domenica 8 settembre 2019

COMMENTO AL CANTO XI DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

O insensata cura de' mortali
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l'ali!
Il canto XI si apre con un'invettiva dell'autore contro i mortali, i cui pensieri (sillogismi) si concentrano sugli interessi terreni, mentre l'uomo dovrebbe dedicarsi alle cose celesti. Mentre lui è nel cielo con Beatrice, avvolto dalle anime beate, sulla Terra c'è chi si perde correndo dietro a cavilli giuridici (dietro a iura), chi si dedica a una vocazione sacerdotale finta, chi si perde dietro i testi medici d'Ippocrate (amforismi), chi regna con la forza delle armi o con gli inganni (sofismi), chi ruba e chi si dedica al piacere dei sensi. Si apre perciò il canto con dei versi che tracciano la netta differenza che c'è tra la vita terrena e quella beata; il poeta con le sue parole ci disegna lo squallore che regna sulla Terra e poi vi contrappone l'immagine di due anime libere da quella lordura che stanno immerse tra i beati.
Le anime che stanno in cerchio si fermano, proprio nel momento in cui la luce che prima ha parlato a Dante, cioè san Tommaso, è tornata nel punto dov'era. La luce di san Tommaso si fa più pura (più mera) e il santo ricomincia a parlare. Egli esordisce ricordando che vede nella luce di Dio la nuova incertezza di Dante, il quale vuole che gli spieghi più chiaramente il discorso che ha fatto prima ("Tu dubbi, e hai voler che si ricerna / in sì aperta e 'n sì distesa lingua / lo dicer mio, ch'al tuo sentir si sterna"). I dubbi di Dante riguardano due passaggi del discorso fatto prima da Tommaso, precisamente quello riguardo i beni materiali accumulati dai domenicani e quello circa la saggezza di Salomone, tanto grande da non avere eguali. La Provvidenza, che governa l'universo attraverso il disegno di Dio, il quale è insondabile anche per il più vigoroso intelletto umano, creò due principi da affiancare alla Chiesa affinché la guidassero verso il suo amato (Cristo), che sposò attraverso il sacrificio della Passione (col sangue benedetto). Uno dei principi ardeva d'amore come i serafini, l'altro splendeva di saggezza come i cherubini; non vi sono eguali sulla Terra per poter fare un paragone con i due principi, quindi san Tommaso usa direttamente le gerarchie angeliche ("L'un fu tutto serafico in ardore; / l'altro per sapienza in terra fue / di cherubinica luce uno splendore"). Tommaso afferma che parlerà solo del primo (san Francesco d'Assisi), tanto lodandone uno si lodano automaticamente tutti e due, perché entrambi operarono per lo stesso fine (l'altro è san Domenico). A questo punto, san Tommaso indica il luogo dove nacque san Francesco: tra il piccolo fiume Topino e il Chiascio, che sorge dal colle Iugino, detto del beato Ubaldo, digrada il colle Subasio, da cui Perugia riceve i venti freddi e caldi, e sul cui retro ci sono Nocera Umbra e Gualdo Tadino, che subiscono l'oppressione di Perugia e perciò piangono per grave giogo; là dove il colle diventa meno ripido, nacque un sole, così come l'astro talvolta nasce sul fiume Gange; non si dica che san Francesco nacque ad Assisi, ammonisce san Tommaso, piuttosto si chiami Oriente il luogo dove nacque (questa affermazione accentua la metafora del sole, sottolineando l'importanza del santo per la cristianità). 
Finito di descrivere il luogo in cui nacque, san Tommaso passa al racconto della vita di san Francesco. Era ancora poco lontano dall'anno della sua nascita (per gli storici aveva ventiquattro anni quando decise di dedicarsi a Dio) e già cominciò a far sentire alla Terra il conforto della sua grande virtù; affrontò l'ira del padre per unirsi a quella donna, la Povertà, a cui nessuno riserva una festosa accoglienza, anzi, a cui tutti sfuggono, e a lei si unì davanti al tribunale del vescovo di Assisi; da quel momento, la amò ogni giorno di più ("Non era ancor molto lontan da l'orto, / ch'el cominciò a far sentir la terra / de la sua gran virtute alcun conforto; / ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra; / e dinanzi a la sua spiritual corte / et coram patre le si fece unito; / poscia di dì in dì l'amò più forte"). La Povertà, privata millecento anni prima del suo sposo, cioè di Cristo, per tutto quel tempo era stata sola e disprezzata, senza nessuno che la prendesse in moglie; non valse a nulla la storia di Amiclate il quale, essendo un pescatore poverissimo, non si era spaventato in presenza di Cesare, non potendo essere privato di nulla (l'episodio è narrato nella Pharsalia di Lucano); nemmeno servì la sua fedeltà e la sua fierezza, che la portarono a salire sulla croce di Cristo quando la stessa Maria si era fermata ai suoi piedi. Raccontato ciò, Tommaso dice chiaramente a Dante che sta parlando di san Francesco e della Povertà, infatti fino a questo momento non aveva accennato alle loro identità.
Tommaso continua il racconto. La concordia e la letizia tra il Santo e la Povertà suscitarono pensieri santi negli osservatori, tanto che Bernardo di Quintavalle lasciò ogni cosa e seguì san Francesco, correndogli dietro eppure sentendosi troppo lento tanto era il fervore che l'aveva invaso ("La lor concordia e ' lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi; / tanto che 'l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo"). Con un'esclamazione, san Tommaso loda l'ignota ricchezza che produce altri beni, cioè quella spirituale. Dopo Bernardo, Egidio e Silvestro si spogliarono dei beni e seguirono Francesco, tanto erano attratti dalla sua sposa. Andò a Roma come padre di una famiglia spirituale e maestro, non ebbe vergogna né d'essere figlio di un ricco mercante (Pietro Bernardone) né di suscitare meraviglia con la sua condizione di povertà; si rivolse regalmente al papa Innocenzo III e gli illustrò la regola del suo ordine, ricevendo dal pontefice la prima approvazione. Siccome la povera gente che seguiva Francesco aumentò, papa Onorio III, ispirato dallo Spirito Santo, con una Bolla diede la seconda approvazione alla regola dell'ordine. Per sete di martirio, san Francesco predicò la parola di Dio al Sultano Malek al Kamil e, trovata la gente del luogo non disposta alla conversione, per non restare inoperoso tornò in Italia tra i suoi fedeli, e ricevette la terza approvazione direttamente da Cristo sul monte Verna, dove ebbe le stimmate che portò per due anni, cioè fino alla morte. Quando poi a Dio piacque chiamarlo a sé per dargli il meritato premio, san Francesco raccomandò ai suoi discepoli, come fossero suoi eredi, di continuare ad amare la Povertà; dal suo grembo poi la sua anima salì in Paradiso e lui per il suo corpo non volle altra tomba che la nuda terra.
Finito di raccontare la storia di san Francesco, san Tommaso spiega a Dante che l'altro principe può ben aver dedotto chi sia (si tratta di san Domenico); egli ha avuto il merito di tenere la rotta della nave (la Chiesa) mentre navigava il altro mare; per chi segue i suoi comandi è possibile solo caricare buona merce, ma i suoi seguaci (i domenicani) sono diventati così ghiotti da disperdersi per le selve, e le pecore più lontane tornano all'ovile sempre prive del latte, quindi questi frati avidi perdono i doni spirituali per concentrarsi sull'accumulo di beni. Pochi sono i domenicani rimasti fedeli alla regola del loro pastore, così pochi che ci vuole poco panno per vestirli tutti. 
San Tommaso conclude il discorso dicendo che, se Dante è stato attento, e se richiama alla mente ciò che ha detto prima, gli sarà chiaro perché prima ha detto che i domenicani si arricchiscono di beni spirituali a patto di non farsi distrarre da quelli terreni ("Or se le mie parole non son fioche / e se la tua audienza è stata attenta, / se ciò ch'è detto a la mente revoche, / in parte fia la tua voglia contenta, / perché vedrai la pianta onde si scheggia, / e vedrà' il corregger che argomenta, / U' ben s'impingua, se non si vaneggia"). 

