sabato 27 luglio 2019

COMMENTO AL CANTO VI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Poscia che Costantin l'aquila volse
contr'al corso del ciel, ch'ella seguìo
dietro a l'antico che Lavina tolse,
cento e cent'anni e più l'uccel di Dio
ne lo stremo d'Europa si ritenne,
vicino a' monti de' quai prima uscìo;
e sotto l'ombra delle sacre penne
governò 'l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Il canto VI del Paradiso è totalmente dedicato alle parole dell'anima a cui Dante si è rivolto alla fine del canto precedente. A parlare è Giustiniano, imperatore dell'Impero romano d'Oriente dal 527 fino al 565, anno della sua morte. Viene principalmente ricordato per aver dato ordine alla legislazione e alla giurisprudenza romana; si distinse però anche per le lotte contro i Vandali in Africa e gli Ostrogoti in Italia, nonché per il suo impegno affinché nell'Impero vi fosse unità religiosa.
Il discorso di Giustiniano inizia con una lunga presentazione, infatti la prima cosa che Dante gli ha chiesto è "chi tu se' ". Dopo che Costantino portò l'impero (l'aquila) da Occidente a Oriente, facendogli seguire il percorso inverso a quello di Enea, che da Troia si era spostato nella futura Roma, per secoli questo rimase a Bisanzio (ne lo stremo d'Europa), vicino ai monti della Troade da cui era partito Enea, fondatore dell'Impero Romano secondo la tradizione. Sotto l'ombra dell'Impero il governo passò di mano in mano, fino ad arrivare a lui (governò 'l mondo dì di mano in mano, e, sì cangiando, in su la mia pervenne). Lui fu imperatore ed è Giustiniano, che per opera dello Spirito Santo diede ordine alle leggi romane, togliendo il troppo e il superfluo ("Cesare fui e son Giustiniano, / che, per voler del primo amor ch'i' sento, / d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano"). Non è casuale che Giustiniano usi il passato remoto nel ricordare la carica imperiale, mentre il nome proprio lo introduce col verbo al presente, così ribadisce che le cariche appartengono al mondo dei vivi e lì in Paradiso non contano più nulla. 
Racconta Giustiniano che prima di dedicarsi all'opera per cui il mondo lo ricorda, aderì all'eresia del monofisismo, secondo la quale in Gesù vi era solo la natura divina e non quella umana; poi incontrò il pontefice Agapito, il quale riuscì a riportarlo sulla retta via e lo fece aderire al dogma della doppia natura di Cristo, umana e divina. Credette alle parole di Agapito e adesso vede il dogma con la stessa chiarezza con cui Dante può vedere in un giudizio contraddittorio che c'è una frase vera e una falsa. Essendo passato alla vera fede, a Dio piacque ispirargli il gran lavoro che fece con le leggi imperiali, a cui si dedicò totalmente, lasciando le questioni militari nelle mani del generale Belisario, che fu così ben assistito dal cielo da far capire all'imperatore di non doversi interessare delle armi in prima persona ("Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, / a Dio per grazia piacque di spirarmi / l'alto lavoro, e tutto in lui mi diedi; / e al mio Belisar commendai l'armi, / cui la destra del ciel fu sì congiunta, / che segno fu ch'i' dovesse posarmi"). C'è da fare una precisazione circa l'adesione di Giustiniano all'eresia del monofisismo. La notizia, che pur circolava all'epoca di Dante, è in realtà storicamente falsa: sua moglie Teodora vi aderì per un periodo della vita, lui no.
Giustiniano dice di aver risposto alla prima domanda di Dante, quella sulla sua identità, ma afferma che le sue parole necessitano di un'aggiunta, affinché lui possa vedere quanto ingiustamente agisca sia chi del simbolo imperiale si appropria, cioè i ghibellini, sia chi lo combatte, i guelfi ("Or qui a la question prima s'appunta / la mia risposta; ma sua condizione / mi stringe a seguitare alcuna giunta, / perché tu veggi con quanta ragione / si move contra 'l sacrosanto segno / e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone "). Ciò detto, inizia un lungo riepilogo della gloriosa storia di Roma. Dice a Dante di vedere quanta virtù ha reso l'Impero degno di reverenza, e comincia il suo racconto rievocando la storia di Pallante, il quale morì per aiutare Enea nella lotta contro Turno; da lui Enea ereditò i diritti di sovranità, quindi in questa vicenda sta il fondamento giuridico dell'Impero romano. Rievoca poi i trecento anni in cui i discendenti di Enea dimorarono ad Albalonga, fino a quando tre Orazi e tre Curiazi non combatterono