domenica 4 agosto 2019

COMMENTO AL CANTO VII DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

<<Osanna, sanctus Deus sabaoth,
superillustrans claritate tua
felices ignes horum malacoth!>>
Il canto VII inizia con questi versi, intonati dalle anime del cielo di Mercurio, i quali sono in latino ma contengono anche due parole ebraiche, sabaoth e malacoth; è un inno frutto dell'invenzione del poeta, ma si ispira al Sanctus della Messa. Il significato del canto intonato dalle anime è: <<Osanna, o santo Dio degli eserciti, che illumini dall'alto con la tua chiara luce i beati splendori di questi regni>>. Giustiniano gira su se stesso al ritmo del proprio canto e su di lui si congiunge una doppia luce. Circa la natura di questa doppia luce, ci sono due diverse interpretazioni: quella più comunemente accettata vuole che siano la luce propria dell'anima e quella che da Dio è donata a ciascuno spirito affinché possa sostenere la visione beatifica; secondo un'altra interpretazione, è invece un riferimento alla doppia gloria dell'imperatore, che fu virtuoso nelle leggi e nelle armi. Tutte le anime danzando si allontanano velocemente, seguendo il ritmo della danza di Giustiniano. 
Viste andar via le anime, Dante resta in preda a un dubbio. Dentro di sé una voce lo sprona a chiedere chiarimenti a Beatrice, la guida che placa la sua sete di sapere, ma il profondo rispetto che per lei prova lo spinge a chinare il capo, come farebbe un uomo che si appisola, solo al sentire una parte del suo nome ("Io dubitava, e dicea <<Dille, dille!>> / fra me, <<dille>> dicea, <<a la mia donna / che mi disseta con le dolci stille>>; / ma quella reverenza che s'indonna / di tutto me, pur per Be e per ice, / mi richinava come l'om ch'assonna"). Beatrice sopporta per poco di vedere Dante in preda al dubbio e all'indecisione, quindi lo illumina con un sorriso che renderebbe felice un uomo tra le fiamme e gli risponde senza che lui chieda.
Il dubbio che ha Dante, che Beatrice scorge senza timore di sbagliare perché vede tutto in Dio, riguarda il fatto che sia considerata giusta la punizione di un atto considerato a sua volta giusto; in pratica il poeta non capisce perché, se fu giusto che Gesù morisse in croce, fu anche giusto che gli Ebrei fossero puniti per averlo ucciso. Beatrice esprime questo dubbio al posto del suo protetto e lo invita ad ascoltare le sue parole, che gli riveleranno una grande verità. Gli spiega che Adamo, l'uomo che non nacque, per non tollerare la limitazione vantaggiosa della sua libera volontà, dannò sé stesso e tutta la sua discendenza, per questo l'umanità giacque spiritualmente inferma per secoli, immersa nell'oscurità ("Per non soffrire a la virtù che vole / freno a suo prode, quell'uom che non nacque, / dannando sé, dannò tutta sua prole; / onde l'umana specie inferma giacque / giù per secoli molti in grande errore"). Questa condizione di smarrimento spirituale durò finché non scese sulla Terra Gesù, generato per opera dello Spirito Santo (etterno amore), il quale unì in sé la natura divina e quella umana, che si era allontanata da Dio. Beatrice spiega che la natura umana fu creata senza vizio e fu cacciata dall'Eden perché col peccato originale si era allontanata dalla strada della grazia; essa, unita alla natura divina, così com'era in Cristo, tornò alla sua purezza. Se si giudica perciò la pena della croce rispetto alla natura assunta, cioè quella umana, nessuna pena fu mai più giusta; se si guarda invece alla persona a cui essa fu inflitta, cioè a Gesù, allora non poteva essere più ingiusta. Dalla stessa azione, la crocifissione di Cristo, scaturirono due effetti diversi: essa piacque a Dio, che vide soddisfatta la sua giustizia, e piacque ai Giudei, che sfogarono il loro odio contro Gesù. Per l'orrore suscitato da questo delitto, la terra tremò, ma contemporaneamente vi fu la redenzione dell'umanità  (e 'l ciel s'aperse). Non deve perciò sorprendersi, conclude Beatrice, se si dice che la giusta vendetta fu giustamente punita da un giusto tribunale.
Soddisfatto il dubbio di Dante, Beatrice si rende subito conto che ne è nato un altro e glielo fa notare. Il poeta si chiede perché Dio abbia voluto redimere l'uomo in questo modo, col sacrificio di suo Figlio ("Ma io veggi' or la tua mente ristretta / di pensiero in pensier dentro ad un nodo, / del qual con gran disio solver s'aspetta. / Tu dici: "Ben discerno ciò ch'i' odo; / ma perché Dio volesse, m'è occulto, / a nostra redenzion pur questo modo""). Gli spiega la donna che la spiegazione di questo enigma, che è uno dei principali misteri della fede, non può essere compresa da chi si affida solo all'ingegno umano e non sa affidarsi alla viva fede (la fiamma d'amor). Nonostante l'inadeguatezza del poeta (il