domenica 11 agosto 2019

COMMENTO AL CANTO VIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei facieno onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l'antico errore
Il canto VIII del Paradiso inizia con un'introduzione dell'autore al cerchio di Venere, il terzo del regno celeste. Nell'era in cui il mondo era preda dell'errore del Paganesimo, si credeva che Venere (di cui Ciprigna era uno dei soprannomi, poiché si considerava nata nelle acque intorno all'isola di Cipro), ruotando nel terzo epiciclo (secondo il sistema tolemaico, i pianeti ruotavano lungo un'orbita circolare il cui centro era l'orbita - detta deferente - che percorrevano intorno alla Terra), raggiasse nella sua luce l'amore sensuale (il folle amore); essi non solo l'adoravano con sacrifici, ma addirittura veneravano sua madre Dione e suo figlio Cupido, il quale credevano addirittura che sedette sul grembo di Didone. Quello relativo a Cupido è un episodio ripreso dall'Eneide in cui il dio, prese le sembianze di Ascanio, figlio di Enea, ferì Didone con una freccia e la fece innamorare dell'eroe troiano. Da questa dea di cui ha appena parlato (e da costei ond'io principio piglio) essi diedero il nome al pianeta che è corteggiato dal sole sia dalla faccia posteriore che da quella anteriore (or da coppa or da ciglio), quindi dall'astro è sempre seguito come da un corteggiatore. 
Dante non si accorge di salire verso il terzo cielo, ma si rende conto di averlo raggiunto perché vede Beatrice splendere di una bellezza più intensa. Il poeta distingue nella luce del pianeta altre luci che si muovono con diverse velocità, probabilmente specchio del maggiore e minore grado di beatitudine delle anime; le distingue come nella fiamma si distingue la scintilla, o come in un coro si riesce a distinguere la voce modulante da quella ferma ("E come in fiamma favilla si vede, / e come in voce voce si discerne, / quand'una è ferma e altra va e riede, / vid'io in essa luce altre lucerne / muoversi in giro più e men correnti, / al modo, credo, di lor viste interne"). Le anime si accorgono di Dante e Beatrice e si muovono verso di loro, con una velocità così elevata da far apparire lenti i venti visibili (bufere) e invisibili (quelli di una giornata serena); per raggiungerli, esse interrompono la danza che stavano facendo, quella iniziata nel primo mobile presieduto dai Serafini. I primi spiriti, quelli più vicini al poeta, cantano Osanna in modo tanto celestiale da far nascere in lui il desiderio di riascoltare quelle note. 
Un'anima si avvicina di più e dice a Dante che tutti loro sono pronti a dargli gioia; gli spiega che danzano col coro angelico dei Principati, di cui hanno in comune lo spazio (d'un giro), il tempo (d'un girare) e la sete di Dio (d'una sete), quel coro ai quali lui ha cantato "Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete" (canzone contenuta nelle Rime e commentata nel Convivio); gli dice alla fine che sono tanto pieni d'amore da non dispiacersi di abbandonare per un po' la danza per fargli piacere. Dante volge lo sguardo a Beatrice, la quale ricambia con un sorriso e un cenno d'assenso, facendo i suoi occhi contenti e certi. Ottenuta l'autorizzazione della sua guida, si rivolge all'anima e gli chiede chi sia. Si accorge, nel momento in cui le parla, che la luce diventa più grande e luminosa, segno dell'allegria che aumenta. 
L'anima risponde dicendo di essere stata al mondo poco tempo, se ne avesse avuto di più non ci sarebbero nel mondo i mali che ci sono. Tanta è la sua beatitudine da essere avvolto dalla luce così come il baco lo è dalla seta ("La mia letizia mi ti tien celato / che mi raggia d'intorno e mi nasconde / quasi animal di sua seta fasciato"). Da Dante fu molto amato, dice, e fu giusto così, perché se fosse stato ancora vivo avrebbe concretizzato ciò che il poeta aveva sperato. La regione alla sinistra del Rodano, dove le sue acque si mischiano con il Sorga (la Provenza), l'avrebbero avuto per Signore, così come la penisola italiana con le sue città fortificate, tra cui cita Bari, Gaeta e Catona. Già aveva ereditato dalla madre il trono d'Ungheria, quella terra attraversata dal Danubio che sta oltre i confini della Germania. La bella Sicilia, che si sporca di caligine tra Pachino e Peloro per i fumi dell'Etna, che