come presente nella pece anche Michel Zanche di Longodoro, personaggio di cui non si hanno notizie precise. Il dannato sottolinea il fatto che i due compagni di pena siano sardi, quasi come se si compiacesse che non siano della sua stessa zona ("e a dir di Sardigna / le lingue lor non si sentono stanche"). 
La scarsa stima che Dante ha dei barattieri si manifesta non solo nel continuo paragonarli ad animali, ma anche nel ritenerli capaci di ingannare perfino di diavoli. Ciampolo conclude il suo discorso con una proposta, ha intuito che Dante e Virgilio sono rispettivamente toscano e lombardo, quindi dice loro che può far uscire dalla pece ben altri sette dannati. Il suo intento è quello di stuzzicare la curiosità dei pellegrini e far leva sulla voglia dei Malebranche di fare del male, propone quindi uno scambio per loro vantaggioso: averne otto invece che uno solo. Ciampolo sostiene che, fischiando, farà uscire i dannati perché quello è il segnale che hanno per avvisare quando non ci sono demoni nei paraggi. Giustamente però i diavoli devono stare un po' distanti, altrimenti i dannati si spaventano e non escono allo scoperto. Cagnazzo subito capisce che è una trappola, ma il dannato "avea lacciuoli a gran divizia", cioè era pieno di idee per ingannare. Ciampolo dichiara che non sarebbe astuto da parte sua procurare ai compagni un tormento più atroce di quello che già subiscono. Alchino a questo punto si lascia ingannare, accecato dalla superbia è sicuro che volando lo raggiungerà qualora dovesse tentare la fuga, quindi accetta di lasciarlo avvicinare alla pece e di stare un po' distante. Mentre i Malebranche sono distratti, Ciampolo si libera dalla presa di Barbariccia e si tuffa nella pece. Alchino vola nel tentativo di prenderlo e già canta vittoria, ma la paura rende il dannato più lesto delle ali del diavolo, così Ciampolo fugge al supplizio. La furbizia del barattiere scatena un putiferio. Calcabrina, che aspettava solo una scusa, attacca Alchino in volo e comincia ad azzuffarsi con lui ("Irato Calcabrina de la buffa, / volando dietro li tenne, invaghito / che quei campasse per aver la zuffa; / e come 'l barattier fu disparito, / così volse li artigli al suo compagno"). I due diavoli, presi dalla zuffa, cadono nella pece bollente e non riescono più a risalire perché le ali si invischiano di pece. Barbariccia allora lancia quattro demoni sull'altra riva della bolgia, tutti e otto scendono poi da ambo i lati e, tendendo gli uncini, aiutano Alchino e Calcabrina a uscire dalla pece. 
Mentre si svolge la zuffa tra i Malebranche, Dante e Virgilio si allontanano.

Francesco Abate

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