Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
m'ebbe chiarito, mi narrò li 'nganni
che ricever dovea la sua semenza;
ma disse: <<Taci e lascia muover li anni>>;
sì ch'io non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni.
Il canto inizia con l'autore che si rivolge a Clemenza, moglie di Carlo Martello, e le dice che questi gli ha rivelato gli inganni che subirà il loro erede diretto, il figlio Carlo Roberto; le rivela anche che lui stesso gli ha ordinato di non farne parola e lasciare che tutto si compia, visto che questi atti saranno giustamente puniti da Dio. Circa l'identità di Clemenza, occorre dire che anche la figlia di Carlo Martello si chiamava così, quindi è incerto se Dante si rivolga alla consorte o alla figlia; tenendo conto che il poeta usa l'espressione "Carlo tuo", sembra più plausibile l'ipotesi che si rivolga alla moglie. Fatta la profezia, Carlo Martello (quel lume santo) si rivolge a Dio (al Sol che la riempie), cioè a quell'amore che è capace di riempire a sufficienza ogni cosa. ("E già la vita di quel lume santo / rivolta s'era al Sol che la riempie, / come quel ben ch'a ogne cosa è tanto").
Segue una terzina in cui l'autore lancia un'invettiva contro le anime che distolgono il cuore da Dio per inseguire i beni terreni (Ahi anime ingannate e fatture empie, / che da sì fatto ben torcete i cori, / drizzando in vanità le vostre tempie!).
Si avvicina un'altra anima a Dante, la quale palesa il suo desiderio di accontentarlo accentuando la propria luminosità. Gli occhi di Beatrice, che sono ancora puntati sul suo protetto, gli danno la certezza di poter soddisfare il suo desiderio di parlare con la nuova anima. Il poeta chiede alla nuova arrivata di esaudire subito il suo desiderio e provargli che essa può vedere ciò che lui pensa, quindi già conosce ciò che vuole sapere. Come abbiamo avuto modo di vedere in precedenza, le anime beate vedono ogni cosa in Dio, quindi conoscono in anticipo i pensieri di Dante; egli perciò chiede all'anima di rispondere direttamente alle sue domande senza aspettare che vengano poste ("<<Deh, metti al mio voler tosto compenso, / beato spirito>>, dissi, <<e fammi prova / ch'i' possa in te refletter quel ch'io penso!>>"). L'anima di cui ancora non conosce l'identità (la luce che m'era ancor nova), che fino a poco prima cantava l'Osanna immersa nella propria luce, risponde senza indugio come colui a cui piace compiere un'azione che arreca gioia a qualcun altro. Spiega di essere originaria di una parte di quella malvagia (terra prava) penisola italica situata tra Venezia (che indica col nome della sua isola maggiore, Rialto) e due fiumi, il Brenta e il Piave (è perciò originaria della Marca Trevigiana), dove si leva un piccolo colle (il colle di Romano, presso Bassano del Grappa) da cui discese una fiaccola ardente (una facella) che assaltò la contrada. La fiaccola nominata dall'anima è un riferimento ad Ezzelino III, che per lo storico Giovanni Villani fu il più crudele tiranno mai esistito fra i Cristiani; l'immagine nasce dalla leggenda secondo cui la madre, prossima a partorirlo, sognò una fiaccola che incendiava la Marca Trevigiana. L'anima rivela di essere la sorella di Ezzelino (D'una radice nacqui e io ed ella) e di essersi chiamata in vita Cunizza; la sua luce splende nel cielo di Venere perché si lasciò dominare dall'influsso dell'astro, quindi si concesse troppo liberamente l'amore carnale (ebbe diversi mariti e svariati amanti). Nonostante la sua mancanza, lietamente si perdona (le sue colpe infatti sono state cancellate con la penitenza), cosa che è difficile da capire per le persone che sono fuori dalla vita spirituale ("Ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro volgo"). Circa la collocazione di Cunizza in Paradiso, il poeta Ugo Foscolo ebbe da ridire; come detto, la donna ebbe diversi mariti e amanti, tra cui anche il trovatore Sordello, ma Dante la colloca in Paradiso probabilmente in virtù delle voci sulla sua conversione in tarda età. Collocare tra i beati una donna che non fu per niente un esempio di virtù, è servito al poeta per sottolineare il concetto del pentimento e della misericordia di Dio.