Veramente con cui si apre il verso 61 significa tuttavia, dal latino verumtamen), lei gli spiegherà perché quello fu il modo più giusto. La divina bontà, che da sé rigetta ogni livore, ardendo nella sua infinità carità, risplende e manifesta le bellezze eterne; ciò che da essa è direttamente creato, è eterno, perché la sua impronta non si cancella; ciò che da essa è direttamente creato, è libero, perché non soggiace alle influenze dei cieli. Più la cosa creata somiglia a Dio e più gli piace, perché in essa risplende maggiormente la virtù creatrice. L'uomo si avvantaggia di tutte e tre le prerogative delle cose create direttamente da Dio: eternità, libertà e somiglianza a Dio; se una delle doti viene meno, egli decade dalla sua condizione di nobiltà ("Di tutte queste dote s'avvantaggia / l'umana creatura, e, s'una manca, / di sua nobiltà conven che caggia"). Solo il peccato ha il potere di privare l'uomo della libertà (la disfranca), rendendolo diverso da Dio perché del Suo lume risplende poco. L'uomo non recupera la dignità perduta se non riempie il vuoto creato dalla colpa pagando una giusta pena ("Solo il peccato è quel che la disfranca, / e falla dissimile al sommo bene, / per che del lume suo poco s'imbianca; / ed in sua dignità mai non rivene, / se non riempie, dove colpa vota, / contra mal dilettar con giuste pene"). Quando Adamo peccò, lo fece tutta l'umanità, e per questo fu cacciata dal Paradiso terrestre e perse la sua dignità. Per l'umanità non era possibile recuperare ciò che aveva perduto senza passare per una di queste due strade: o che Dio per misericordia perdonasse il peccato commesso, o che l'uomo con le sue forze riuscisse a riparare. Essendo un ragionamento difficile da seguire, Beatrice lo interrompe un attimo per esortare Dante a seguirla attentamente e ficcare lo sguardo dentro al mistero divino ("Ficca mo l'occhio per entro l'abisso / de l'eterno consiglio, quanto poi / al mio parlar distrettamente fisso"). Riprende poi la spiegazione, dicendo che l'uomo nella sua piccolezza non avrebbe mai potuto rimediare a una colpa commessa nei confronti di Dio, mai avrebbe potuto umiliarsi tanto da compensare l'arroganza che lo aveva portato al peccato originale; quindi l'uomo non poteva rimediare con le proprie forze. Essendo impossibile all'uomo rimediare, l'unica possibilità di redenzione derivava da Dio, che poteva donarla o attraverso la giustizia, o attraverso la misericordia, o con entrambe insieme. Siccome un'opera è tanto più gradita quanto più rivela la bontà di chi la compie, Dio fu contento di redimere l'umanità usando entrambe le sue vie, quindi sia giustizia che misericordia. Dal giorno della creazione a quello del giudizio universale, non ci fu e non ci sarà un'azione divina così magnifica né per la giustizia né per la misericordia; Dio fu più misericordioso dando sé stesso per redimere l'uomo di quanto sarebbe stato se l'avesse semplicemente perdonato; e nessuna azione di giustizia sarebbe stata sufficiente alla redenzione se il Figlio di Dio non si fosse incarnato.
Terminata la spiegazione circa la via della redenzione, Beatrice previene un'obiezione di Dante. Lei ha detto che tutto ciò che è creato direttamente da Dio è eterno, ma il poeta, ragionando con l'intelletto umano, a questo punto potrebbe chiedersi perché i quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco) e tutto ciò che generano si corrompe e svanisce, mentre stando alle parole della donna dovrebbero essere eterni. Beatrice gli spiega che gli angeli e i corpi celesti si possono dire creati nell'interezza del loro essere direttamente da Dio, invece gli elementi del mondo sensibile sono una creazione indiretta, in quanto ricevono il loro principio formale dall'influsso dei cieli: solo la loro materia prima fu direttamente creata, così come la virtù informale degli astri. L'anima vegetativa e sensitiva, proprie di ogni bestia e ogni vegetale, ricevono la vita dall'influsso degli astri; gli uomini invece hanno anche l'anima intellettiva, che gli viene infusa direttamente dal sommo bene, che la fa innamorare di sé al punto da farle desiderare ardentemente il ricongiungimento ("L'anima d'ogne bruto e de le piante / di complession potenziata tira / lo raggio e 'l moto de le luci sante; / ma vostra vita sanza mezzo spira / la somma beninanza, e la innamora / di sé sì che poi sempre la disira").
In base alle ultime rivelazioni, conclude Beatrice, Dante può dedurre come sia possibile la resurrezione dei corpi. Gli basta pensare come furono creati Adamo ed Eva (li primi parenti), i quali furono creati direttamente da Dio e dopo la Passione di Cristo riacquistarono la prerogativa dell'eternità.

Francesco Abate       

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