ancora per quello che sarebbe stato l'Impero. Vinse poi le popolazioni limitrofe, nel periodo del ratto delle Sabine e del suicidio di Lucrezia, la quale aveva subito violenza dal figlio di Tarquinio il Superbo e per questo si uccise. Sconfisse poi i Galli di Brenno e Pirro, re dell'Epiro, così come gli altri principati e stati che gli si opposero; per queste gloriose battaglie ebbero gloria Torquato e Quinzio, che fu chiamato Cincinnato per via del ciuffo arruffato, così come le famiglie dei Deci e dei Fabi. Distrusse poi l'orgoglio dei cartaginesi i quali, dietro Annibale, valicarono le Alpi dove nasce il fiume Po; sotto il simbolo dell'impero i giovani Scipione e Pompeo sconfissero gli invasori, e parve amaro al colle sotto cui Dante è nato (Fiesole), che fu distrutto secondo la leggenda nella guerra contro Catilina, a cui partecipò proprio Pompeo ("Esso atterrò l'orgoglio de li Arabi / che di retro ad Annibale passaro / l'alpestre rocce, Po, di che tu labi. / Sott'esso giovanetti triunfaro / Scipione e Pompeo; ed a quel colle / sotto 'l qual tu nascesti parve amaro"). Poi, con l'avvicinarsi del tempo in cui il cielo volle portare il mondo alla sua stessa serenità, preparandolo alla nascita di Cristo, il potere fu preso da Cesare, le cui battaglie vittoriose furono viste in tutta la Gallia transalpina; dal Varo al Reno, dai fiumi Isare, Senna, Loira, e da tutte le valli in cui il Rodano riceve gli affluenti. Quello che fece Cesare quando passò Ravenna e varcò il Rubicone per combattere la guerra civile contro Pompeo, fu un volo così vasto da non poter essere seguito né per iscritto né con le parole. Rivolse l'esercito verso la Spagna, contro i legati di Pompeo, poi verso Durazzo; sconfisse Pompeo così duramente presso Farsalia che il dolore si sentì fino al Nilo, perché il generale sconfitto fuggì in Egitto e fu ucciso a tradimento da Tolomeo. Arrivò a rivedere Antandro, porto da cui era salpato Enea, e Simeonta, dove era sepolto Ettore (Cesare quindi si ritrovò nei luoghi da cui il suo Impero era nato), e dopo una breve sosta in Egitto tolse il regno a Tolomeo. Dall'Egitto piombò sul re di Mauritania, il pompeiano Giuba, poi andò in Spagna per spezzare l'ultima resistenza pompeiana. Di quello che fece l'Impero col successore di Cesare, Ottaviano Augusto, ancora latrano all'Inferno Bruto e Cassio (che da lui furono sconfitti), e se ne dolgono Modena e Perugia; ne piange ancora Cleopatra, che si uccise dopo che Antonio fu sconfitto ad Anzio. Con Ottaviano Augusto l'Impero giunse fino al Mar Rosso e con lui il mondo fu in pace, tanto che dopo oltre due secoli furono chiuse le porte del tempio di Giano, ad indicare che nessuna guerra turbava l'Impero ("Con costui corse infino al lito rubro; / con costui pose il mondo in tanta pace, / che fu serrato a Iano il suo delubro"). Ciò che il segno di cui parla Giustiniano, cioè l'aquila, quindi l'Impero, aveva fatto in passato e avrebbe fatto in futuro per il mondo che aveva sottomesso, diventa poco se paragonato a quel che fece il terzo imperatore, Tiberio, perché la giustizia divina gli concesse l'onore di punire il peccato originale attraverso la Passione di Cristo ("Ma ciò che 'l segno che parlar mi face / fatto avea prima e poi era fatturo / per lo regno mortal ch'a lui soggiace, / diventa in apparenza poco e scuro, / se 'n mano al terzo Cesare si mira / con occhio chiaro e con affetto puro; / ché la viva giustizia che mi spira, / li concedette, in mano a quel ch'i' dico, / gloria di far vendetta a la sua ira"). A questo punto, Giustiniano dice a Dante di ascoltare ciò che sta per dirgli, che potrebbe apparire paradossale: con Tito l'Impero distrusse la città di Gerusalemme, punendo gli Ebrei per l'uccisione di Cristo, che era stata la vendetta di Dio contro il peccato originale. Quando poi i Longobardi misero in pericolo la Chiesa conquistando l'Italia, in suo soccorso tornò l'Impero grazie a Carlo Magno. 
