sabato 13 luglio 2019

COMMENTO AL CANTO IV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Intra due cibi, distanti e moventi
d'un modo, prima si morria di fame,
che liber'omo l'un recasse ai denti;
sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:
per che, s'i' mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d'un modo sospinto,
poi ch'era necessario, né commendo.
Il canto IV del Paradiso inizia con Dante che, sentite le storie di Piccarda Donati e Costanza d'Altavilla, è assalito da due dubbi; entrambi i suoi dilemmi hanno pari intensità, così non è in grado di scegliere quale deve esporre prima e di conseguenza resta in silenzio. Per illustrare questa tremenda indecisione, l'autore sceglie tre esempi: 1) un uomo a cui vengono posti due cibi ugualmente appetitosi alla stessa distanza, morirebbe di fame senza riuscire a scegliere quale dei due mangiare; 2) un agnello, trovandosi in mezzo a due lupi affamati, resterebbe immobile non sapendo da quale dei due fuggire, temendoli entrambi; 3) un cane, trovandosi tra due daini, non riuscirebbe a scegliere quale dei due cacciare per primo. Nel primo esempio l'autore usa l'uomo dotato di ragione, negli altri due invece degli animali. Il primo è decisamente il più particolare, richiama infatti al famoso paradosso dell'asino di Buridano, il quale racconta la stessa scena ma con un asino per protagonista. Difficile pensare che Dante abbia tratto ispirazione dal filosofo, dato che nell'anno della composizione della Commedia questi era probabilmente poco più di un ragazzo. Bisogna però dire che anche l'attribuzione della paternità del paradosso dell'asino a Buridano è molto dubbia, infatti nei suoi scritti di questa storia non c'è traccia.
Bloccato dal dubbio, Dante non parla, ma sul suo viso sono dipinte le domande che lo tormentano con un calore superiore a quello che avrebbero potuto esprimere le parole. Beatrice, che può leggere i pensieri del suo protetto, fa come fece Daniele con Nabucodonosor. Il riferimento dell'autore è all'episodio biblico che narra come Daniele riuscì a interpretare un sogno del re babilonese Nabucodonosor, placando la sua ira e impedendo che uccidesse tutti i sapienti di Babilonia. Beatrice perciò risponde direttamente al poeta, non aspettando che egli chieda e scegliendo per lui l'ordine delle risposte. Prima di tutto, spiega lei, Dante si chiede come possa la violenza subita far diminuire il merito dell'anima anche se questa è rimasta fedele al suo buon proposito; la seconda questione invece riguarda la collocazione delle anime, infatti il poeta, trovando quelle nel primo cielo e credendo che dimorino lì stabilmente, crede confermata la teoria platonica (espressa nel Timeo) secondo cui le anime dimorano nelle stelle prima di incarnarsi e nelle stelle ritornano dopo la morte ("Tu argomenti: "Se 'l buon voler dura, / la violenza altrui per qual ragione / di meritar mi scema la misura?". / Ancor di dubitar ti dà cagione / parer tornarsi l'anime a le stelle, / secondo la sentenza di Platone"). Queste sono le domande che con uguale intensità tormentano il poeta, lei dichiara che risponderà prima a quella più velenosa (usa felle, dal latino fel, "fiele"), cioè la più pericolosa sul piano dottrinale.
La prima risposta di Beatrice arriva sulla locazione delle anime, quindi sfata la teoria platonica. Spiega che tutte le creature beate dimorano nell'Empireo dove sono anche i Serafini, Mosè, Samuele, Giovanni Battista e la Vergine Maria: stanno tutte nello stesso luogo e senza distinzioni temporali ("D'i Serafin colui che più s'india, / Moisè, Samuel, e quel Giovanni / che prender vuoli, io dico, non Maria, / non hanno in altro cielo i loro scanni / che questi spiriti che mo t'appariro, / né hanno a l'esser lor più o meno anni"). Tutte le anime vedono Dio, ma la dolcezza della visione è proporzionale ai loro meriti. Se le anime ora al cospetto di Dante sono nel primo cielo non è perché dimorino lì, ma per mostrargli la minore pienezza della loro beatitudine. Spiega Beatrice che è necessario parlare così allo spirito umano, che è abituato a comprendere soltanto le cose del mondo sensibile, ed è per questo che nelle Scritture sono attribuiti caratteri umani a Dio, e per lo stesso motivo la Chiesa rappresenta con fattezze umane gli arcangeli Gabriele, Michele e Raffaele ("l'altro che Tobia rifece sano"). L'argomentazione di Platone nel Timeo, dice ancora, è lontana dall'effettiva realtà del Paradiso, perché sostiene che l'anima torni alla sua stella dopo la morte, intendendo che questa sia già assegnata per natura prima della nascita di una persona. Beatrice però ammette come possibile che il pensiero platonico sia stato erroneamente preso alla lettera, che in realtà il filosofo potrebbe anche aver usato una metafora; a questo punto Platone potrebbe non aver sbagliato completamente, volendo semplicemente attribuire alle sfere celesti le influenze sulle anime che effettivamente hanno. Questa dottrina male interpretata, conclude Beatrice, ha portato fuori strada quasi tutto il mondo antico (si esclude solo il popolo d'Israele), per questo agli astri furono attribuiti i nomi delle divinità.