è battuta dallo scirocco non per causa di Tifeo (come racconta Ovidio), ma per lo zolfo che esce dal sottosuolo, avrebbe ancora suoi sovrani, nati attraverso lui da Carlo e Rodolfo, perché il malgoverno non avrebbe scatenato a Palermo la guerra del vespro siciliano. Se suo fratello Roberto tenesse a mente la lezione di Palermo, sostiene sempre l'anima, si guarderebbe bene dal circondarsi di funzionari catalani, che con la loro avarizia, unita alla sua, governano male il popolo; bisognerebbe provvedere che alla sua barca, già carica della sua avarizia, non venga aggiunto altro carico, cioè l'avarizia dei funzionari; lui discende da una dinastia liberale, è però nato avaro e avrebbe bisogno di collaboratori non preoccupati solo di accumulare ricchezze nei forzieri. A fare questo discorso è Carlo Martello, principe angioino vissuto tra il 1271 e il 1295, che Dante aveva conosciuto a Firenze; egli fu erede di vasti possedimenti (Provenza, Italia meridionale, Sicilia e Ungheria) e si distinse per capacità e liberalità nel governo di Napoli; le speranze che portava con sé si spensero però presto, infatti morì di peste a soli ventiquattro anni. Nelle sue parole Dante mostra tutte le speranze che in lui aveva riposte e le usa per introdurre l'argomento dei versi successivi, il motivo per cui da un buon padre possa nascere un cattivo figlio.
Dante manifesta la propria gioia nel sapere che Carlo Martello possa vedere in Dio la letizia procuratagli dal suo discorso, inoltre manifesta il piacere di saperlo tra i beati; fatta questa premessa, gli chiede come possa da un buon padre nascere un cattivo figlio (com' esser può di dolce seme amaro). Carlo gli risponde che, riuscendo a mostrargli una verità fondamentale, riuscirà a fargli capire ciò che vuole sapere, così lui avrà il viso rivolto dove ora è la schiena (quindi non darà più le spalle alla verità). Fatta la premessa, gli spiega che Dio, il Bene che governa tutto il Paradiso, fa in modo che dagli astri discenda una virtù influente sulle creature; nella Sua mente non sono determinate solo le varie nature, ma anche i loro fini, così come la freccia è scoccata verso un bersaglio preciso; se così non fosse, gli astri coi loro effetti non produrrebbero cose fatte con sapienza (arti), ma disastri (ruine), e questo non può essere perché significherebbe che le intelligenze dei vari cieli sono imperfette, presupponendo l'imperfezione dell'intelligenza prima, quindi di Dio. Data questa prima spiegazione fondamentale, Carlo chiede a Dante se vuole ulteriori chiarimenti sulla questione. Il poeta dice di no, è infatti evidente che la natura non possa fallire in ciò che è necessario. L'anima a questo punto gli chiede se fosse peggio per l'uomo non vivere in società ("Ond'elli ancora: <<Or dì: sarebbe il peggio / per l'omo in terra, se non fosse cive?>>"). Il poeta sostiene di sì e dichiara di non aver bisogno di chiedere ragioni, tanto è sicuro della cosa. A questo punto Carlo dice che sarebbe impossibile per l'uomo vivere in società se non ci fossero sulla Terra persone con diverse inclinazioni, a meno che Aristotele non abbia scritto cose sbagliate, per questo è necessario che i figli siano diversi dai padri, che uno nasca Solone e l'altro Serse, un altro Melchisedech (sacerdote e re di Salem) e un altro Dedalo; i cieli esercitano le loro influenze senza tenere conto della famiglia e del casato, per questo i gemelli Esaù e Giacobbe poterono essere così diversi, o Romolo poté essere nato da un ignoto plebeo e non da Marte, come invece sostenevano i Romani; se non fosse per il volere divino, i figli seguirebbero lo stesso cammino dei padri. Dopo aver chiarito a Dante il suo dubbio, Carlo gli dimostra di gradire la sua presenza donandogli un'ulteriore informazione: la natura, se si trova in un ambiente sfavorevole, dà un cattivo frutto, così come il seme che cade su un terreno a lui poco adatto, perciò se il mondo seguisse l'inclinazione naturale delle persone, invece di forzarle, avrebbe le persone giuste al posto giusto; ma gli uomini torcono sempre le cose, forzando alla vita religiosa chi è nato per combattere e facendo re chi è portato per la religione, per questo il loro cammino ha deviato dalla giusta strada.

Francesco Abate 

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