Cunizza indica a Dante l'anima a lei più prossima, un gioiello luminoso e prezioso (luculenta e cara gioia) la cui fama sulla Terra durerà per altri cinquecento anni. Invita il poeta a vedere come l'uomo debba fare il bene per poter lasciare un esempio che guidi altri sulla retta via; invece il popolo che abita ora la Marca Trevigiana non se ne preoccupa neanche quando incassa delle sconfitte. Fa poi una serie di profezie: presto i padovani col loro sangue cambieranno il colore delle acque che bagnano Vicenza (le paludi del Bacchiglione) a causa della loro ribellione all'Impero; a Treviso (dove si congiungono le acque del Sile e del Cagnano) è già ordito il complotto per uccidere Rizzardo da Camino, tiranno che regna con superbia; la gente di Feltre piangerà la colpa del proprio empio vescovo, Alessandro Novello, così odiosa che nessuno fu mai imprigionato per un delitto simile. I tre episodi a cui fa riferimento Cunizza sono rispettivamente: la ribellione dei guelfi padovani all'imperatore Arrigo VII nel 1311 e la conseguente sconfitta presso Vicenza; l'uccisione del tiranno Rizzardo da Camino nel 1312; il crimine del vescovo Alessandro Novello, il quale accolse alcuni membri della famiglia Della Fontana come rifugiati, ma li fece poi decapitare per mostrarsi alleato del vicario angioino. Cunizza commenta l'atroce tradimento del vescovo, che sarcasticamente chiama prete cortese, dicendo che sarebbe troppo larga la bigoncia necessaria a contenere il sangue delle vittime e che sarebbe stancante per una persona pesarlo. Conclude affermando che doni così terribili sono conformi ai costumi di quella zona. Ricorda alla fine che nell'Empireo vi sono i Troni, che gli uomini chiamano specchi, i quali mostrano ai beati il giudizio di Dio, così che questi giudizi così duri a essi in realtà appaiono nella loro bontà ("Sù sono specchi, voi dicete Troni, / onde refulge a noi Dio giudicante; / sì che questi parlar ne paion boni"). Cunizza tace e torna alla danza in cui sono impegnate le anime del cielo.
L'altra anima, che prima a Dante era stata presentata da Cunizza, si avvicina e splende come un rubino colpito dal sole. Osserva l'autore che nel Paradiso l'anima si illumina quando è lieta, così come sulla Terra il riso manifesta la gioia; sempre sulla Terra però, quando una persona è triste, la figura perde luce e vigore ("Per letiziar là sù fulgor s'acquista, / sì come riso qui; ma giù s'abbuia / l'ombra di fuor, come la mente è trista"). Il poeta si rivolge all'anima, osserva che nessuna voglia può essergli oscura perché si manifesta in Dio, quindi gli chiede perché la sua voce, che ora trastulla il cielo unendosi al canto dei Serafini, che si ammantano con le sei ali, non risponde alle sue domande. Per esprimere il concetto della penetrazione di un pensiero nella mente di qualcun altro, o dello spirito di Dio nel beato, Dante inventa dei neologismi: il beato si inluia, cioè entra dentro Lui; nell'ultimo verso troviamo anche intuassi e inmii.
