domenica 3 dicembre 2017

COMMENTO AL CANTO VIII DELLA "DIVINA COMMEDIA - INFERNO"

Dante inizia il verso dicendoci che "Io dico, seguitando..." e su questo "seguitando" i critici hanno fatto delle ipotesi interessanti. Ovviamente il canto VIII segue i sette precedenti, ma è la prima volta che il poeta introduce i suoi versi dicendoci che sta proseguendo ciò che ha già raccontando. Per i critici più antichi, tra cui Boccaccio, questo è il primo canto scritto dal poeta dopo l'esilio. Aveva già scritto i primi sette canti e, precisamente nel 1306, gli furono inviati da Firenze presso il suo nuovo soggiorno (era ospite dei Malaspina). Quindi questa brevissima introduzione sarebbe dovuta ad un'interruzione della stesura dell'opera: il poeta, dopo una lunga pausa, riprende a scrivere e prosegue dal punto in cui l'aveva lasciata. Non tutti i critici però concordano con questa ipotesi, molti ritengono che la Divina Commedia fu scritta in blocco, senza alcuna interruzione.
Dante vede delle fiamme usate per comunicare tra le due torri poste sulle due sponde dello Stige. Probabilmente stanno comunicando l'imminente arrivo delle due anime, ecco perché su una torre le fiamme accese sono due, e l'altra torre segnala di aver ricevuto il messaggio. Questa immagine richiama le segnalazioni tra torri all'epoca degli antichi romani: i demoni si scambiano informazioni così come i soldati facevano in epoche antiche nel mondo dei vivi. Il poeta si rivolge alla sua guida, "mar di tutto 'l senno", e gli chiede tre cose: che vogliono dire le due fiammelle accese per prime, cosa hanno risposto dall'altra torre e chi sono quelli che tramite esse comunicano. Virgilio non gli dice chi abbia comunicato, gli dice solo che può già vedere cosa sta accadendo, quindi cosa è stato sollecitato con quella comunicazione. La guida risponde quindi spronandolo a guardare da sé, la terza domanda invece la ignora completamente. Sulle acque putride dello Stige, Dante vede avanzare una barchetta. Per rendere l'idea della velocità con cui naviga l'imbarcazione, il poeta la paragona alla freccia lanciata dalla corda dell'arco: "Corda non pinse mai da sé saetta / che sì corresse via per l'aere snella, / com'io vidi una nave piccioletta / venir per l'acqua verso noi in quella". La barca è guidata da Flegias, il demone incaricato di condurre le anime nella città di Dite. Nella mitologia greca, uccise sua figlia Coronide e bruciò il tempio di Delfi per vendicarsi del dio Apollo che l'aveva violentata. Il ruolo di Flegias non è chiaro per i critici, che ancora oggi si chiedono se egli sia di fatto il traghettatore delle anime sullo Stige, o se la sua apparizione sulla barca sia un evento eccezionale dovuto all'arrivo di Dante e Virgilio. Stando ad altri versi dell'opera, risulta che le anime vengano scagliate direttamente nel cerchio loro destinato senza varcare il fiume fangoso, quindi non è detto che a Flegias spetti stabilmente il ruolo di traghettatore. Flegias giunge al cospetto dei due viaggiatori urlandogli contro quello che potrebbe essere un rimprovero o una minaccia: "Or se' giunta, anima fella!". Se intendiamo il termine "giunta" come "arrivata", può quasi sembrare un rimprovero, ma per alcuni critici potremmo anche tradurlo come "presa", trasformando la frase in una minaccia. Flegias si rivolge solo a Virgilio (lo deduciamo dall'appellativo "anima fella", cioè anima colpevole), a suo avviso colpevole di aver condotto fin lì un vivente. Virgilio come sempre non si perde d'animo e risponde a tono, prima dicendogli che grida a vuoto ("Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto"), poi che deve svolgere il suo compito e traghettarli sull'altra sponda dello Stige ("più non ci avrai che sol passando il loto"). A questo punto la furia di Flegias si trasforma in rammarico, prende atto di non potersi opporre in alcun modo ad una volontà superiore. Sulla barca sale prima Virgilio, poi Dante, ma solo quando sale il secondo la barca sembra appesantirsi. Questo ovviamente accade perché le anime, separate dal corpo, non hanno peso. 
