sabato 6 luglio 2019

COMMENTO AL CANTO III DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Quel sol che pria d'amor mi scaldò ' petto,
di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva' il capo a proferer più erto;
ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Il canto II della Divina Commedia si è chiuso con la spiegazione di Beatrice sulle differenze di luminosità degli astri. Il canto III comincia con il poeta che alza lo sguardo per dirle di aver compreso il suo errore e l'effettiva realtà delle cose, ma una visione attira la sua attenzione e gli fa dimenticare il suo proposito. Meritano attenzione i primi tre versi. In essi ritroviamo una visione umana di Beatrice, infatti l'autore la descrive come il sole che gli aveva scaldato d'amore il petto, quindi in questo momento trionfa l'immagine della donna amata su quella della teologia. Importante è anche notare come i versi descrivano la comprensione della verità, il dolce aspetto, come una lotta, infatti i verbi provando e riprovando ci danno l'idea di un'impresa ardua che ha impegnato la dolce Beatrice con tutte le sue forze; i due verbi sono inoltre riferiti alle due fasi dell'argomentazione di Beatrice, che prima ha solo esposto la teoria e poi ha confutato le idee di Dante e le sue potenziali obiezioni.
Ad attirare l'attenzione di Dante sono dei volti umani. Questi presentano lineamenti attenuati, simili a un'immagine riflessa da un vetro diafano e terso, o da uno specchio d'acqua limpido e poco profondo, i quali hanno contorni meno definiti di quelli d'una perla su una fronte bianca. Vedendo queste facce così indefinite, il poeta commette l'errore opposto a quello di Narciso: mentre il personaggio mitologico si innamorò del proprio riflesso scambiandolo per una persona vera, lui invece scambia le persone per semplici riflessi ("Quali per vetri trasparenti e tersi, / o ver per acque nitide e tranquille, / non sì profonde che i fondi sien persi, / tornan de' nostri visi le postille / debili sì, che perla in bianca fronte / non vien men forte a le nostre pupille; / tali vid'io più facce a parlar pronte; / per ch'io dentro a l'error contrario corsi / a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte"). Credendo perciò che siano solo riflessi, Dante si volta per vedere le immagini reali di quelle persone, ma non vede nulla. Capito l'errore, guarda negli occhi Beatrice, la quale sorride ardendo nei suoi santi occhi. La guida gli dice di non meravigliarsi di quel sorriso, è causato dal suo pensiero puerile (pueril coto, con coto che deriva dal latino cogitatum) che non è ancora sicuro in presenza del vero e lo fa girare a vuoto; gli spiega poi che quelle sono anime reali, relegate nel primo cielo perché venute meno ai voti, infine lo sprona a parlare con loro e a credere a tutto ciò che udirà, esse infatti sono nella grazia di Dio e non possono mai mentire.
Dante, confuso dalla troppa voglia, si rivolge all'anima che sembra più desiderosa di parlare. Si rivolge a lei chiamandola ben creato spirito, ella è infatti un'anima che ha conseguito il fine per cui è stata creata, che gode della dolcezza dei raggi di vita eterna, la quale non può essere compresa se non provata, e le chiede il nome e la sua storia. Lei, pronta e con gli occhi ridenti, prima gli fa una premessa, spiegando che la carità delle anime del Paradiso non nega mai il soddisfacimento di un giusto desiderio, come giusto è quello di Dio che vuole tutti i suoi beati simili a sé, poi risponde alle sue richieste: fu suora di clausura e, anche se qui nella sua forma di anima beata è più bella, lui può riconoscerla e scoprire che è Piccarda Donati (sorella di Forese e Corso Donati); spiega poi che i sentimenti dei beati, che sono infiammati solo dal piacere di Dio, rendono loro felici di trovarsi in questo cielo, dove sono collocati perché in qualche modo vennero meno ai loro voti. Sentita la risposta, Dante constata come nell'aspetto dei beati risplenda qualcosa di divino che li rende diversi dalle loro immagini