Il canto XI è tutto incentrato sulla figura di san Francesco d'Assisi e sul suo voto di povertà. A parlarci di lui è il domenicano san Tommaso, quindi un discepolo dell'altro principe della cristianità lo celebra, quasi come se fosse il riconoscimento di un leggendario compagno d'armi.
Se la storia di san Francesco è un grande elogio all'abbandono dei beni materiali, ne abbiamo una prova già nei versi con cui il canto si apre, in cui Dante disegna la netta distinzione tra la grettezza del mondo dei vivi e la magnificenza del Paradiso, in questo canto diventa anche lo spunto per una critica alla corruzione che infesta l'ordine domenicano. San Tommaso, con la grande modestia che è propria di chi è privo di rancori e gelosie, elogia i pregi dell'altro ordine e segnala i difetti del proprio, indicando la Povertà dei francescani come antidoto alla corruzione morale e all'avidità di alcuni domenicani.

Francesco Abate 
   

2 commenti:

  1. Ma perché non c'eri tu come professore quando ho dovuto studiare io la Divina Commedia al liceo? Di sicuro non mi sarei annoiata.
    Ciao Francesco.

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    1. Ciao Morgana e grazie per il complimento.
      Anche io al liceo ebbi una professoressa che non me la fece amare quest'opera, per fortuna l'ho riletta dopo tanti anni.
      Tanti professori purtroppo ripetono la pappardella e mancano di passione. Io ci metto la passione, pur avendo dei limiti di preparazione.
      Sono felice tu abbia gradito la lettura. Spero ti piaceranno altrettanto i prossimi post.

      Buona serata.

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