Terminato questo riepilogo della storia dell'Impero, il cui valore sacro è stato sottolineato attribuendogli il privilegio di aver prima ucciso Cristo per redimere l'umanità e poi punito gli Ebrei che l'avevano materialmente ucciso, Giustiniano passa alle valutazioni circa i guelfi e i ghibellini. Ormai, dice, lo stesso Dante può giudicare i due schieramenti, che sono causa di tutti i mali dell'Italia. I guelfi si affidano ai francesi, opponendo ai simboli imperiali i gigli gialli simbolo della casata francese, mentre i ghibellini usano il simbolo imperiale per i loro interessi; è difficile stabilire chi tra loro sia maggiormente colpevole ("L'uno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l'altro appropria quello a parte, / sì ch'è forte a veder chi più si falli"). I ghibellini, dice ancora, facciano la loro politica faziosa usando altri segni, perché chi allontana l'Impero dalla giustizia non segue il segno dell'aquila; e Carlo II d'Angiò non creda di poter distruggere l'Impero coi suoi guelfi, che l'aquila ha scorticato leoni ben più grandi di lui. Già molte volte i figli hanno pagato le colpe dei padri, non si può credere che Dio cambi il proprio simbolo nei gigli di Carlo II. 
Espresse le sue considerazioni sulle fazioni che dividono l'Italia, Giustiniano spiega a Dante chi sono gli spiriti che dimorano nel cielo di Mercurio. Vi dimorano gli spiriti che sono stati attivi per cercare onore e fama; avendo deviato da più alte aspirazioni spirituali, è giusto che i raggi dell'amore divino arrivino a loro più debolmente ("Questa picciola stella si correda / de' boni spiriti, che son stati attivi / perché onore e fama li succeda: / e quando li disiri poggian quivi, / sì disviando, pur convien che i raggi / del vero amore in su poggin men vivi"). Ma è proprio dal paragone tra il premio e i meriti che viene la maggiore letizia degli spiriti, infatti constatano che c'è assoluta giustizia e non ricevono né meno né più di quel che gli è dovuto. La consapevolezza di quest'assoluta giustizia addolcisce tutte le anime, così che queste non possono in alcun modo fare pensieri malvagi. Diverse voci creano dolci melodie, così i diversi gradi di beatitudine nei cieli rendono una dolce armonia in tutto il Paradiso ("Diverse voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote"). 
Dentro al cielo di Mercurio, dice Giustiniano, brilla la luce di Romeo di Villanova, la cui grande opera politica non fu ben gradita. I Provenzali che cospirarono contro di lui non hanno poi avuto gioia, essendo finiti sotto la dominazione angioina; però percorre una strada sbagliata chi crede di subire danno dalle buone azioni altrui ("Ma i Provenzai che fecer contra lui / non hanno riso; e però mal cammina / qual si fa danno del ben fare altrui"). Raimondo Berengario ebbe quattro figlie che, attraverso i matrimoni, divennero tutte regine, e ciò accadde grazie all'opera di Romeo, straniero e di origine sconosciuta. Nonostante la grande opera di Romeo, Raimondo fu spinto dalle calunnie a chiedere conto della sua opera, nonostante avesse migliorato notevolmente i bilanci lasciando dodici dove aveva trovato dieci (che li assegnò sette e cinque per diece). Romeo fu perciò spinto ad andarsene, povero e vecchio, e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare il pane, lo loderebbe ancor più di quanto già faccia. Circa la figura di Romeo, qui descritta da Dante attraverso le parole di Giustiniano, occorre fare una precisazione: l'autore riprende la leggenda che descrive Romeo di Villanova come un pellegrino di ritorno da S.Jacopo di Compostela, che si fermò alla corte di Raimondo Berengario e fu nominato ministro grazie alla sua immensa saggezza, salvo poi tornare a mendicare dopo essere stato colpito dalle calunnie dei cortigiani. La storia in realtà è molto meno poetica, semplicemente fu ministro di Raimondo Berengario, amministrò la contea dopo la morte del re e fu tutore della figlia Beatrice, che fece sposare a Carlo I d'Angiò, e non passò la vecchiaia come mendicante. La leggenda era molto diffusa ai tempi di Dante e il poeta, che viveva il dramma dell'ingiusto esilio, non poteva certo lasciarlo indifferente.

Francesco Abate  

2 commenti:

  1. Fra tutti i canti politici scritti da Dante, ritengo che questo sia quello con maggiori collegamenti fra la Storia antica e la religione cristiana.
    Non è il mio preferito, però bisogna riconoscere la maestria del Poeta.
    Buona domenica.

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  2. Anche a parer mio è il meno affascinante dei canti, anche commentarlo mi è costato un po' di fatica perché c'era ben poco da approfondire; i versi sono infatti molto chiari e facili da capire.
    Nonostante tutto è un canto fondamentale, perché approfondisce una verità a cui Dante ha solo accennato in altri passaggi e che è una delle colonne portanti del suo pensiero: la legittimazione divina del potere imperiale.

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