terrene, per questo non aveva subito riconosciuto Piccarda ("non fui a rimembrar festino") ma ora, grazie alle sue parole, è riuscito a riconoscerla ("raffigurar m'è più latino"); detto ciò, le chiede se qui le anime sono felici o se hanno il desiderio di stare nei cieli più alti ed essere più vicini a Dio. Insieme alle altre anime, Piccarda dapprima sorride, poi risponde con una letizia che la fa apparire ardente del primo amore di Dio (alcuni critici nell'espressione "ch'arder parea d'amor nel primo foco" hanno visto un riferimento al primo amore terreno). L'anima spiega che l'amore di Dio appaga la loro volontà, per questo vogliono solo ciò che hanno; se così non fosse, sarebbero discordi i loro desideri con quelli di Dio e questo non accade mai nel Paradiso, sia perché l'amore di Dio è necessario alle anime sia perché la natura del Paradiso esige la beatitudine, escludendo perciò discordia e malcontento; alla beatitudine è essenziale contenere la propria volontà nei limiti del divino volere, per questo tutte le anime si uniscono in un'unica volontà e la loro disposizione nel Paradiso piace a tutto il Regno così come piace a Dio; conclude il discorso spiegando che la volontà divina è la loro pace, è quel mare verso cui scorre tutto ciò che ha creato direttamente o per mezzo della natura ("E 'n sua volontade è nostra pace: / ell'è quel mare al qual tutto si move / ciò ch'ella cria e che natura face").
Sentite le parole di Piccarda Donati, Dante capisce che in ogni cielo è Paradiso, benché la grazia divina non scenda sulle anime in eguale misura ("Chiaro mi fu allor come ogne dove / in cielo è paradiso, etsi la grazia / del sommo ben d'un modo non vi piove"). Adesso però, come quando si è sazi di un cibo e si ha fame di un altro, così per uno si ringrazia e dell'altro si chiede, il poeta ringrazia Piccarda della spiegazione e le chiede quale fu la spola che non trasse completamente, cioè a quale voto venne meno. Lei spiega che nel cielo più alto è collocata una donna, santa Chiara d'Assisi, la quale ha fondato un ordine per la cui regola si diventa spose di Cristo e si fa voto di castità; lei fuggì ed entrò nel suo ordine, quello delle Clarisse, ma degli uomini, soliti fare più il male che il bene, la rapirono. Piccarda non racconta il seguito della storia, si limita a dire che Dio sa quale fu la sua vita. Le notizie biografiche raccontano che a rapirla fu stesso il fratello Corso insieme a Rossellino della Tosa, a cui era stata promessa in sposa prima dell'entrata in convento, e fu costretta a sposarsi. Una suggestiva leggenda francescana, mai accolta da Dante e forse a lui posteriore, racconta che lei si ammalò di lebbra dopo le nozze e riuscì a morire conservando la propria verginità. 
Dopo aver raccontato la sua storia, Piccarda indica una donna alla sua destra, descrivendola come uno splendore che si accende di tutta la luce del loro cielo, che ha vissuto lo stesso dramma: fattasi suora, fu rapita e costretta a sposarsi e violare il proprio voto. Una volta riportata a forza nel mondo, fu costretta a violare i voti, ma col cuore riuscì a rimanere fedele alla regola. L'anima è di Costanza d'Altavilla, che fu sposa di Arrigo VI di Svevia e con lui generò Federico II. Riferendosi ai due imperatori, Piccarda li definisce il secondo e il terzo vento, probabilmente questo per definirne l'impetuosità e le vicende tempestose dei loro regni. Circa la descrizione di Piccarda, c'è da fare una precisazione: le notizie storiche parlano di una vita ritirata di Costanza nei conventi palermitani fino ai trent'anni, ma non è certo che fosse una suora.
Finito di parlare di Costanza, Piccarda inizia a cantare un'Ave Maria e va via, svanendo come un oggetto pesante che affonda nell'acqua scura. Dante con lo sguardo la segue finché può, poi lo volge al principale oggetto del suo amore, Beatrice, ma tanto lei è splendente da folgorarlo e costringerlo a distoglierlo, rendendolo perciò più restìo a domandare.

Francesco Abate

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