Navigando sullo Stige, i due poeti si imbattono nella figura di Filippo Argenti. Di questo personaggio fiorentino non si hanno molte notizie. Appartenne alla famiglia degli Adimari e fu soprannominato "Argenti" perché fece ferrare d'argento il suo cavallo. Compare anche nel Decamerone di Boccaccio e nella Novella di Sacchetti, in entrambi è descritto come un personaggio prepotente e violento. Anche il figlio di Dante, Iacopo, lo descrisse come un uomo di cui non era ricordato un solo atto nobile. Non godeva quindi di grande stima tra gli intellettuali fiorentini dell'epoca, inoltre si pensa fosse fratello di Boccaccio Adimari, colui che si impadronì dei beni di Dante non appena quest'ultimo fu esiliato. Se Filippo Argenti non era amato in generale, è chiaro che Dante aveva qualche ragione più degli altri per avere di lui poca stima. L'incontro tra Dante e l'Argenti è quasi uno scontro. Dapprima il dannato sbuca dal fiume e, sporco di fango, chiede chi sia l'anima sulla barca e lo fa convinto che anch'essa sia destinata ad essere immersa lì con lui. Dante risponde subito con disprezzo, sottolineando che "S'i' vegno, non rimango", rinfacciandogli in pratica il fatto che lui è lì di passaggio, non destinato all'orribile pena cui è sottoposto l'interlocutore. L'Argenti non si sbilancia e non rivela la sua identità, si identifica semplicemente come uno dei tanti dannati ("Vedi che son un che piango"). Il poeta però l'ha riconosciuto e non mostra per lui alcuna pena: "E io a lui: << Con piangere e con lutto, / spirito maladetto, ti rimani; ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto >>". A questo punto si rivela l'indole violenta del dannato, che tende le mani nel tentativo di farlo cadere nello Stige, ma viene respinto da Virgilio che gli dice: "Via costà con li altri cani!". La guida poi si comporta con Dante come una madre nei confronti del figlio spaventato: lo abbraccia, gli bacia il volto, elogia il suo sdegno nei confronti del dannato con versi simili a quelli dedicati alla Madonna nel Vangelo di Luca ("Alma sdegnosa, / benedetta colei che 'n te s'incinse") e si lascia andare ad un'invettiva contro chi ha provato a fargli del male ("Quei fu al mondo persona orgogliosa; / bontà non è che sua memoria fregi: / così s'è l'ombra sua qui furiosa"). L'invettiva di Virgilio contro Filippo Argenti viene poi rivolta a tutti i nobili reggenti fiorentini, i quali pagheranno le loro malefatte annegando in quel fiume fangoso: "Quanti si tengon or là su gran regi / che qui staranno come porci in brago, / di sé lasciando orribili dispregi!". Finita l'invettiva di Virgilio, vediamo una versione meno compassionevole e molto più crudele di Dante che, come detto sopra, aveva validi motivi per portare rancore a Filippo Argenti. Il poeta dichiara che sarebbe felice di veder annegare il dannato nelle acque fangose e Virgilio lo rassicura dicendogli che potrà godersi lo spettacolo prima di giungere all'altra riva. Dante finalmente vede le altre anime immerse nello Stige avventarsi contro Filippo Argenti, dargli addosso come fosse un'aggressione programmata (con tanto di urlo "A Filippo Argenti!", un incitamento ad attaccarlo) e fare strazio di lui in modo tale "che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio". Tanta è la sofferenza patita dal dannato che contro sé stesso avventa i denti, si morde come se volesse punirsi per essersi condannato a quella pena. In questa immagine possiamo vedere ancora una volta le anime dannate ridotte come animali: in branco si avventano su uno e lo straziano, usando i denti e non le mani.
