domenica 29 settembre 2019

COMMENTO AL CANTO XIV DELLA "DIVINA COMMEDIA - PARADISO"

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l'acqua in un ritondo vaso,
secondo ch'è percorsa fuori o dentro.
Terminato il discorso di san Tommaso, inizia a parlare Beatrice. Il canto XIV inizia col poeta che ricorda il movimento dell'acqua in un vaso rotondo, le cui onde vanno dall'esterno all'interno o viceversa a seconda del punto in viene percosso lo stesso; a ricordargli questo fenomeno sono le voci di san Tommaso, che dal cerchio dei beati arriva al centro, e di Beatrice, che dal centro della corona giunge fino alla ghirlanda splendente. 
Beatrice manifesta ai beati un dubbio che Dante non ha ancora espresso, chiede se la luce che li avvolge resterà con loro dopo la resurrezione dei corpi che avverrà col Giudizio universale e, se essa continuerà a splendere, come potranno gli occhi osservarla senza soffrirne. 
Le anime, sentendo la domanda di Beatrice, si animano di ancora maggiore gioia, e questo si manifesta nella loro danza, così come spesso per la maggior allegria le persone che danzano aumentano il ritmo dei movimenti e il volume della voce ("Come, da più letizia pinti e tratti, / a la fiata quei che vanno a rota / levan la voce e rallegrano li atti, / così, a l'orazion pronta e divota, / li santi cerchi mostrar nova gioia / nel torneare e ne la mira nota"). Vedendo quello spettacolo, l'autore afferma che chi si lamenta del fatto che la vita terrena finisca, lo fa perché non ha visto lo spettacolo celeste e non sa quanto ristoro (refrigerio) può dare l'eterna pioggia (l'etterna ploia), che è metafora della grazia di Dio. Ogni beato canta tre volte le lodi di quel Dio uno e trino che da nulla è limitato ed è limite di tutto (non circunscritto, e tutto circunscrive). Interessante è l'interpretazione dei versi 28-29 ("Quell'uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e due e uno") che fece il Lombardi, secondo cui essi sono costruiti per far coincidere i numeri opposti dei due versi (l'uno del verso 28 col tre del 29, il due con l'altro due, il tre del 28 con l'uno del 29) al fine di creare questi significati: quell'unico Dio che vivrà e regnerà sempre in tre persone; Gesù Cristo, che vivrà e regnerà eternamente nelle due nature, divina e umana; quelle tre divine persone che vivranno e regneranno sempre unite. 
Dante ode dalla luce più splendente del cerchio interno, quella di re Salomone, una voce più umile e reverente di quella che forse ebbe l'arcangelo Gabriele quando annunciò la gravidanza a Maria (lo ipotizza, nel Vangelo non viene detto nulla circa la voce dell'arcangelo). Salomone spiega che la luce sarà emanata dalle anime beate finché in loro arderà l'amore per Dio, e questo durerà fin quando durerà il Paradiso, quindi per sempre ("...Quanto fia lunga la festa / di paradiso, tanto il nostro amore / si raggerà dintorno cotal vesta"); la chiarezza della luce dipende dall'intensità di quell'amore, il quale dipende dalla visione di Dio, che a sua volta dipende dalla grazia illuminante; quando alle anime sarà restituito il corpo purificato, esse saranno più gradite a Dio e perfette, in loro si accrescerà il lume della grazia e aumenterà la loro visione di Dio, conseguentemente aumenterà l'ardore del loro amore e quindi l'intensità della luce da loro emanata. La luce irradiata dall'anima, spiega ancora, sarà però vinta in intensità da quella del corpo risorto, così come il carbone ardente brilla più della fiamma, ma non infastidirà gli occhi, che saranno capaci di percepire tutto ciò che costituisce la beatitudine ("Ma sì come carbon che fiamma rende, / e per vivo candor quella soverchia / sì che la sua parvenza si difende, / così questo fulgor che già ne cerchia, / fia vinto in apparenza da la carne / che tutto dì la terra ricoperchia; / né potrà tanta luce affaticarne, / ché li organi del corpo saran forti / a tutto ciò che potrà dilettarne"). Le anime dei beati accompagnano la fine del discorso di Salomone con un "Amen" così tempestivo da far pensare al poeta che bramino ardentemente di tornare in possesso dei corpi, forse non tanto per loro stessi quanto per rivedere le persone che amarono ancor prima di diventare luci eterne.