L'anima per spiegare le sue origini parte con una descrizione molto ampia, richiamando alla mente il Mediterraneo, la più ampia rientranza dell'oceano, che comprende le sue acque tra l'Europa, l'Africa e l'Asia; lui nacque nella valle compresa tra l'Ebro, fiume della Spagna, e il Magra, che divide (parte) la Liguria dalla Toscana; hanno lo stesso meridiano la città algerina di Buggea e la sua città natale, Marsiglia, la quale fu conquistata per conto di Cesare da Bruto con un grande spargimento di sangue. Fu chiamato Folco e ora risiede nel cielo di Venere perché in vita arse d'amore più di Didone (figlia di Belo), il cui innamoramento fece soffrire Sicheo e Creusa (defunto marito della regina il primo e moglie di Enea la seconda), più di Rodopeia, che fu abbandonata da Demofoonte, più di Ercole (Alcide) quando chiuse Iole nel suo cuore; secondo alcuni critici, la citazione dei tre amori mitologici serve a richiamare le tre donne che Folco amò nella sua vita. Nel cielo di Venere però non si ci pente del peccato commesso, che non si ricorda, bensì si gioisce della bontà divina che ha permesso il male per poi trarne il bene attraverso la penitenza; qui si ammirano gli effetti del disegno divino e si scorgono i vantaggi del rapporto tra gli influssi celesti e la vita terrena ("Non però qui si pente, ma si ride, / non de la colpa, ch'a mente non torna, / ma del valor ch'ordinò e provide. / Qui si rimira ne l'arte ch'adorna / cotanto affetto, e discernesi 'l bene / per che 'l mondo di su quel di giù torna"). Folco dice poi che Dante vuole sapere chi sia l'anima che brilla vicino a lui come un raggio di sole riflesso dall'acqua limpida, gli spiega che è Raab, la quale è l'anima più luminosa e fa splendere tutto il cielo di Venere, e fu la prima a essere redenta e accolta in Paradiso da Gesù Cristo. Parlando del cielo di Venere, Folco lo definisce il cielo in cui l'ombra s'appunta che 'l vostro mondo face, perché secondo una teoria dell'epoca la Terra emette un cono d'ombra che arriva fino al cielo di Venere. Folco afferma che è giusto che Raab rappresenti la vittoria di Cristo e la redenzione ottenuta con la crocifissione, infatti favorì la prima vittoria di Giosuè in Terra Santa (la sconfitta di Gerico, avvenuta secondo la Bibbia grazie a Raab, che accolse e nascose gli esploratori di Giosuè nella città), evento che il papa poco ricorda. Firenze, spiega ancora l'anima, è un'emanazione di Lucifero, colui che per primo voltò le spalle a Dio e che per invidia dell'uomo lo spinse al peccato originale; la città ha coniato e diffuso il fiorino (il maladetto fiore), la moneta che ha sviato i fedeli (le pecore e gli agnelli) e ha trasformato i lupi in pastori. Per questa corruzione dei pastori vengono trascurati i testi biblici e i Padri della Chiesa, portando l'attenzione solo sui testi del diritto canonico (i Decretali), come è evidenziato dai loro margini sgualciti. I cardinali e il papa pensano solo al diritto canonico, non pensano a Nazaret, dove l'arcangelo Gabriele aprì le ali e annunciò la venuta di Cristo. Il Vaticano e gli altri luoghi sacri di Roma, che hanno visto il martirio dei primi seguaci di Pietro, presto saranno liberati da questo adulterio ("Ma Vaticano e l'altre parti elette / di Roma che son state cimitero / a la milizia che Pietro seguette,/ tosto libere fien de l'avoltero").
Il personaggio di Folchetto va necessariamente approfondito. Con la modestia propria dei beati egli parla solo delle sue origini e dei suoi amori, fu in realtà un celebre trovatore, monaco cistercense e vescovo di Tolosa.
La qualità di religioso del personaggio e il pretesto narrativo della presenza di Raab portano ad un discorso contro il disinteresse del Vaticano per la Terra Santa. Quando Dante scrisse la Commedia, il Vaticano faticava ad arrestare l'avanzata islamica, il Regno latino di Gerusalemme era caduto pochi anni prima e le conquiste fatte con le Crociate erano state quasi tutte perdute. Vediamo perciò nelle parole di Folchetto la preoccupazione del Dante cristiano, il quale vedeva le gerarchie ecclesiastiche interessate ad accumulare ricchezza e potere mentre le terre sacre della cristianità erano nelle mani degli infedeli.
Francesco Abate
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