Lasciatisi dietro lo spettacolo degli iracondi che fanno scempio di Filippo Argenti, i viaggiatori sono scossi da un terribile urlo. Sono arrivati nei pressi della città di Dite, dichiara Virgilio. Dite è il nome latino di Plutone, dio dell'inferno pagano, che Dante identifica con Lucifero. Per capire come il poeta immaginava la città di Lucifero, ci bastano i versi 69-75. Dante ci dice che già vede le sue "meschite", cioè le sue moschee. Ha la tipica struttura della città medievale, con mura di cinta e torri. Dante però vede moschee, quindi le torri il poeta le immaginava come minareti. La città è simbolo della rivolta contro Dio, quindi l'autore vi inserisce delle immagini che richiamano una religione diversa da quella Cristiana. Dante inoltre le mura le vede rosse e Virgilio spiega che il fuoco eterno che brucia dentro la città le fa apparire così. Quindi sappiamo che questa città, cinta di mura e con torri simili ai minareti, al suo interno ospita le eterne fiamme infernali. Per spiegarci la presenza del fuoco nell'Inferno, immagine a noi familiare ancora oggi, dobbiamo ricordare che per san Tommaso il fuoco impedisce il libero moto dell'anima, precipitandola in un tormento senza speranza. I poeti si trovano con Flegias alle porte della città. A causa del fuoco, Dante nota che le mura sembrano di ferro, sono cioè di colore rosso. A questo punto scatta una rivolta dei demoni contro il viaggio del poeta. Flegias dà il segnale con un grido. Sopra le porte compaiono un numero indefinito ("più di mille") di demoni che iniziano ad urlare: "<< Chi è costui che sanza morte / va per lo regno de la morta gente? >>". Virgilio fa loro segno di volergli parlare da solo e loro, sfidando la volontà divina una seconda volta (perché furono angeli ribelli, compagni di Lucifero), gli comandano perentoriamente di venire da solo in qualità di prigioniero, colpevole di aver condotto un vivente fin lì, e di lasciare che Dante torni senza guida tra i vivi seguendo la strada percorsa, sicuri che non possa farcela ("<< Vien tu solo, e quei sen vada / che sì ardito intrò per questo regno. / Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai, / che li ha' iscorta sì buia contrada >>"). Dante, sentite queste parole, è terrorizzato dall'idea di restare solo a vagare per i cerchi infernali e chiede alla sua guida di non abbandonarlo. Virgilio lo rassicura, gli ricorda che nessuno può fermare il loro cammino voluto da Dio, lo invita a non perdere la speranza e ad aspettarlo lì. Il poeta rimane in attesa mentre la sua guida va a parlare con i demoni. Il dialogo non dura molto, ma non porta i frutti sperati, infatti i demoni corrono dentro le mura e chiudono le porte, mostrandosi intenzionati ad impedire loro il cammino. Virgilio torna da Dante corrucciato, deluso ed arrabbiato per via della resistenza opposta dai demoni, ma rassicura il suo discepolo dicendogli che non è la prima volta che essi si dimostrano tanto temerari. Tentarono di opporsi anche alla discesa di Cristo nell'Inferno, quando trasse dal Limbo le anime pie (episodio citato nel canto IV dell'Inferno) per portarle con sé. I demoni cercarono di impedire l'ingresso di Cristo attraverso la porta dell'atrio infernale, la porta "la qual senza serrame ancor si trova" (non ha serrature, non può essere chiusa) e su cui Dante lesse "la scritta morta", ma fallirono. In pratica non è una novità la ribellione dei demoni alla volontà di Dio, alla fine però essi escono sconfitti, perciò Virgilio è sicuro che il cammino non sarà interrotto.

Francesco Abate  

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