A un certo punto intorno ai cerchi di beati si manifestano delle luci ancora più brillanti, la cui apparizione ricorda al poeta l'accendersi delle prime tenui stelle nel chiaro cielo della primissima serata; questo nuovo cerchio di beati inizia a girare intorno agli altri due. La luce delle anime, vera manifestazione dello Spirito Santo, si manifesta così intensamente e così subitamente che Dante ne rimane abbagliato. Subito gli si mostra Beatrice, così bella e splendente da risultare impossibile al poeta ritrovarne il ricordo; è una bellezza che va al di là delle capacità umane.
Gli occhi di Dante recuperano la capacità di vedere e subito si accorge di essere asceso al cielo superiore con la sua guida, il cielo di Marte; se ne accorge perché vede il pianeta di colore rosso e più colorato del solito. Dante fa offerta (feci olocausto) di sé stesso a Dio con quelle parole che sono dentro al cuore e non necessitano di essere espresse col linguaggio, perché sono comuni a tutti. Non ha ancora finito di fare la sua preghiera, che Dio mostra di aver gradito e arrivano dei raggi di luce con delle anime; appena le vede, il poeta loda Dio (Elios si riferisce al Sole e altre volte chiama Dio col nome della stella) che così abbellisce (addobbi) le anime. I nuovi beati sono brillanti come le stelle della Via Lattea, la galassia che si estende nel cielo tra i poli del mondo e sulla cui natura gli astronomi dell'epoca non erano concordi, e si dispongono in modo da formare una croce greca (il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo - la croce greca ha gli assi di uguale lunghezza, quindi all'interno di un cerchio forma quattro quadranti uguali; la croce normale, con l'asse orizzontale più corto, non sarebbe iscrivibile in un cerchio). A questo punto la memoria labile vince l'ingegno, così il poeta si scusa e ammette di non saper descrivere con un esempio quel che vide, ma il vero cristiano, che prende la sua croce e segue l'esempio di Cristo, sarà più disposto a scusarlo di tale rinuncia quando vedrà in quella luce balenare la figura di Gesù.  Leggendo i versi da 102 a 108, si nota come la parola Cristo venga fatta rimare solo con sé stessa.  ("Qui vince la memoria mia lo 'ngegno: / ché quella croce lampeggiava Cristo, / sì ch'io non so trovare essempro degno; / ma chi prende sua croce e segue Cristo, / ancor mi scuserà di quel ch'io lasso, / vedendo in quell' albor balenar Cristo").
Le luci delle anime si muovono lungo i bracci della croce in orizzontale (di corno in corno) e in verticale (tra la cima e 'l basso), scintillando intensamente ogni volta che si incontrano e si trapassano; allo stesso modo si vedono le particelle del pulviscolo atmosferico nel raggio di luce che rompe il buio di una stanza, le quali si muovono disordinatamente e a velocità diverse. Il poeta viene poi rapito da un canto melodioso, di cui però non riesce a capire le parole, così come anche l'orecchio di chi non conosce la musica può essere rapito dal suono che scaturisce dall'arpa o dalla giga (un antenato del violino). Si accorge che dev'essere un inno di lode a Cristo, perché sente più volte le parole "Risorgi" e "Vinci", e di questo si innamora più di qualsiasi altra cosa vista e provata fino a quel momento. Si scusa infine se al momento è estasiato più da questo canto che dagli occhi di Beatrice, ma si giustifica ricordando che essi acquistano splendore man mano che si sale nei cieli superiori, così come avviene alle anime, e dal momento in cui è arrivato al cielo di Marte ancora non li ha guardati; in pratica sta già anticipando che, una volta guardati gli occhi della sua guida in quel cielo, li amerà più di prima e più del canto che ora così intensamente lo rapisce.

Francesco Abate   
   

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