Terminata la prima spiegazione, Beatrice passa a chiarire il secondo dubbio, il quale è meno velenoso perché non può allontanare Dante da lei, cioè dalla teologia ("L'altra dubitazion che ti commove / ha men velen, però che sua malizia / non ti poria menar da me altrove"). Spiega che il fatto che la giustizia divina possa sembrare iniqua è argomento di fede e non motivo d'eresia, cioè l'uomo non dovrebbe ergersi a giudice del volere divino; ma siccome l'intelletto umano può comprendere questa verità, si offre di fornirla al poeta ("Parere ingiusta la nostra giustizia / ne li occhi de' mortali, è argomento / di fede e non d'eretica nequizia. / Ma perché puote vostro accorgimento / ben penetrare a questa veritate, / come disiri, ti farò contento"). La violenza è tale quando la volontà di chi la subisce non collabora con quella di chi la compie, perciò le anime del primo cielo non possono essere scusate; la volontà, se non vuole piegarsi, fa come il fuoco che, per quanto possa essere forzato dal vento, torna sempre a tendere verso l'alto come la sua natura vuole. Se le anime del primo cielo avessero avuto volontà salda, come quella che tenne san Lorenzo sulla graticola o come quella che spinse Muzio Scevola a bruciarsi la mano che aveva fallito nel suo intento (quello di uccidere il re etrusco Porsenna), sarebbero tornate al chiostro non appena liberate dalla costrizione fisica ("come fuoro sciolte"); esse non lo fecero perché una voglia così salda è troppo rara. Grazie a queste parole, conclude Beatrice, è cancellato il dubbio che avrebbe danneggiato Dante altre volte, se egli le ha bene intese.
Beatrice sente che la sua spiegazione ha fatto nascere un nuovo dubbio e nuovamente gioca d'anticipo, rispondendo direttamente senza aspettare che gli venga posta alcuna domanda. Si tratta di un dubbio che lui mai potrebbe risolvere col proprio intelletto ("Ma or ti s'attraversa un altro passo / dinanzi a li occhi, tal, che per te stesso / non usciresti, pria saresti lasso"). Lei aveva detto al poeta che le anime beate non possono mentire, poiché conoscono Dio che è la prima verità; però lui aveva poi sentito dire a Piccarda Donati che Costanza col cuore non violò il suo voto, cosa che sembra contraddire ciò che lei ha detto prima circa la volontà non ferma delle anime del primo cielo. Molte volte, spiega, per fuggire a un male maggiore si sceglie di compierne uno minore; come Alcmeone che, per pietà del padre Anfiarao, uccise la madre, mancando quindi della stessa pietà per lei. Deve sapere Dante che la forza si mischia alla volontà, facendo in modo che le offese non siano giustificate in nessun modo; la volontà assoluta perciò non si piega mai alla violenza subita, ma c'è la volontà relativa, quella a cui si riferiva Piccarda, che a volte lo fa per evitare di subire un male maggiore. Beatrice e Piccarda hanno detto due cose differenti, ma nessuna delle due ha mentito: la seconda parlava di volontà assoluta, quella per cui Costanza nel cuore non lasciò mai i voti, la prima invece di quella relativa, che la spinse a non tornare più al convento.
Il fluire abbondante del fiume santo sgorgato dalla fonte da cui deriva ogni verità, perché le parole di Beatrice derivano da Dio, ha risolto i due dubbi del poeta ("Cotal fu l'ondeggiar del santo rio / ch'uscì del fonte ond'ogne ver deriva; / tal pose in pace uno e altro disio"). A questo punto, Dante si rivolge a Beatrice chiamandola amante del Primo Amante (quindi di Dio), le cui parole lo inondano e lo scaldano al punto di ravvivarlo sempre di più, poi le dice che il suo sentimento non è abbastanza intenso per ringraziarla delle sue spiegazioni, confida perciò che sarà Dio a farlo per lui. Dice poi che vede come l'intelletto umano si sazi solo se illuminato da quella verità al di fuori della quale nessun'altra può esistere; non appena l'ha raggiunta, e può farlo, altrimenti ogni desiderio sarebbe vano, in quella verità riposa come una belva nella sua tana. Per questo desiderio, ai piedi della conoscenza nasce come un germoglio il dubbio, e la natura spinge l'uomo di altura in altura fino a raggiungere la vetta di sapere più alta. Questa consapevolezza che ora il poeta ha espresso, lo spinge a chiedere senza timore un'altra spiegazione. Chiede se l'uomo possa soddisfare i voti a cui è venuto meno con altri beni che non appaiano piccoli sulla bilancia della giustizia divina ("Io vo' saper se l'om può soddisfarvi / ai voti manchi sì con altri beni, / ch'a la vostra statera non sien parvi"). Beatrice guarda negli occhi Dante, mostrando i suoi pieni di un divino fuoco d'amore, tanto intenso da costringere il poeta a smettere di guardarla ("Beatrice mi guardò con li occhi pieni / di faville d'amor così divini, / che, vinta, mia virtute diè le reni, / e quasi mi perdei con li occhi chini").

Il canto si conclude così, con la domanda di Dante in attesa di risposta e la descrizione dell'insostenibilità dello sguardo di Beatrice. Questi ultimi versi servono da introduzione al canto successivo, dove appunto si tratterà sia dell'impossibilità del poeta di guardare negli occhi l'amata, che della commutabilità dei voti sacri. 

Francesco Abate

   

2 commenti:

  1. Ciao Francesco, anche se adesso la Commedia non è al momento di nuovo mio oggetto di studio leggo sempre con piacere i tuoi commenti ai Canti perché sono praticamente perfetti.
    E soprattutto non sono soporiferi, vuoi mettere?
    Ci rileggiamo alla fine delle mie (lunghe) vacanze!
    Baci,
    Penny

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  2. Considerando la complessità della materia, "non sono soporiferi" è il complimento migliore che mi potessi fare.
    Ti auguro buone vacanze e buone letture sotto l'ombrellone.

    Francesco

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